di Geraldina Colotti
“L’unica maniera di costruire una economia nuova è rafforzare il potere popolare, il potere creativo del popolo. Per questo la comuna è il nostro progetto strategico”.
Così afferma Yvan Gil, viceministro degli Esteri con delega per l’Europa, a ridosso del I congresso internazionale delle comunas, che si sta svolgendo in Venezuela. E il suo, al riguardo, è un parere competente, avendo svolto, fra i suoi numerosi incarichi nel proceso bolivariano, quello di ministro per l’Agricoltura e le Terre, e di viceministro per la sicurezza e la sovranità alimentare.
Con la consueta gentilezza, ci riceve nel suo ufficio a Caracas, qualche giorno prima della votazione all’ONU, dove il Venezuela ha ottenuto un seggio al Consiglio per i diritti umani. Una vittoria che, rabbiosamente, l’imperialismo sta cercando di neutralizzare mediante le manovre lobbistiche delle grandi agenzie dell’umanitarismo al soldo di Washington, decise ad agire sullo scarto di voti – 11 – che ha eliminato la candidatura del Costa Rica. Professore associato di Agraria all’Università Centrale del Venezuela (UCV), nato nel 1972, Gil risponde alle domande alternando l’uso della prima persona a quello del plurale, più a suo agio con la descrizione dei processi collettivi che hanno trasformato e messo a tema i percorsi individuali, che con il racconto personale. D’altro canto, in Venezuela, ogni ministero è preceduto dalla specificazione di essere un ministero “del potere popolare per…”.
Qual è stato il tuo percorso nella rivoluzione bolivariana?
Al liceo, formavamo parte del collettivo studentesco che, il 27 e 28 di febbraio 1989 è sceso in piazza a protestare durante il Caracazo, la rivolta contro il pacchetto di misure neoliberiste imposte dal Fondo Monetario Internazionale e i cui effetti abbiamo visto in Europa, in America Latina e che vediamo ora in Ecuador. Misure di spoliazione sempre rifiutate dal popolo. Da allora, ho fatto parte dei movimenti popolari, prima studenteschi poi universitari e ho accompagnato, con il cuore e con l’azione, le giornate di ribellione civico-militare del 1992, soprattutto quelle del 27 novembre, seguite all’azione di Chavez del 4 febbraio. Le giornate del 4 febbraio ’92 e quelle di novembre sono state preparate dalla rivolta del Caracazo. Da lì in avanti, ho partecipato a tutte le fasi del processo rivoluzionario. Quando sono diventato professore associato di Agraria alla UCV, abbiamo partecipato alla rete universitaria bolivariana, ai circoli bolivariani, sempre vincolati al movimento popolare di sostegno al proceso bolivariano. Poi, dal 2007, ci è toccato assumere vari incarichi nel potere pubblico esecutivo: presidente dell’Istituto di ricerca agricola, viceministro e ministro di Agricoltura, vicepresidente del Consiglio dei ministri nell’area della sovranità alimentare, e ora da due anni e mezzo qui al ministero degli Esteri con delega per l’Europa. Anni molto intensi. A ripensarci ora, non c’è venezuelano che non sia stato in qualche modo toccato dalla presenza di Chavez. Il comandante ha avuto la capacità di arrivare direttamente a ogni venezuelano, e questa è una particolarità della rivoluzione bolivariana.
Cosa ricordi dei giorni del Caracazo, che in molti hanno associato alle recenti proteste in Ecuador contro il governo di Moreno, succube dell’FMI?
Ricordo la rivolta popolare contro le misure neoliberiste, la passione e l’aspettativa del popolo, la stessa rabbia che vediamo ora in Ecuador. La repressione. I compagni caduti o arrestati. Quello tra l’89 e il ’98 quando Chavez ha vinto le presidenziali, è stato un periodo molto interessante, che ha visto diverse fasi: la lotta popolare nel Caracazo, l’appoggio alla ribellione civico-militare del 4 febbraio e del 27 novembre, la campagna per la liberazione dei prigionieri politici che hanno ottenuto l’indulto non per concessione governativa, ma per la pressione popolare. E poi la lotta democratica durante la campagna elettorale contro le manovre del Consiglio Nazionale Elettorale dell’epoca, la vittoria, il processo per l’Assemblea Nazionale Costituente. Un percorso molto ricco di insegnamenti per affrontare questa nuova tappa di resistenza contro l’imperialismo.
A dispetto di quanto si è voluto pensare in Europa, situando la figura di Chavez nel “caudillismo” latinoamericano, i documenti inediti contenuti nel libro “Hugo Chavez, così è cominciata”, mostrano la profonda internità del chavismo alla sinistra radicale venezuelana negli anni della IV Repubblica. Qual è la tua lettura?
