Bolivia: assedio, lotta e resistenza nel tentativo di cambio di regime

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In Bolivia si sviluppa, attualmente, una tabella di marcia d’assedio, mediante atti di sedizione interna che tentano uno sgretolamento delle strutture istituzionali, all’unisono con una criminalizzazione del governo di Evo Morales dal fronte esterno.

Si tratta di un nuovo colpo di stato in corso, un modo accelerato per risolvere, con meccanismi di forza, ciò che non è stato ottenuto con il voto del 20 ottobre.

Gli eventi evidenziano un chiaro programma di cambio di regime in corso; questo processo, sebbene sia sopravvenuto dopo le ultime elezioni generali, era stato annunciato tempo prima da fattori oppositori nel paese.

Settimane prima delle elezioni, attraverso la modalità di “cabildos”, (assemblee ndt) l’opposizione boliviana si è organizzata in una campagna cittadina (a parte degli stessi partiti di opposizione) di “voto di castigo” contro Morales e disconoscimento a priori, per motivi di “frode”, del risultato elettorale che, sapevano dai sondaggi, avrebbe favorito Morales.

Gli eventi si sono articolati per fabbricare il risultato elettorale il più serratamente possibile come fattore di legittimazione della presunta rapina elettorale e le azioni e conseguenze dell’opposizione golpista boliviana hanno caratteristiche che si suppongono pianificate in anticipo.

LA CONGIUNTURA ELETTORALE COME PUNTO DI ROTTURA

 

Nella notte del 20 ottobre, il presidente rieletto Evo Morales guidava, con il 45,28% dei voti, contro Carlos Mesa, che accaparrava il 38,16%. Con questo risultato preliminare, entrambi i candidati si stavano dirigendo verso un secondo turno, senza precedenti in Bolivia, dopo aver scrutinato l’84% dei voti.

Secondo la legislazione boliviana, per evitare il ballottaggio, il candidato con il maggior numero di voti dovrebbe ottenere un punteggio superiore al 50%, o almeno il 40% dei voti con una differenza del 10% rispetto al secondo.

L’organo elettorale, come era previsto anche benché fosse nascosto dai media, ha paralizzato la notte di domenica 20 ottobre, l’emissione preliminare dei risultati all’84% dei voti, dando un risultato di conteggio manuale e anticipando un possibile ballottaggio il 15 dicembre.

La modalità di riconteggio rapido dei verbali (TREP), ripresa alla fine del pomeriggio di lunedì 21, concedeva il 46,4% dei voti a Morales ed il 37,07% a Mesa, con il 95,63% dei voti conteggiati.

Giorni dopo, con l’avanzare del conteggio computerizzato e la digitalizzazione dei verbali, Evo Morales è aumentato con una differenza del 10%, vincendo al primo turno.

Nelle prime ore, quello che sembrava essere un atto negligente dell’organo elettorale per la dilazione nella consegna dei risultati, consisteva nell’esecuzione di un attacco in corso.

Protetti dalle vulnerabilità del sistema elettorale manuale della Bolivia, fin dalle prime ore di domenica sera e prima che qualsiasi risultato fosse annunciato, l’opposizione aveva convocato i suoi seguaci a compiere attacchi frontali contro gli uffici elettorali, silurando il processo di raccolta e rigoroso conteggio dei voti.

Come annunciato dal presidente Evo Morales, nella notte di domenica 20, mancava da scrutinare i verbali dei centri elettorali delle aree rurali ed indigene, settori isolati, con particolarità per la raccolta dei voti e che storicamente hanno sostenuto il presidente.

Il caos nei centri elettorali ha richiesto nuovi sforzi logistici per la protezione di voti e verbali, di fronte a una violenta sinergia che ha distrutto sedi e materiale elettorale in città, come Potosí e Santa Cruz, compromettendo così il conteggio su un risultato che già si era considerato “chiuso” affinché Morales raggiungesse una differenza del 10%.

In altre parole, l’intero processo è stato apertamente sabotato.

Tutti questi eventi, insieme alle stesse debolezze del sistema elettorale boliviano, sono servite alla costruzione di un ‘momentum’ idoneo per la riproduzione del ciclo violento in corso oggi.

LA FASE VIOLENTA

 

Da domenica 20, l’agenda programmata del caos si è sviluppata come si era annunciato nei “cabildos” organizzati prima delle elezioni.

