di Geraldina Colotti
Il Venezuela dà battaglia all’ONU contro le conseguenze del blocco economico-finanziario imposto dagli USA e dai suoi vassalli, e denuncia la complicità di chi non vi si oppone. Oggi tocca al Venezuela, ma domani potrebbe toccare a chiunque voglia decidere in piena autonomia, ha detto il ministro degli Esteri venezuelano, Jorge Arreaza. E come possono quei governi europei che hanno trasformato il Mediterraneo in un cimitero marino dar lezione di diritti umani al Venezuela?
Ma, intanto, continua la farsa delle autoproclamazioni a livello internazionale. Continua la farsa del governo parallelo 2.0 del signor Juan Guaidó, che si crede presidente del Venezuela anche se nessuno lo ha eletto, e che ha inviato suoi rappresentanti nelle istituzioni internazionali che lo hanno riconosciuto. Una farsa che è giunta fino a far votare all’Organizzazione degli stati americani (OSA), l’attivazione del Trattato interamericano di assistenza reciproca (TIAR) contro il Venezuela, approvata da 12 paesi su 19.
Una procedura totalmente illegale. Il TIAR è stato firmato nel 1947 a Rio de Janeiro e prevede la mutua difesa dei paesi membri dell’Organizzazione degli stati americani. Una sorta di NATO latinoamericana. Il Venezuela se n’è ritirato nel 2012, insieme ai paesi dell’ALBA, così come si è ritirato dall’OSA. Secondo la costituzione bolivariana, è prerogativa del presidente della Repubblica approvare o attivare trattati. Ma la destra venezuelana disconosce Maduro come legittimo presidente e, nonostante la decisione del Tribunal Supremo de Justicia che ha considerato il parlamento fuori dalla legalità costituzionale per i continui attacchi alla sovranità del paese, insiste nell’approvare leggi senza fondamento giuridico.
In questo caso, ha riesumato il TIAR e ne ha chiesto l’attivazione all’OSA, dove siede uno dei suoi fantocci, un tal Gustavo Tarre. Un personaggio le cui dichiarazioni dovrebbero far saltare sulla sedia qualunque sincero democratico, visto che si è affannato a richiedere una misura d’aggressione contro il proprio paese che, oltre ad affamare la popolazione, può arrivare fino all’intervento militare.
A ulteriore puntello dell’aggressione contro il Venezuela all’ONU, c’è il rapporto dell’Alta Commissaria per i diritti umani, Michel Bachelet, che lo ha ampliato per l’occasione. Un rapporto che assume in toto il punto di vista dell’opposizione venezuelana più oltranzista e che chiede, tra le altre cose, la dissoluzione del Faes, le forze speciali di polizia, che sono state costituite nel 2017 per combattere “la grande criminalità e il terrorismo”, e le accusa di aver violato i diritti umani.
Come risposta, a luglio, dopo la presentazione del rapporto Bachelet, durante la promozione di circa 2.000 agenti di polizia, Maduro ha ringraziato il lavoro quotidiano svolto dalle FAES “per dare sicurezza al paese”. Di seguito, proponiamo un reportage effettuato ad agosto in Venezuela, proprio nella sede delle FAES, e un’intervista a un’alta funzionaria di polizia, nel Museo che conserva testimonianze delle “guarimbas”, le violenze dell’opposizione venezuelana.
Ero già entrata all’Helicoide nel 2011, ci ritorno nell’agosto del 2019. Durante la mia prima visita, Chavez era ancora in vita e la rivoluzione bolivariana si proiettava nel mondo come questa struttura avveniristica in forma elicoidale, costruita negli anni Cinquanta dall’architetto venezuelano Jorge Romero Gutiérrez, che si staglia sulla collina nota come Roca Tarpeya, nel centro-sud di Caracas.
In quell’occasione, avevo avuto modo di capire quanto profonda fosse la sfida assunta dal proceso bolivariano, impegnato a rinnovare nel presente gli ideali del socialismo, spingendosi nei punti più difficili come son quelli della relazione tra coercizione e trasformazione sociale. Avevo potuto constatare il grande sforzo messo in campo dal governo per educare con nuovi paradigmi forze tradizionalmente addestrate alla repressione come sono i corpi di polizia.
