La destra venezuelana all’attacco dell’Essequibo

di Geraldina Colotti

Alla parata militare, in Venezuela, il comandante grida la consegna: “Il sole del Venezuela nasce nell’Essequibo!” E le truppe rispondono: “Nasce nell’Essequibo!”. Quel comandante è Nicolas Maduro, presidente del Venezuela e dunque anche capo della Forza Armata Nazionale Bolivariana. Un presidente che ha continuato la politica di pace con giustizia sociale messa in campo da Hugo Chavez e diffusa da vent’anni con tenacia dal proceso bolivariano, sia nella regione che negli organismi internazionali.

Quella consegna è dunque un grido di libertà, sovranità e indipendenza, non di aggressione. Un grido che sale dal più profondo dello spirito bolivariano, che ha liberato i popoli per liberare un continente. E’ il primo punto che si deve considerare per intendere la questione dell’Essequibo, un territorio conteso tra Venezuela e Guyana da oltre 100 anni.

Un punto importante per inquadrare il doppio discorso della destra venezuelana che ha sempre cercato di cavalcare la questione delle acque contese, e che anche questa volta cerca di mascherare i suoi interessi reali: consegnare le risorse e la sovranità del paese nelle mani dell’imperialismo in cambio di vantaggi e prebende. Una vecchia storia, confermata dal contenuto della telefonata della signora Vanessa Neumann, designata come “ambasciatrice” del Venezuela a Londra dall’”autoproclamato” presidente Juan Guaidó. Nella conversazione resa pubblica dal governo bolivariano, Neumann vuole rassicurare i suoi padrini circa la consegna dell’Essequibo ai grandi interessi imperialisti, una volta messe le mani sul Venezuela: un piano a cui la sua banda si sta dedicando con ogni mezzo dall’autoproclamazione del burattino 2.0.

Gli interessi della Gran Bretagna in Guyana sono noti e di lunga data. La con­tro­ver­sia tra Venezuela e Guyana ha infatti ori­gine nella sto­ria colo­niale dei due paesi, quando la zona che arri­vava fino al fiume Esse­quibo era di domi­nio spa­gnolo. In seguito la Gran Bre­ta­gna ha sosti­tuito i Paesi Bassi nel pos­sesso dei ter­ri­tori limi­trofi, fino a oltre­pas­sare il con­fini san­citi e a pro­vo­care la rot­tura delle relazioni con il Vene­zuela.

L’arbitrato di Parigi, nel 1899, ha con­cesso il ter­ri­to­rio in disputa alla Guyana Bri­tan­nica. Il Vene­zuela non ha però rico­no­sciuto valida la firma del trat­tato a cui erano pre­senti come por­ta­voce Rus­sia, Inghil­terra e Usa, ma non rap­pre­sen­tanti dei suoi inte­ressi reali. Nel 1966, quando la Guyana diventò indi­pen­dente, venne fir­mato l’accordo di Gine­vra, che sta­bi­lì una riso­lu­zione ami­che­vole della controversia.

Con il governo Cha­vez e poi con quello di Maduro, il Vene­zuela ha cer­cato di ado­pe­rarsi in que­sto senso, nel rispetto del diritto internazionale e anche senza intral­ciare i pro­getti di Geor­ge­town quando ha chie­sto all’Onu di ampliare la sua piat­ta­forma con­ti­nen­tale, pas­sando da 200 miglia a 250 miglia nau­ti­che. Che il governo bolivariano cercasse una soluzione amichevole e di reciproco vantaggio risultava logico e consonante con il progetto di integrazione della regione latinoamericana e caraibica.

La Guyana fa parte di Petro­ca­ribe, un orga­ni­smo in cui il petro­lio vene­zue­lano viene scam­biato con beni e ser­vizi e serve allo svi­luppo non asim­me­trico dei paesi poveri che ne fanno parte.  Un atteggiamento che la destra venezuelana ha sempre osteggiato, mostrando al contrario un nazionalismo tanto aggressivo quando falso. Com’è già avvenuto altre volte (per esempio sull’interpretazione della costituzione che non hanno mai rispettato, ma che sempre cercano di piegare ai propri interessi) i politici di opposizione straparlano. Accusano i “traditori comunisti” di aver consegnato le acque contese “ai cubani e ai cinesi”.

Per nascondere le vergognose dichiarazioni della signora Neumann, rivisitano le dichiarazioni di Chavez e poi di Maduro sul tema dell’Essequibo presentandole come “prova”.  Cercano di strumentalizzare una dichiarazione di Chavez del 2004 (l’anno della creazione dell’Alba contro l’Alca degli USA), resa dopo la sua visita in Guyana: “Il governo venezuelano – aveva detto il Comandante- non sarà di ostacolo per qualunque progetto venga attuato nell’Essequibo il cui proposito sia quello di portare beneficio agli abitanti dell’area”. Alla popolazione, non alle multinazionali.

Sulla pre­senza di mul­ti­na­zio­nali stra­niere nelle acque con­tese, infatti, il governo bolivariano ha sem­pre posto un veto. La Guyana, negli anni, aveva già violato 15 volte l’accordo di Ginevra, per esempio autorizzando lo sfruttamento di una miniera di oro nel territorio conteso. Ma il conflitto tra Georgetown e Caracas si è riacceso a marzo del 2015, quando il governo guya­nese ha accor­dato a Exxon Mobil il per­messo per ese­guire tri­vel­la­zioni su un’estensione di 26.800 km qua­drati, che includeva l’area oggetto di disputa.