L’enfasi della violenza nelle sue denominazioni più aperte ha avuto luogo a Santa Cruz, la storica città dei “cambas”, i bianchi della Bolivia, dove in realtà parte della sua popolazione si considera come una nazione che non ha nulla a che fare con “la india” dell’altopiano, e dove, ricordiamo, si ebbe un attacco razzista e separatista nel 2008. È proprio a Santa Cruz che c’è stata la perdita di due vite umane nel contesto di questi eventi.

Lo sviluppo della violenza dell’opposizione in Bolivia è stato un calco a copia della violenza in Venezuela nel 2014 e 2017, consistente nella chiusura di strade, nell’attacco alle istituzioni simboliche, nelle paralisi forzate della normalità economica, l’attacco diretto agli “indios” o “masisti” (seguaci del Movimento Al Socialismo -MAS-) ed allo scontro con la forza pubblica con appelli alla sedizione.

Esiste un chiaro fattore di consonanza tra la violenza e le dichiarazioni che, dall’estero, hanno messo in discussione il processo e l’esito elettorale, il governo USA, l’Unione Europea e l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA).

Nelle strade boliviane la frenesia violenta è stata accentuata dall’invocazione di un assalto internazionale contro la presunta frode.

L’INDEFINITO RUOLO DELL’OSA

 

L’OSA nella notte di domenica 20 si è disposta a mettere in discussione l’organo elettorale boliviano, creando così i primi sospetti che sono stati successivamente replicati nei portavoce di diversi governi della regione. In effetti USA, Argentina e Brasile non hanno esitato a formulare i loro apprezzamenti per nulla divergenti tra loro.

Alcuni giorni dopo è stata convocata una riunione straordinaria davanti a quella istituzione, che ha generato un particolare dibattito tra i paesi membri, divisi in posizioni a favore e contro l’inferire nel processo elettorale boliviano, mentre il Cile bruciava e l’Ecuador venisse da lì, senza che si avessero convocate riunioni a Washington, quartier generale dell’organismo.

Per l’OSA, come è stato esposto in un comunicato del segretario generale, Luis Almagro, l’ideale era un audit ufficiale delle elezioni boliviane ed emanare da esso un risultato “vincolante”, in chiaro disconoscimento del ruolo che è esclusivo dell’organo elettorale.

Allo stesso tempo, la “raccomandazione” emessa di andare al secondo turno allo stesso modo disconosceva i voti che hanno dato a Morales una differenza di 10 punti. Ma ciò che sembrava impossibile, a spese di eventi violenti, ora è stata una “possibilità” di risoluzione del conflitto, o almeno così lo spera il governo boliviano.

Il governo della Bolivia ha concordato, la scorsa settimana, con l’OSA di effettuare un controllo “vincolante” delle elezioni. “Abbiamo concluso gli accordi da firmare tra Bolivia e l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) affinché si possa realizzare un controllo completo delle elezioni generali del 20 ottobre”, ha annunciato il ministro degli Esteri boliviano Diego Pary in una conferenza stampa.

Sul processo di audit, il presidente rieletto ha indicato che “non abbiamo nulla da nascondere, lasciamo che l’audit internazionale, da parte di esperti, verifichi se vi siano o meno frodi”. Ha aggiunto dal suo Twitter:

A cosa obbedisce questa mossa del governo boliviano? A prima vista, sembrerebbe avere una piena fiducia nello scrutinio, ma oltre a ciò, c’è la fiducia nei revisori dell’OSA; alcuni di loro sono gli stessi osservatori che hanno messo in dubbio il risultato il 20 ottobre.

Con un audit avviato giovedì scorso, e che durerà tra 10 e 12 giorni, il ruolo finale dell’OSA negli eventi boliviani rimane ancora da definirsi.

ROTTURA DELL’OPPOSIZIONE E GOVERNO PARALLELO?

 

Gli eventi in Bolivia e la loro spirale violenta risiedono anche nella rottura trasversale che segna l’opposizione boliviana. Questa è andata divisa alle elezioni ed, ora, il ciclo violento è intrapreso principalmente dai “civici”, gli organizzatori dei cabildos.