Come spiegava Chavez, che per fortuna ci lasciò molta memoria audiovisiva, molta letteratura, la fase più intensa del proceso bolivariano comincia quando affiorano le contraddizioni della classe dominante, nell’89, con il governo di Carlos Andrés Pérez o quando si evidenzia il collasso del modello rentistico petrolifero, di cui si individuavano i prodromi in quegli anni. Il processo stava però incubando da molto prima. Risale alla resistenza che portò alla cacciata di Marco Pérez Jimenez dal potere, nel 1958, alla classe operaia organizzata dal Partito comunista venezuelano, allora egemone nei sindacati, negli studenti, nei lavoratori, a quel grande appoggio popolare, a quelle aspirazioni poi tradite dal partito Accion Democratica. E poi, ancora, al ciclo della lotta armata, repressa e massacrata dai governi dell’epoca, a quelli che furono anni molto duri per il proceso bolivariano. Bisogna considerare che Bolivar fu il grande elemento unificante, il grande catalizzatore dell’unità rivoluzionaria in Venezuela. Per questo, stiamo vedendo ora un profluvio di articoli, comparsi soprattutto in Spagna, per attaccarne la figura: per distruggere l’elemento di unità, che Bolivar ha sempre rappresentato. Chavez ha avuto l’intelligenza, l’audacia, la visione strategica, di riscattare il valore della figura di Bolivar e di collocarla nella giusta dimensione del presente, ottenendo quella unità nazionale che fino a oggi è risultata indivisibile e che è la forza di una rivoluzione che si definisce, appunto, bolivariana. Dopo essere stata sconfitta a più riprese, la destra ora cerca perciò di attaccare la figura di Bolivar. L’altro grande elemento di forza e di novità della rivoluzione bolivariana, e che è risultato poco comprensibile per la sinistra in Europa e anche per quella latinoamericana, è l’unione civico-militare. La forte repressione della guerriglia e dei movimenti popolari, nella IV Repubblica, generò contraddizioni nella Forza armata. Chavez le seppe sfruttare per mettere a punto una strategia di presa del potere che, in quel momento storico favorevole, è andata oltre le aspirazioni puramente rivendicative di una certa sinistra di allora. Ha dimostrato che si poteva percorrere un’altra via, e che si poteva vincere, e che questa via era il socialismo. E’ su queste solide basi, su questo percorso storico di lotta popolare e di visione strategica che si sono forgiati i dirigenti del proceso bolivariano che stiamo portando avanti tuttora. Essendo un progetto strategico, non consente marcia indietro, per questo siamo così afferrati all’idea che possiamo vincere contro tutti gli attacchi che ci vengono portati per aver ripreso la via del socialismo.
Il principale sforzo dichiarato in questa fase è quello di costruire un’economia produttiva. Considerata la tua esperienza nel campo della sovranità alimentare, come vedi questo passaggio e quali teorie lo guidano?
Il Venezuela ha un pregresso di 100 anni di economia basata sulla rendita petrolifera. Siamo un paese la cui ricchezza non è stata prevalentemente prodotto del lavoro, ma del petrolio, che non si produce. Il socialismo scientifico è senza dubbio la teoria economica che più fa presa in Venezuela perché spiega i meccanismi di produzione della ricchezza a partire dal lavoro. La nostra sfida principale, oggi, è quella di applicare il socialismo scientifico al piano economico-produttivo. Nel nostro specifico, possiamo attingere agli studi di Ali Rodriguez Araque, che ha riflettuto molto sulla possibilità di costruire il socialismo in un paese che ha vissuto della rendita petrolifera e che ha prodotto una determinata cultura. Nell’idea di Chavez, la proprietà socialista dei mezzi di produzione può convivere con altre forme di proprietà, ma resta il fatto che l’idea del socialismo, nonostante sia stata così demonizzata dopo la caduta dell’Unione Sovietica, oggi è data per intesa nella società venezuelana. Si tratta di una grande conquista della rivoluzione bolivariana. Ci è toccato mettere in pratica il socialismo per questa via e non mediante la dittatura del proletariato, al riguardo dobbiamo però ricordare le parole di Chavez, quando diceva: “Non siamo una rivoluzione democratica, ma una democrazia rivoluzionaria”. Per questo, quando Chavez vince le elezioni, si pongono per prima cosa le basi politiche di questo nuovo modello economico che mira a costruire il socialismo, la basi stabilite dalla Costituzione bolivariana. Siamo adesso nel pieno di questo processo e nel pieno di un attacco senza precedenti alla nostra rivoluzione. Sebbene il nostro modello non sia perfetto e sebbene non si basi sulla dittatura del proletariato, la sua forza risiede nel potere popolare, nel “potere creativo del popolo”, come recita la nostra Costituzione e che, come ha spiegato il presidente Nicolas Maduro, consentirà di costruire l’economia socialista.