Nel 1984, all’Helicoide era stata trasferita la sede della Dirección de los Servicios de Inteligencia y Prevención (DISIP), che la rivoluzione bolivariana ha poi trasformato in Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional (SEBIN), e i cui uffici occupano i piani superiori di questa struttura, insieme a quelli della Policía Nacional Bolivariana (PNB). Nel 2011, a tenere i corsi di formazione erano spesso ex guerriglieri, perseguiti durante le democrazie camuffate della IV Repubblica: le democrazie nate dal Patto di Puntofijo, quelle dell’alternanza tra centro-destra e centro-sinistra, mandata in soffitta con la vittoria di Chavez, nel 1998.
Durante la IV Repubblica, si praticava la tortura nelle prigioni clandestine e si gettavano gli oppositori dagli aerei, benché il Venezuela fosse un raro puntino sulla mappa risparmiato dal dilagare delle dittature del Cono Sur. Pur non avendo il Venezuela aderito al Piano Condor, ed essere stato per questo rifugio di molti oppositori in fuga dalle dittature latinoamericane, nelle sue carceri segrete operavano personaggi come Luis Posada Carriles, che torturava i guerriglieri sotto il falso nome di “commissario Basilio”. In quel contesto avevano trovato appoggio nazisti come l’italiano Stefano Delle Chiaie, morto in questi giorni, arrestato a Caracas nel 1996.
A differenza di quel che è avvenuto in Italia, il dibattito su quel periodo storico, in Venezuela, è stato intenso e produttivo, come ha testimoniato la Ley Contra el Olvido (la Legge contro l’oblìo). Una legge che rivendica il diritto dei popoli alla rivolta, anche armata e anche contro le democrazie camuffate, ma non fonda sui processi e sui tribunali i parametri di un nuovo patto sociale frutto del passaggio alla lotta politica, aperta e di massa.
La costituzione bolivariana è profondamente garantista, e intende la difesa della legalità come ricerca della pace con giustizia sociale. La democrazia partecipata e protagonista che si declina nella Carta Magna bolivariana non lascia teoricamente margini alla doppiezza, implica un coinvolgimento senza riserve di ogni singolo soggetto, in quanto essere sociale ed essere sessuato.
E in questo senso si capisce il percorso di figure come quella di Freddy Bernal. Durante la IV Repubblica, Bernal ha fatto parte dei gruppi speciali di polizia del Ceta (Comando policial especializado), ma ha partecipato alla seconda insurrezione civico-militare del novembre 1992 e al movimento MBR-200 creato da Chavez prima della formazione del Partito socialista unito del Venezuela. Oggi, Bernal è un quadro dirigente del PSUV, particolarmente impegnato e generoso nella difesa del proceso bolivariano.
Nel libro Talpe a Caracas, cose viste in Venezuela avevo provato a trasmettere l’originalità e la ricchezza del “laboratorio bolivariano” a quanti, nei movimenti italiani, erano rimasti spiazzati “dalla presenza dei militari”. Dopo ogni sconfitta, la “vecchia talpa” ricomincia a scavare in profondità, portando a nuova luce altre rivoluzioni.
Nell’Università sperimentale della polizia (Unes) si parlava di marxismo e diritti umani, pensiero di genere e lotta di classe. Ai poliziotti si insegnava come trattare la violenza di genere in base alle leggi avanzatissime che le donne hanno ottenuto in Venezuela. E nei quartieri a più alta densità di delinquenza si diffondevano progetti di prevenzione come quello di scambiare el cuatro – lo strumento musicale tipico del Venezuela – con la pistola. Un invito rivolto ai “malandros” (i malandrini) venezuelani da parte di una rivoluzione intenzionata a rimuovere le cause che producono la delinquenza, sostituendo a quelli del capitalismo nuovi valori.
Ma che succede quando le mafie entrano pesantemente in campo come strumento dell’imperialismo e puntano proprio a distruggere quel nuovo ordine in gestazione? Che fare se la grande criminalità occupa le case popolari, terrorizzando o corrompendo i settori più interessati alla costruzione del socialismo? Che fare se quelle bande – finanziate dall’esterno e sostenute da solidi interessi all’interno – sono dotate di armi di grosso calibro che è difficile neutralizzare con mezzi ordinari?