Per il candidato perdente, Carlos Mesa, si deve andare verso la realizzazione di un secondo turno elettorale, ma lontano da esso, la sua agenda è la strada. Mesa ha perso la coesione della sua denuncia di “frode” poiché non riconosce l’audit, per un presunto “accordo” tra governo e l’OSA, secondo le sue parole, “senza aver dato voce” a coloro che, come lui, denunciano la frode.

La probabilità che l’audit sostenga il risultato favorevole a Morales significa per Mesa un esaurimento della sua agenda, in modo che il massimo utilizzo dei suoi meccanismi di pressione hanno il tempo che gioca a sfavore.

Tuttavia, per i civici, il risultato che emanerà dall’OSA (se è favorevole a Morales) sembra irrilevante. I civici sono espressioni di un nodo critico dell’opposizione dura con tinte fasciste e per loro l’allontanamento di Morales deve essere immediato.

A Santa Cruz, il presidente del Comitato Civico, Luis Fernando Camacho, principale referente della destabilizzazione in Bolivia, ha chiamato a “resistere” con lo sciopero nazionale, blocchi e mobilitazioni, fino ad ottenere che il presidente Evo Morales rinunci all’incarico.

“Parliamo delle dimissioni di Evo Morales, di un nuovo processo elettorale senza la partecipazione di Evo Morales e di un nuovo tribunale (elettorale), ma le dimissioni devono essere immediate”, ha affermato Camacho.

In sei regioni sono stati organizzati cabildos che hanno determinato di respingere la tregua proposta dal presidente Morales; ha chiesto di rinunciare alle mobilitazioni fino al termine della revisione.

La narrazione e l’impeto di un chiaro scontro pianificato dai civici cruceños ha anche significato la proclamazione di Carlos Mesa come “presidente eletto e legittimo”. Questa semiotica sembra evidenziare la possibilità che sia forgiato, in Bolivia, un altro processo di proto-stato parallelo, come in Venezuela con Juan Guaidó, sebbene tale esperienza non abbia prodotto i frutti previsti nell’agenda golpista.

Per i cruceños, la sua proclamazione come “autonomia” o la sua consacrazione nella nuova condizione di essere “un altro paese” attraverso un’istituzionalità parallela, non sono atti che sembrano assurdi. Tuttavia, l’elemento sottostante di queste presunte azioni suppone propiziare una rottura istituzionale, che viene prodotto in modo multidirezionale, con appelli alle forze armate a deporre Morales.

Le possibilità di dialogo politico per una pacificazione della congiuntura boliviana sono indicibili, a causa della rottura dell’opposizione e del fatto che non vi è una chiara interlocuzione tra gli avversari di Morales.

TENTATIVO DI MAGNICIDIO?

 

Come componente aggiuntivo alla crisi boliviana sono sopravvenuti ​​gli eventi di questo 4 novembre. L’elicottero su cui viaggiava il presidente Evo Morales ha sofferto un guasto meccanico, precipitando a terra a bassa quota, senza ferire il presidente o altro membro dell’equipaggio. Attraverso un comunicato, la Forza Aerea Boliviana ha spiegato che durante il decollo, il pilota si è reso conto di un guasto nella coda dell’aeronave, per cui è atterrato immediatamente. In tal senso, il testo ha sottolineato che “la FAB secondo le norme procederà ad attivare la Giunta Investigatrice degli Incidenti; ulteriori dettagli in merito al fatto saranno forniti in base agli avanzamenti dell’investigazione”.

Quasi contemporaneamente a questi eventi, la Forza Armata della Bolivia si era pronunciata, a livello istituzionale, ribadendo il proprio ruolo di vigilare per il “mantenimento della democrazia” ed aderire alla Costituzione, appellandosi alla “razionalità” ed al “dialogo”.

Una risposta diretta agli appelli di sedizione sempre più accentuati ed alla vigilia dei risultati dell’audit elettorale in corso.


ASEDIO, PUGNA Y RESISTENCIA EN EL INTENTO DE CAMBIO DE RÉGIMEN EN BOLIVIA: UNA PANORÁMICA

En Bolivia se desarrolla en estos momentos una hoja de ruta de asedio, mediante actos de sedición interna que intentan un resquebrajamiento de las estructuras institucionales, al unísono de una criminalización del gobierno de Evo Morales desde el frente externo.

Se trata de un nuevo golpe de Estado en marcha, una vía expedita para resolver por mecanismos de fuerza lo que no se logró por la de los votos el pasado 20 de octubre.