Uno degli elementi più usati nella propaganda di guerra contro il Venezuela è quello dell’inflazione e i prezzi fuori controllo. Dover disinnescare gli attacchi di una borghesia che non è stata messa fuorilegge non rischia di ridurre ai minimi termini il cammino al socialismo?
Da molti anni, in Venezuela, la forte perturbazione economica è stata determinata da un fattore esterno assai predominante. Se volessimo quantificare l’influenza dei fattori interni e di quelli esterni che agiscono mediante diversi sabotaggi nel funzionamento della nostra economia, dovremmo dire che le influenze esterne hanno senz’altro una grande importanza, e che la situazione interna ha a che vedere con la caratteristica della borghesia nazionale venezuelana. In ogni parte del mondo, la borghesia fa il suo mestiere: accumula capitale attraverso il meccanismo ben spiegato da Marx, appropriandosi del lavoro umano e trasformandolo in capitale. In Venezuela, invece, la borghesia, dagli anni 1950 a oggi, si è configurata in ragione della rendita petrolifera, nella battaglia storica per l’appropriazione della rendita petrolifera. Un processo che Chavez ha spiegato in modo alfabetizzante in molti dei suoi interventi. E questa è la prima battaglia che abbiamo dovuto affrontare: come fare in modo che il popolo potesse appropriarsi correttamente della rendita petrolifera attraverso un modello politico adatto. Una battaglia che ha intaccato grandi interessi e che per questo ha incontrato molte resistenze. Stiamo affrontando una borghesia parassitaria che non si dedica neanche allo sfruttamento del lavoro, ma solo a captare questa enorme ricchezza. Un meccanismo analizzato da molti libri importanti. Quando Chavez arriva al potere, per prima cosa procede a una giusta ridistribuzione della rendita petrolifera, e per questo gli organizzano il colpo di stato del 2002. Il proceso bolivariano si scontra con una borghesia parassitaria che ha vissuto della rendita petrolifera e con la sua espressione all’estero, in Europa e in America latina, dove si situano i centri principali dell’attacco alla rivoluzione bolivariana, e che sono il prodotto di interessi di classe.
L’unica forma di costruire una economia nuova è rafforzare il potere popolare. La comuna, per esempio, è un progetto strategico nazionale non solo per quel che riguarda il modello politico ma in quanto modello economico: perché una comuna è necessariamente produttiva.
Cosa ci si può aspettare dal I Congresso internazionale delle Comunas?
Si tratta di un progetto economico strategico ma tangibile. Abbiamo già dimostrato che si può fare. In Venezuela ci sono oltre 3.000 comunas produttive, alcune già molto sviluppate. Una delle più riuscite è quella di El Maizal, una comuna agricola nella quale sono riusciti a controllare l’intero processo di produzione, distribuzione e consumo creando un nuovo modello di ricchezza basato su una giusta distribuzione, in cui vige una moneta alternativa. Ieri abbiamo accompagnato un gruppo di visitatori del progetto Da pueblo a pueblo, che hanno ricevuto un premio negli Stati Uniti perché sono contadini produttori che si relazionano direttamente con la città, evitando il mercato di cose inutili che siamo indotti a consumare, e saltando la catena di intermediari che fa aumentare i prezzi. La strada della rivoluzione è quella di rafforzare la comuna, con il suo innovativo processo produttivo e di consumo, apparentandola a una giusta ridistribuzione della rendita a livello nazionale.
E’ vero che dall’Assemblea Nazionale Costituente arriverà la proposta di due camere, una delle quali sarebbe il parlamento comunale?
Nel 2007 abbiamo perso per pochissimo il referendum costituzionale su una proposta che conteneva grandi passi avanti in materia comunale e nella definizione del socialismo, ora l’Assemblea Nazionale Costituente ha il potere di riprendere e dibattere quei contenuti, e per questo fa tanta paura alla borghesia.
Dai paesi dell’Unione Europea arrivano forti attacchi, sia a livello politico, che diplomatico ed economico, le grandi banche europee bloccano l’oro del Venezuela… Come agisce il governo bolivariano?