Per esigenze di brevità, rimando al mio secondo libro sul Venezuela, intitolato “Dopo Chavez. Come nascono le bandiere”, sempre edito da Jaca Book. In quella sede, documento l’intreccio di interessi che fanno della questione criminale un asse della guerra di quarta generazione contro il socialismo bolivariano, considerato non a caso una “minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati Uniti” anche dal democratico Obama. Sulla questione della “sicurezza” appare evidente l’imbuto in cui si è cercato di spingere il laboratorio venezuelano: difendere la popolazione dalle mafie anche impiegando forze speciali e prestare così il fianco alle accuse di autoritarismo? Guardare da un’altra parte e alimentare la propaganda che accusa il governo di far crescere l’impunità? In tanti, nel chavismo, hanno rimproverato al governo il “troppo ecumenismo” che stava prendendo piede. Il governo ha allora creato l’Olp, l’Organizzazione per la liberazione del popolo, per indicare l’obiettivo della campagna per la sicurezza, che non ha però di certo seminato né raccolto fiori. Gestire uno stato costantemente sotto attacco delle forze avverse, non è una passeggiata.
La questione si è complicata ulteriormente con l’intreccio, sempre più evidente, tra violenza delle mafie e violenza fascista: che agisce, a più livelli, per destabilizzare il paese e far cadere il governo. Con il potente supporto dei media internazionali, che presentano mercenari e golpisti venezuelani sempre come “pacifici manifestanti”, puntando il dito da una parte sola, la trappola è così diventata una tagliola sempre più affilata per Nicolas Maduro.
Sotto accusa dei governi imperialisti che reprimono e torturano ma si sentono in dovere di imporre sanzioni e dare lezioni di “diritti umani” al Venezuela, sono soprattutto i collettivi, presentati come organismi paramilitari, e le FAES, le Forze d’azione speciali. Un corpo d’élite della PNB, creato da Maduro il 14 luglio del 2017 per combattere “la criminalità e il terrorismo”. Nel suo rapporto consegnato a luglio, l’Alta Commissaria Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, ne chiede lo scioglimento.
Nel testo, tutto spostato a favore della destra venezuelana, passano quasi sotto silenzio le condanne ricevute dai funzionari pubblici venezuelani per l’”uso eccessivo della forza” nelle manifestazioni, durante le quali ai poliziotti è proibito portare armi.
I consulenti di Bachelet sono stati personaggi come il giovane nazista Lorent Saleh, che progettava di far saltare le discoteche, trasformato in “difensore dei diritti umani” dopo aver ricevuto dal Parlamento europeo il Premio Sakharov per la libertà di opinione, e che è stato detenuto all’Helicoide.
A questo pensavo mentre guardavo Caracas dalla cima dell’Helicoide, contemplando l’estensione della Mision Vivienda, il gigantesco piano di costruzione di case popolari nei quartieri poveri della capitale. Aspettavo, con qualche preoccupazione e un certo senso di straniamento, l’arrivo della professora e del colonnello che mi avevano invitato a tenere un corso ai rappresentanti del FAES di tutte le regioni.
Quando arrivano, passiamo dalla luce del sole a quella artificiale, che proietta ombre sulle immagini di Chavez poste a grandezza naturale lungo tutto il cammino.
Nell’aula, mi trovo di fronte a un gruppo di uomini di diverse generazioni. Sul campo, agiscono a volto coperto, qui sono in borghese, ma hanno tutti l’arma alla cintura. Le donne non ci sono, avevano un corso concomitante. Guardo le facce nell’aula. Che cosa può dire loro una ex guerrigliera, una comunista convinta che sia il ruolo a determinare l’individuo al di là delle buone intenzioni?
Parlo della storia delle rivoluzioni, che assegnano i compiti più difficili a chi ha maggior convinzione. Parlo dei rapporti mezzi-fini e dei rischi che si corrono quando si è obbligati a impiegare le armi del nemico. Dico che i pericoli si raddoppiano quando ci si trova “dalla parte della ragione”, dalla parte dell’istituito, una situazione che i rivoluzionari sconfitti non hanno mai conosciuto. Parlo delle torture e delle leggi speciali. Parlo, soprattutto, della responsabilità, che non consente di sentirsi vittime quando si devono sperimentare i costi delle proprie scelte.
Una consapevolezza che i comunisti del secolo scorso avevano, sia se affrontavano il nemico con lo sciopero che se lo combattevano con le armi. Una forza che si è persa soprattutto nei paesi capitalisti, dove una sinistra accomodata e mansueta ha preferito derubricare il conflitto di classe a una faccenda di vittime e carnefici. E così il nazista Saleh, che voleva far saltare in aria le discoteche, va a piangere sulla spalla di Bachelet, erede di quella sinistra compatibile col capitalismo, che lo trasforma in vittima meritevole. Così, una destra ladrona e vigliacca, che in Venezuela tira il sasso e ritira la mano, diventa, a dispetto di ogni logica, simbolo di “libertà contro la dittatura”. Le domande dei poliziotti vertono sulla storia della guerriglia in Italia, ma soprattutto sulla situazione venezuelana, sono interessati al mio punto d’osservazione. Discutiamo a lungo in questa struttura gigantesca e brulicante, dove la rivoluzione si assume i compiti e i costi più duri.