Los eventos evidencian una clara agenda de cambio de régimen en marcha; tal proceso, aunque sobrevino luego de las pasadas elecciones generales, había sido anunciado tiempo antes por factores opositores en el país.

Semanas antes de las elecciones, mediante la modalidad de “cabildos”, la oposición boliviana se organizó en una campaña ciudadana (al margen de los mismos partidos opositores) de “voto castigo” contra Morales y desconocimiento a priori por razones de “fraude” del resultado electoral que, sabían por las encuestas, favorecería a Morales.

Los eventos se articularon para fabricar el resultado electoral más cerradamente posible como factor de legitimación del supuesto robo electoral, y las acciones y consecuencias de la oposición golpista boliviana tienen características que se suponen planificados con antelación.

LA COYUNTURA ELECTORAL COMO PUNTO DE QUIEBRE

En la noche del 20 de octubre, el presidente reelecto Evo Morales lideraba el conteo con el 45.28% de los votos frente a Carlos Mesa, quien acaparaba el 38.16%. Con este resultado preliminar, ambos candidatos se encaminaban a una segunda vuelta, sin precedentes en Bolivia, luego de escrutar el 84% de los votos.

Acorde a la legislación boliviana, para evitar un balotaje, el candidato con más votos debía obtener un puntaje superior al 50%, o al menos el 40% de los votos con una diferencia de 10% sobre el segundo.

El órgano electoral, tal como estaba previsto aunque fuera ocultado por los medios, paralizó la noche del domingo 20 de octubre la emisión preliminar de resultados al 84% de votos, dando un resultado de conteo manual y anticipando un posible balotaje el 15 de diciembre.

La modalidad de recuento rápido de actas (TREP), reanudada al finalizar la tarde del lunes 21, otorgaba el 46.4% de los votos a Morales, y 37.07% a Mesa, con el 95.63% de los votos escrutados.

Días luego, conforme avanzó el conteo computarizado y la digitalización de actas, Evo Morales se alzó con una diferencia de 10%, ganando en primera vuelta.

A primeras horas, lo que parecía ser un acto negligente del órgano electoral por la dilación en la entrega de resultados, consistía en la ejecución de una arremetida en marcha.

Amparados en las vulnerabilidades del sistema electoral manual de Bolivia, desde las primeras horas de la noche del domingo y antes de que cualquier resultado fuera anunciado, la oposición había convocado a sus seguidores a efectuar ataques frontales contras las oficinas electorales, torpedeando el proceso de acopio y conteo riguroso de votos.

Tal como lo anunció el presidente Evo Morales, la noche del domingo 20 faltaba por escrutar las actas de los centros electorales de las áreas rurales e indígenas, sectores apartados, con particularidades para el acopio de votos y que históricamente han apoyado al mandatario.

El caos en los centros electorales demandó nuevos esfuerzos logísticos para el resguardo de votos y actas, frente a una sinergia violenta que destruyó sedes y material electoral en ciudades como Potosí y Santa Cruz, comprometiendo así el conteo sobre un resultado que ya se consideraba “cerrado” para que Morales alcanzara el 10% de diferencia.

Dicho de otra forma, el proceso todo fue abiertamente saboteado.

Todos estos eventos, aunados a las propias debilidades del sistema electoral boliviano, sirvieron para la construcción de un “moméntum” idóneo para la reproducción del ciclo violento hoy en marcha.

LA FASE VIOLENTA

Desde el domingo 20 la agenda programada de caos se ha desarrollado tal como se había anunciado en los “cabildos” organizados previo a las elecciones.

El énfasis de la violencia en sus denominaciones más abiertas ha tenido lugar en Santa Cruz, la histórica ciudad de los “cambas”, los blancos de Bolivia, donde en efecto parte de su gentilicio se asume como una nación que nada tiene que ver con “la indiada” altiplana, y donde, recordemos, tuvo lugar una arremetida racista y separatista en el año 2008. Es precisamente en Santa Cruz donde hubo la pérdida de dos vidas humanas en el contexto de estos eventos.

El desarrollo de la violencia opositora en Bolivia ha tenido un calco y copia de la violencia en Venezuela en los años 2014 y 2017, consistiendo en el cierre de vías, el ataque a instituciones simbólicas, las paralizaciones forzadas de la normalidad económica, el ataque directo a los “indios” o “masistas” (seguidores del Movimiento Al Socialismo -MAS-) y la confrontación con la fuerza pública con llamados a la sedición.