Un pro­getto da 200 milioni di dol­lari che — nel terzo paese più povero dell’America latina — dovrebbe pro­se­guire per dieci anni.

Geor­ge­town ha chie­sto a Cara­cas di non inter­fe­rire nelle esplo­ra­zioni che riguar­dano l’area di Sta­broek Block, nella conca sita tra Guyana e Surinam. Ad aprile, l’allora mini­stra degli Esteri vene­zue­lana, Delcy Rodri­guez, ha però inviato una let­tera di pro­te­sta a Jeff Simon, gerente regio­nale della com­pa­gnia, inti­man­do­gli di non pro­ce­dere alle tri­vel­la­zioni “non auto­riz­zate” nelle aree marit­time e sot­to­ma­rine che Cara­cas con­si­dera di sua per­ti­nenza. La deci­sione – ha scritto allora Rodri­guez — “con­trad­dice aper­ta­mente il rispetto del diritto inter­na­zio­nale e si inse­ri­sce arbi­tra­ria­mente in una disputa ter­ri­to­riale la cui solu­zione è di per­ti­nenza esclu­siva delle due nazioni”.

Al governo vene­zue­lano, la deci­sione di Exxon era sem­brata un’ulteriore pro­vo­ca­zione, nell’acuirsi della crisi fra Washing­ton e Cara­cas. Il 9 marzo, Obama aveva infatti defi­nito il Vene­zuela “una minac­cia inu­suale e straor­di­na­ria per la sicu­rezza nazio­nale degli Stati uniti” e così aveva moti­vato un pac­chetto di san­zioni con­tro il governo Maduro, aprendo la strada al blocco economico-finanziario imposto ora da Trump.

In seguito, il 23 dicembre del 2018, mentre la Guyana attraversava una grave crisi di governo, due petroliere contrattate dalla ExxonMobil – la Ramform Thethys, battente bandiera delle Bahamas, e la Delta Monarch, di Trinidad e Tobago– hanno iniziato le esplorazioni nelle acque contese. Ritenendola una violazione degli accordi di Ginevra, la marina venezuelana ha allora espulso le petroliere dalla zona in disputa. Il ministro degli Esteri guayanese lo ha denunciato come un atto ostile. Inoltre, il 30 dicembre, il ministro della Difesa inglese, Gavin Williamson, ha dichiarato al ‎‎Sunday Times che Londra ritiene conclusa la sua precedente politica di “decolonizzazione” e che – oltre alle basi militari che già conta a Gibilterra, Cipro, nell’isola di Diego e Garcia e nelle Malvinas – intende aprirne una nuova nei Caraibi, probabilmente in Guyana, e renderla attiva nel 2022. Occorre anche aggiungere che l’altro vicino della Guyana è Surinam, ovvero la Guyana olandese, e che l’Olanda ha avuto un ruolo attivo nell’organizzazione dell’attacco via mare al Venezuela durante il tentativo di far entrare con la forza e l’inganno “l’aiuto umanitario” inviato dagli USA.

Questo è il secondo punto da rilevare: il petrolio nel contesto geopolitico, che vede il Venezuela al centro dello scontro di interessi per la ridefinizione di un mondo multipolare contro la nuova Dottrina Monroe voluta dagli USA. Dopo la vittoria del chavismo sulla IV Repubblica, le mul­ti­na­zio­nali devono pagare le tasse, garan­tire una par­te­ci­pa­zione mag­gio­ri­ta­ria a Pdvsa e il rispetto delle leggi del lavoro e di quelle sull’ambiente. Il governo socia­li­sta ha desti­nato gran parte dei pro­venti del petro­lio agli inve­sti­menti sociali. Mettere le mani su PDVSA, che prima dell’arrivo di Chavez era ridotta a un vero e proprio comitato d’affari dell’oligarchia subalterna agli USA, rimane un obiettivo prioritario per la banda di Guaidó e soci.

Per questo, vogliono testardamente tornare ai meccanismi della IV Repubblica, e per questo utilizzano strumentalmente anche le dichiarazioni di Maduro a proposito dei criteri utilizzati con l’Essequibo negli anni del Patto di Puntofijo: “Anni nei quali iniziò una campagna nella Forza armata Venezuela, attraverso i mezzi di comunicazione per instillare nella popolazione odio, disprezzo e razzismo, e prepararla psicologicamente a invadere la Guyana”, aveva detto il presidente.

Più consona alle “guerre umanitarie” che alla solidarietà tra i popoli, la destra mostra anche così il suo vero volto. E anzi lo esibisce con tracotanza, quando spiega che il vero obiettivo, adesso, è l’attacco diretto al presidente Maduro da portare un’altra volta all’ONU, il 26 settembre. Il suo paladino è Duque, il presidente fantoccio della Colombia, il cui governo ha passato l’esame sui diritti umani, con buona pace degli oltre 500 dirigenti indigeni e contadini ammazzati insieme a più di 250 ex guerriglieri.

E questo è il terzo punto da evidenziare: l’uso della retorica sui diritti umani come arma da guerra negli organismi internazionali, da rivolgere contro chi, come il Venezuela e Cuba, ne mette invece al centro la difesa garantendo al popolo prima di tutto i diritti basici, i diritti materiali.

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