Bisogna sempre considerare che il conflitto internazionale non è tra paesi, ma è un conflitto di classe, uno scontro di interessi. Ci stiamo scontrando con una classe dominante portatrice di un modello antagonista al nostro, ne siamo consapevoli e non ne abbiamo paura. Con l’Europa la relazione è difficile perché, nonostante le sue contraddizioni interne e con l’imperialismo nordamericano, rappresenta una classe che non si sente identificata con la rivoluzione bolivariana, e non si vede perché dovrebbe. Tuttavia, anche in questo contesto, riteniamo stia commettendo un grande errore nel cedere alle pressioni USA e nell’opporsi alla rivoluzione bolivariana a scapito dei suoi stessi interessi. Un atteggiamento che le porterà più danni che benefici. Intanto perché da noi vive circa un milione di europei, ci sono grandi investimenti europei che potevano perfettamente convivere la rivoluzione bolivariana e che non erano stati intralciati, tanto è che nessuna grande multinazionale europea se n’è andata. Tuttavia, anche se molto debilitato, esiste ancora uno spazio di interazione, e il quadro internazionale non è statico.
Qual è la tua lettura dello scenario internazionale?
Anche se la politica dell’Unione Europea assomiglia ogni giorno di più a quella degli Stati Uniti, esistono al loro interno forti conflitti, a cominciare dalla questione dei dazi doganali, che preludono a uno scontro nel polo imperialista. Uno scontro inevitabile per via della crisi economica, dell’arrivo della recessione, della questione del brexit. Gli Stati Uniti sembrano voler imporre dazi doganali all’Unione Europea per favorire il brexit e concludere un accordo di libero commercio con la Gran Bretagna. Uno scenario in pieno sviluppo che si annuncia interessante… Ma al di là dei problemi interni al polo imperialista, insisto che l’Europa ha commesso un errore storico ad assumere la posizione di ingerenza neocoloniale nel caso venezuelano: innanzitutto perché la rivoluzione bolivariana sta trionfando e trionferà, questo è un fatto storico che non si può modificare, e poi perché l’Europa sta perdendo grandi opportunità. Noi vogliamo mantenere buone relazioni con questa Europa. Stiamo a vedere che decisioni prende. Ogni giorno la sua politica interna si fa più complicata, speriamo possa uscire dalla trappola di assumere come propria la politica imposta dagli Stati Uniti che le impedisce di avere una posizione indipendente nei confronti dell’America Latina, e specificamente nei confronti del Venezuela. Diversamente, questo suo atteggiamento si trasformerà in un boomerang. Noi stiamo dirigendo le nostre relazioni economiche verso altri poli importanti, come la Russia, la Cina, la Turchia, che sono compratori di crudo, rappresentano una importante forza economica e tecnologica e non hanno la visione imperialista dell’Unione Europea.
La Turchia non è però un alleato da maneggiare con cautela?
Ma è un alleato della rivoluzione bolivariana e lo continuerà a essere: perché la nostra politica è quella di favorire relazioni pacifiche e negoziate fra tutti gli attori che agiscono nello scenario mediorientale, adoperandoci affinché risolvano i loro conflitti attraverso il dialogo, pur nella complessa situazione del Medioriente. Curiosamente, risalta una recente dichiarazione di Trump: ha detto che la presenza degli Stati Uniti in Medioriente ha creato il caos, il che è sicuramente vero. Di certo, nel caso delle relazioni tra Turchia e Siria, la fuoriuscita degli Stati Uniti favorirebbe un riaccomodamento del contesto e la possibilità che i cittadini di quei paesi risolvano i conflitti dialogando, partendo dalle cause che hanno generato questa situazione, dal caos prodotto dalla guerra in Iraq, essendo quella del caos una strategia voluta dagli Stati Uniti. Ma, tornando a noi: se noi migriamo verso altri poli diversi dall’Europa, chi perde? Certamente noi non possiamo permettere che la nostra economia venga soffocata, dobbiamo cercare alleati altrove, e l’Europa perderà una posizione importante in America Latina. Invece finora ha saltato convegni, abbandonato tutti gli accordi che avrebbe potuto concludere, ha confiscato beni, eccetera. Una follia che, in fin dei conti, costerà più all’Europa che al Venezuela.