La natura e la portata degli attacchi subiti dalla rivoluzione bolivariana sono testimoniati dal Museo Storico Hugo Rafael Chavez Frias, ospitato qui nel settore 7 del reparto Ordine Pubblico dell’Helicoide. Ci accompagna la funzionaria Yumaris Carina Cabrera Pacheco, direttrice di Pianificazione e bilancio della PNB. “Qui – spiega – c’è una piccola mostra degli anni delle guarimbas: 2014, 2017 e 2019”. Sono conservate alcune delle armi artigianali di quelli che, dai grandi media internazionali, venivano dipinti come “pacifici manifestanti”.
Vediamo mortai, sofisticate carrucole per il lancio di molotov, proiettili inesplosi, chiodi a quattro punte e un manichino a grandezza naturale vestito nei costosi abiti del mercenario-guarimbero (maschera antigas, casco, stivali eccetera). L’altra parte della barricata, quella che ha difeso il socialismo bolivariano, è rappresentata da un manichino-donna, anch’esso a grandezza naturale. La poliziotta ricorda quei momenti di “grida e di rabbia, poliziotti feriti e sabotaggio dei servizi pubblici. Momenti in cui si doveva stare attenti a ogni angolo e nei quali è stato necessario fare il proprio dovere fino in fondo: con umiltà, perché il tratto distintivo della polizia – tiene a sottolineare – è l’umiltà”.
Una caratteristica – spiega – che ha permeato la struttura fin dalla sua formazione. “Prima – ricorda – non avevamo una polizia nazionale. E’ stata creata da Chavez nel 2009. Dopo un anno di inchiesta nelle comunità, ha visto la luce nel 2010 come polizia di prossimità, di prevenzione, di vicinanza alla popolazione nella soluzione ai problemi quotidiani che producono insicurezza. Facciamo attività con i bambini, recuperiamo bambini di strada, andiamo nelle scuole a parlare di droga, a spiegare come funziona la polizia. Oggi, con l’istituzione della Gran Mision Quadranti di pace, istituiti dal presidente Maduro, c’è una ulteriore integrazione di tutti i soggetti che agiscono nella comunità e dei rappresentanti dell’ordine pubblico”.
Yumaris spiega che si tratta di territori che vanno dai 2 ai 5 km quadrati divisi per densità di popolazione e indice delittivo. Attualmente ve ne sono 2.119 in tutto il paese, corrispondenti a 79 municipi nei quali è più urgente intervenire. Un progetto nato nel 2013, che però con Maduro ha preso forma di intervento integrale rivolto a tutto il territorio, indipendentemente dall’indice delittivo. Oltre a funzionari di polizia e militari, vi partecipano dirigenti comunitari, consigli comunali e altre organizzazioni del potere popolare.
Chiediamo a Yumaris una opinione sul FAES. Come si inserisce il corpo d’élite nella filosofia di prevenzione e prossimità? E’ vero che la popolazione ne ha paura e a volte li respinge perché li identifica con la pura repressione? La poliziotta spiega: “Abbiamo dovuto adeguarci alla crescita di gruppi sempre più agguerriti che vengono riforniti di armi di grosso calibro e alla cui violenza non eravamo preparati. Il presidente ha creato allora un gruppo d’élite, molto professionale ed etico, che agisce in situazioni delicate, dopo aver svolto investigazioni accurate e solo per ordine del presidente. Il suo lavoro ha portato molti frutti, prima di tutto la netta diminuzione del numero di poliziotti uccisi. Molte comunità ci chiedono la presenza del FAES”. Parliamo dei femminicidi politici, che aumentano con l’aumento del potere delle donne. Qual è la situazione nella polizia? Quanto costa arrivare ai vertici della struttura? “Costa molto – risponde la funzionaria – si devono trascurare gli affetti e la famiglia, o allora portarsela qui, condividere tutto. E si deve lavorare molto, essere molto professionali. Le donne, in Venezuela, sono le prime e le seconde linee dell’ordine pubblico, nella polizia e nella Forza armata nazionale bolivariana. Sono in molti posti direttivi. Sono più esposte, ma sono guerriere”.