di Geraldina Colotti
Jorge Arreaza, ministro degli Esteri venezuelano, ci riceve nel suo ufficio a Caracas. Con il suo stile sobrio e incisivo, ha smascherato e schivato molte trappole tese al Venezuela a livello internazionale, evidenziando l’alto livello raggiunto dalla “diplomazia di pace” del suo paese. Gli chiediamo di spiegarci la lunga marcia del socialismo bolivariano negli organismi internazionali.
Tu sei uno dei volti più rappresentativi del chavismo. Qual è stato il tuo percorso e come ti sei trovato ad affrontare questa difficile congiuntura internazionale?
Io ho un percorso di studi in relazioni internazionali, concluso con un dottorato a Cambridge, nel Regno Unito, sugli Studi europei, che non ho mai avuto modo di esercitare. Mi è toccato farlo nel momento più complicato per le nostre relazioni internazionali: quando gli Stati Uniti hanno iniziato a imporci misure unilaterali, sanzioni. Trump ha minacciato di ricorrere all’opzione militare una settimana dopo che ho assunto l’incarico. E poi sono arrivati il blocco economico-finanziario, l’assedio diplomatico, la creazione di un gruppo di governi della regione usato per bloccare il Venezuela, per cercare di isolarlo mediante una campagna sporca di disinformazione. Un momento assai complicato che abbiamo saputo dipanare con molta pazienza. Il presidente, come sai, è stato ministro degli Esteri con il comandante Chavez per 6 anni. Siamo riusciti a venirne fuori con la nostra pazienza strategica, e a poco a poco abbiamo visto come con la diplomazia di pace bolivariana abbiamo regolarizzato le cose anche all’interno, in un processo simbiotico tra la politica internazionale e quella nazionale, che ha dato risultati. Oggi abbiamo molti amici tra i governi del sud: in Africa, in Asia, nei Caraibi e naturalmente nella Nostra America, amici nei movimenti sociali, che riconoscono questo nostro cammino di fermezza nei principi, capace di saper trionfare nelle difficoltà.
Nei discorsi di Chavez e poi di Maduro pronunciati in occasione di importanti appuntamenti internazionali, riecheggiano le grandi voci del Novecento, il Che Guevara, Fidel Castro. Qual è la matrice e l’indirizzo della diplomazia bolivariana?
Con il comandante Chavez, ma possiamo dire già con Bolivar, ci configuriamo come un attore internazionale sovversivo che si oppone all’ordine economico e politico dominante, perché non abbiamo paura della verità, che è anzi il nostro cammino. I portavoce internazionali della rivoluzione provengono da questo percorso: dire la verità di fronte a chi domina, a chi pretende di portarci alla fine della storia, di collocare le cose in una gerarchia inamovibile tra quelli che dominano e i dominati, tra gli sfruttatori e gli sfruttati. Per questo, possiamo dire che l’obiettivo della diplomazia bolivariana è la pace, l’intendimento. Il libertador parlava di equilibrio nell’universo, Chavez di un mondo multicentrico e multipolare, di un polo di equilibrio il cui risultato è la pace, la capacità di convivere non solo tra esseri umani ma con la natura. Un concetto semplice che, in fondo, è facile per noi portare avanti perché è l’essenza dell’essere umano: vivere in pace con il prossimo e con la natura.
Una diplomazia fuori dagli schemi, che ha portato Delcy Rodriguez, quando occupava il tuo stesso incarico, a scontrarsi con la polizia argentina che voleva impedirle di entrare nella riunione del Mercosur. Come si concilia questa attitudine con il protocollo?
Non voglio offuscare i meriti degli altri, ma la differenza tra chi si limita ad applicare il protocollo e la diplomazia di pace è che in Venezuela governa il popolo, l’essere umano, la comunità. Noi siamo guidati dai principi, non dalle corporazioni economiche, difendiamo gli interessi del popolo e di tutti i popoli del mondo, non quelli della borghesia. Non indossiamo nessuna camicia di forza, non ci sono temi preclusi o censurati che non possiamo affrontare perché è compito di altri paesi farlo per noi. Rispettiamo norme e protocolli, ma il Venezuela sarà sempre la voce dei senza voce. Invece, purtroppo, nei grandi consessi internazionali si ascoltano tanti discorsi, ma a parlare a nome del popolo sono in pochi.
In un sistema-mondo in cui la guerra – commerciale, finanziaria, mediatica o militare – è la cifra dominante dell’imperialismo, anche la parola pace è spesso retorica senza costrutto. Cosa vi distingue, e quale incidenza concreta, quali margini, può avere questa strategia? I paesi dell’Alba, non hanno potuto impedire la guerra contro la Libia.
Per alcuni, la pace è assenza di conflitto. Noi la definiamo in base ai principi che ci siamo dati, alla capacità di accettare le differenze e di rispettarle arricchendosene, in base alla sovranità di tutti, all’uguaglianza di condizioni e non al dominio, sia al proprio interno che sul piano internazionale. Perché devono esistere paesi che sono ricchi a livello finanziario ma non producono, mentre i paesi ricchi di risorse naturali come l’Africa e l’America Latina hanno i conti in rosso? E’ questa asimmetria che va risolta per ottenere la pace.