E per quel che riguarda l’Italia? Gli italiani che hanno fatto fortuna in Venezuela hanno un forte peso nelle politiche di contrasto al governo bolivariano
L’immigrazione europea ha apportato molto al nostro sviluppo nazionale, soprattutto quella italiana che si è mescolata di più con il popolo venezuelano. Anche qui, però, esistono interessi di classe che determinano le alleanze politiche. Quell’immigrazione, che ha sviluppato il suo apparato economico in base a regole esistenti prima e che attengono all’appropriazione della rendita petrolifera, difende quel modello perché difende i propri interessi di classe: è un fatto, non possiamo negarlo, ma serve a inquadrare perché una gran parte dell’immigrazione italiana ed europea sia vincolata alla destra. Un’altra parte si è invece adattata al nuovo modello, che è comunque generatore di ricchezza e che richiede soltanto il rispetto delle leggi e una giusta ridistribuzione della ricchezza. Siamo in una fase di transizione ed è logico che questa classe difenda i suoi interessi, ma la rivoluzione bolivariana non ha un conflitto frontale con il settore economico privato, al contrario. I numeri parlano da soli: la maggior crescita che ha avuto il settore privato in tutta la storia del Venezuela si è verificata tra il 2004 e il 2012.
Anche la fuga di capitali ha raggiunto livelli stratosferici. Come si risolve?
E’ un dibattito sicuramente da fare. Ma, intanto, è necessario che l’immigrazione europea intenda che, anche mettendosi dal punto di vista dell’impresa privata e della destra, le condizioni in termini di libertà d’impresa e di possibilità di crescita del mercato sono ben più vantaggiose di quelle esistenti nei loro paesi d’origine. Siamo vittime di una poderosa campagna mediatica, ma i veri imprenditori sanno che la realtà dipinta è falsa. Di sicuro, abbiamo dei problemi, ma siamo altrettanto certi che le cooperative, le imprese familiari, i piccoli imprenditori, potrebbero lavorare egregiamente in Venezuela, e li invitiamo costantemente a venire.
Quali settori dell’economia venezuelana possono risultare attrattivi per l’Italia?
Sicuramente il settore alimentare, un’area di mercato immensa nella quale il Venezuela necessita di investimenti perché esiste un gran potenziale di crescita. E poi il campo dell’edilizia. Quest’anno avremo costruito e consegnato 3 milioni di case popolari ammobiliate. Sono opera di piccoli costruttori, di cooperative, e dinamizzano l’economia che serve a portare benefici al popolo. E c’è il settore del turismo. Ovviamente, c’è il settore petrolifero con il suo indotto. Da noi c’è un potenziale di investimento per le piccole imprese senza pari in America Latina. L’unica cosa che chiediamo è il rispetto per un modello di giustizia e di inclusione sociale che porta vantaggio anche a queste piccole imprese. L’Italia ha una enorme esperienza nel campo della piccola e media impresa, e potremmo senz’altro, ma nel rispetto del nostro modello di società, trarne reciproco vantaggio.
Dall’ultimo congresso del Partito Socialista Unito del Venezuela e poi dagli incontri emersi dal Foro di Sao Paolo, si sta sviluppando la proposta di un nuovo internazionalismo rivolto ai movimenti popolari. Qual è l’idea rispetto all’Europa?
Stiamo lavorando per connettere i movimenti di solidarietà a partire però dal fatto che in Venezuela è in corso una lotta di classe che richiede una solidarietà di classe. Lo abbiamo detto in tutti i dibattiti con i movimenti europei: quella che chiediamo non è la difesa di un governo, ma una posizione chiara nello scontro storico fra due modelli nel quale noi siamo schierati con chiarezza. Occorrono cambiamenti strutturali nei paesi capitalisti, e mobilitazioni che richiedono unità, progetto e prospettiva e che cerchiamo di favorire nonostante la complessità e la frammentazione esistente nei movimenti popolari in Europa. Guardando ai risultati ottenuti nella campagna in difesa della Palestina, di Cuba, allo sviluppo del Foro di Sao Paolo credo si possa riuscire. Oggi le politiche di destra portano un attacco tanto evidente, quasi di guerra senza quartiere ai poveri e alle condizioni di vita dei settori popolari, che anche in Europa si avvertono sintomi di risveglio da parte dei movimenti. Dobbiamo rendere evidente che, nonostante gli errori che indubbiamente dobbiamo correggere, noi siamo l’alternativa concreta al modello capitalista depredatore. Vediamo cosa sta succedendo in altre parti dell’America Latina dove è tornato a imperversare il modello capitalista. Questo messaggio deve arrivare in Europa con molta forza, scardinare il potere mediatico per produrre mobilitazioni. Siamo convinti che il Venezuela sia un grande stimolo verso l’unità per i movimenti popolari, sia in America Latina che in Europa. Pur sapendo che non possiamo competere con un mostro mediatico che plasma a suo vantaggio l’opinione pubblica in Europa, dobbiamo cercare di costruire un centro di produzione di notizie indipendente che racconti la lotta dei popoli contro il capitalismo.