Nel contesto internazionale, governi alleati del Venezuela hanno conflitti fra loro, per esempio in Medioriente. Qual è la vostra linea di condotta anche rispetto al principio di autodeterminazione dei popoli che la rivoluzione bolivariana difende?
Alla base, per noi, c’è il rispetto per i processi interni di ogni paese, l’integrità territoriale e la non ingerenza negli affari interni. E c’è la nostra disponibilità ad adoperarci perché i nostri amici, che pensano in modo diverso da noi o fra loro, possano intendersi. L’obiettivo comune dev’essere quella di farla finita con gli interessi imperialisti, se non ci sono imperi, non ci saranno guerre. Il diritto all’autodeterminazione dei popoli, per noi, è irrinunciabile, siamo dalla parte di tutti quei popoli che non vogliono essere dominati, che vogliono essere liberi.
L’attacco al Venezuela sul piano internazionale evidenzia il tentativo dell’imperialismo Usa di costruire istituzioni artificiali, depotenziando dall’interno quelle esistenti quando impediscono i piani di aggressione. Questa politica dei fatti compiuti lascerà tracce da cui non si potrà prescindere in futuro?
Il tentativo di distruggere istituzioni già assai claudicanti come l’OSA, è evidente. Con l’arrivo di nuovi governi, con un cambio di fase, tutto questo sarà però solo un brutto ricordo, una macchia sulle relazioni internazionali che questi gruppi dovranno giustificare davanti ai loro popoli, e per questo finiranno nella spazzatura della storia. Per noi, invece, sarà l’occasione di ricordare come abbiamo sconfitto ancora una volta chi ha cercato di dominarci. Il Gruppo di Lima è un elemento dell’imperialismo che non lascerà niente. Il tempo ci darà ragione.
Il 17 ottobre, l’Assemblea Generale dell’ONU eleggerà 14 nuovi membri del Consiglio dei Diritti Umani, che comprende 47 paesi per un periodo di tre anni a partire dal prossimo gennaio.
Fino al 3 ottobre, il gruppo regionale dell’America latina aveva proposto solo Venezuela e Brasile, per i due posti al consiglio, poi è sorta la candidatura del Costa Rica contro il Venezuela. Quale sarà la vostra strategia?
Preferisco non anticipare niente prima di quel giorno.
Dall’America Latina all’Europa, l’attacco al Venezuela viene usato a fini di politica interna, soprattutto quando vi sono rivolte contro le politiche neoliberiste. Quel che sta accadendo in Ecuador, in Honduras, in Colombia indica un nuovo risveglio dei popoli nel continente latinoamericano?
I governi di destra sono molto spaventati, sono deboli, parte di questa paura e debolezza la esprimono quando attribuiscono alla rivoluzione bolivariana, e in particolar modo al presidente Maduro, il potere di bruciare l’Amazzonia, di riempire di petrolio le piazze del Brasile, di destabilizzare l’Ecuador, di dissolvere il congresso in Perù. Duke arriva al punto di costruire prove false per sostenere che la situazione in Colombia è colpa di Maduro. Una situazione ridicola che, con il risveglio dei popoli che si sta annunciando, finirà nella spazzatura della storia.
Che ruolo ha l’Europa?
In Europa, purtroppo, governano le grandi corporazioni. Washington è l’espressione più importante dell’imperialismo, ma lo sono anche Berlino e le altre capitali europee. Bisogna fare un grande sforzo affinché nel mondo si instauri una vera democrazia nella quale i popoli abbiano accesso al potere. Nonostante le contraddizioni interne, l’Europa ha una posizione subalterna agli interessi nordamericani, non apporta niente al progresso dell’umanità come invece stanno cercando di fare altri poli in cui si trovano la Russia la Cina, la stessa Africa che si va costruendo come un polo di potere.
E l’Italia?
Consideriamo positiva la posizione assunta nei confronti del Venezuela, perché ha costituito una voce dissonante all’interno dell’Unione europea, insieme alla Grecia, prima che passasse a essere governata dalla destra. I rappresentanti di tutti i governi europei che non hanno riconosciuto il presidente Maduro, sono comunque rimasti qui. Con un grande gesto di apertura diplomatica e di tolleranza, Maduro ha permesso che rimanessero nonostante le loro posizioni, e si sa che le relazioni tra Stato e Stato avvengono a livello di governo, non attraverso figure “autoproclamate” e finte che non hanno alcuna rappresentanza. Come ha ammesso pubblicamente lo stesso ministro degli Esteri spagnolo, i governi europei si sono lasciati trasportare dagli Stati Uniti e ora stanno cercando di ricalibrare il loro atteggiamento.
Le banche europee continuano però a impedire la circolazione dei fondi del Venezuela, mentre il blocco economico-finanziario a livello internazionale si va inasprendo. Quanto pesa attualmente questa situazione sul paese e quali sono le strategie per farvi fronte?
L’imperialismo sta assaltando il Venezuela. In un mondo dominato dalle banche e dalla finanza internazionale agli ordini degli USA, l’imperialismo può fare quello che vuole. Ma, che sia chiaro, quando le persone muoiono perché non trovano una medicina o non si possono operare, quando non hanno abbastanza da mangiare, la responsabilità è di chi sta a Washington, dei signori delle banche. Noi possiamo cercare di sviluppare la nostra economia, di produrre molti più alimenti di prima come già stiamo facendo, di rafforzare alleanze con Russia, Cina, Vietnam. Stiamo riuscendo a camminare con le nostre gambe, ci stiamo sganciando dagli USA, ma le distorsioni alla nostra economia arrivano da ogni parte: dagli Stati Uniti, dalle banche europee. Il bloqueo genera inflazione, penuria, perturba il rapporto tra domanda e offerta e attacca la nostra moneta. Noi ora dobbiamo solo resistere e perseverare, andare avanti in questa resistenza.
Qual è la tua idea della solidarietà internazionale?
Impedire la guerra imperialista, denunciarne i meccanismi con fermezza, ma più di tutto è importante che i popoli si organizzino per cambiare le cose in casa propria, perché solo con il potere popolare si potranno impedire guerra e dominio. La solidarietà nei confronti del Venezuela esiste, ma c’è molta disinformazione che impedisce di vedere il pericolo della guerra non convenzionale contro il Venezuela. Una situazione dovuta anche alla dismissione di quella che non si può neanche più chiamare sinistra, giacché ha da tempo assunto posizioni neoliberali.
Quanto peso ha avuto marxismo nella tua formazione?
Un gran peso. L’analisi storica, geopolitica e sociale di Marx e Engels, la loro critica alla società capitalista sono sempre più attuali. Per questo, Chavez dice che la rivoluzione bolivariana è marxista, però è anche bolivariana, cristiana, robinsoniana, attinge cioè a molte fonti del pensiero che interagiscono con il marxismo in quanto metodo attualissimo di analisi della realtà e dei problemi che essa presenta.
In questa chiave, e a partire dagli elementi che hai fornito, che fase attraversa il laboratorio bolivariano?
L’attacco imperialista vuole colpire il cuore della nostra economia, l’industria petrolifera, la nostra capacità di interazione con il mercato mondiale per impedirci di ottenere finanziamenti. Quindi è vitale che riusciamo a produrre alimenti e tecnologia nostra, come hanno fatto altri paesi che hanno sofferto un blocco simile. Dobbiamo cercare il nostro cammino con nuovi alleati, stiamo in una fase di transizione verso l’indipendenza piena, ma i parti, si sa, sono dolorosi. La nostra rivoluzione, però, è vigorosa.
Che diresti a quella ex sinistra europea secondo la quale non esiste alternativa al capitalismo e alle sue ricette neoliberiste?
Dai tempi di Lenin, le contraddizioni sono diventate più acute. L’umanità non potrà resistere in queste condizioni per molto tempo se persiste questo modello depredatore, le risorse si stanno esaurendo, non c’è tempo per le disquisizioni. Dobbiamo costruire modelli post-capitalisti capaci di assicurare un futuro ai nostri nipoti. Cuba ha il suo socialismo, e così il Vietnam o la Cina, altri parlano di un socialismo ecologico. Il nostro si chiama socialismo bolivariano, chavista, del secolo 21. L’importante è avere la consapevolezza che il capitalismo non è la soluzione, sta uccidendo non solo gli esseri umani ma anche la natura, il pianeta, dobbiamo agire.
E questo si può fare senza affrontare e sconfiggere la borghesia?
Certo che no. Nel nostro proceso, noi chiediamo alla borghesia nazionale di incorporarsi al processo di sviluppo in termini di uguaglianza. La proprietà privata ha un suo spazio, quel che però non può fare è dominare, non può prendere decisioni politiche o ambientali, o in materia di educazione, di salute, non può maltrattare i lavoratori. Se non condivide queste condizioni, che non venga.
La rivoluzione bolivariana si definisce socialista e femminista. Che importanza ha avuto per te il femminismo?
La donna, in Venezuela, è sempre stata un asse portante della società, a partire dalla famiglia, essendo la nostra una società fondamentalmente matriarcale. Però, nella società capitalista venezuelana era il soggetto più vulnerabile, il più sfruttato, doppiamente sfruttato. Oggi, basta uscire per strada per vedere il ruolo delle donne nel potere popolare organizzato: nei consigli comunali, nelle comunas, nelle Unità di battaglia Bolivar e Chavez, le donne sono la maggioranza. Basta guardare le mobilitazioni, le marce, dove sono sempre in prima fila. Le donne sono le più attaccate dalla guerra economica che mira a riprivatizzare la loro vita, a farle recedere dalla politica, dalla gestione della società per confinarle di nuovo in cucina e tornare a sottometterle. Manca molto in America Latina rispetto ai diritti delle donne, per questo è ancora più importante ribadire il carattere femminista della nostra rivoluzione e combattere con decisione il machismo.