Hay un claro factor de consonancia entre la violencia y los pronunciamientos que desde el extranjero han cuestionado el proceso y el resultado electoral, el gobierno estadounidense, la Unión Europea y la Organización de Estados Americanos (OEA).

En las calles bolivianas el frenesí violento se acentuó invocando una arremetida internacional contra el supuesto fraude.

EL INDEFINIDO ROL DE LA OEA

La OEA en la noche del domingo 20 se dispuso a cuestionar al órgano electoral boliviano, creando así las primeras suspicacias que luego fueron replicadas en las vocerías de varios gobiernos de la región. En efecto, Estados Unidos, Argentina y Brasil no dudaron en hacer sus apreciaciones para nada disímiles entre ellas.

Fue convocada una reunión extraordinaria ante esa institución días después, la cual generó un particular debate entre los países miembros, divididos en posiciones a favor y en contra de inferir en el proceso electoral boliviano, mientras Chile ardía y Ecuador viniera de allí, sin que hubiera llamados a reuniones en Washington, sede del organismo.

Para la OEA, tal como fue expuesto en un comunicado del secretario general, Luis Almagro, lo idóneo era auditar oficialmente las elecciones bolivianas y emanar de ella un resultado “vinculante”, en claro desconocimiento al rol que es exclusivo del órgano electoral.

Al mismo tiempo, la “recomendación” emitida de ir a segunda vuelta de igual manera desconocía los votos que dieron la diferencia de 10 puntos a Morales. Pero lo que parecía ser un imposible, a expensas de los eventos violentos, ha sido ahora una “posibilidad” de resolución del conflicto, o al menos así lo espera el gobierno boliviano.

El gobierno de Bolivia acordó la semana pasada con la OEA hacer una auditoría de carácter “vinculante” a las elecciones. “Hemos concluido los acuerdos a ser firmados entre Bolivia y la Organización de Estados Americanos (OEA) para que se pueda realizar la auditoría integral a las elecciones generales del 20 de octubre”, anunció en rueda de prensa el canciller boliviano, Diego Pary.

Sobre el proceso de auditoría, el mandatario reelecto indicó que “no tenemos nada que ocultar, dejemos que la auditoría internacional a cargo de expertos verifique si hubo o no fraude”. Agregó desde su Twitter:

¿A qué obedece esta movida del gobierno boliviano? A primera vista, pareciera haber una plena confianza en el escrutinio, pero más allá de ello, yace la confianza que hay en los auditores de la OEA; parte de ellos son los mismos observadores que cuestionaron el resultado el 20 de octubre.

Con una auditoría iniciada el pasado jueves y que durará entre 10 y 12 días, el rol de definitivo de la OEA en los eventos bolivianos aún queda por definirse.

RUPTURA OPOSITORA ¿Y GOBIERNO PARALELO?

Los eventos en Bolivia y su espiral violenta también yacen en la ruptura transversal que marca a la oposición boliviana. Ésta acudió dividida a las elecciones y, ahora, el ciclo violento es emprendido principalmente por los “cívicos”, los organizadores de los cabildos.

Para el candidato perdedor, Carlos Mesa, se debe ir rumbo a la realización de una segunda vuelta electoral, pero lejos de ello, su agenda es la calle. Mesa ha perdido la cohesión de su denuncia de “fraude” pues no reconoce la auditoría, por supuestamente estar “pactada” entre gobierno y OEA, según sus palabras, “sin haber dado voz” a los que como él denuncian el fraude.

La probabilidad de que la auditoría respalde el resultado favorable a Morales significa para Mesa un agotamiento de su agenda, por lo cual el empleo al máximo de sus mecanismos de presión tienen al tiempo jugando en contra.

No obstante, para los cívicos el resultado que emanará de la OEA (si es favorable a Morales) parece irrelevante. Los cívicos son expresiones de un nudo crítico de la oposición dura con tintes fascistas, y para ellos el desplazamiento de Morales debe ser inmediato.

En Santa Cruz, el presidente del Comité Cívico, Luis Fernando Camacho, principal referente de la desestabilización en Bolivia, llamó a “resistir” con el paro nacional, bloqueos y movilizaciones, hasta conseguir que el presidente Evo Morales renuncie a su cargo.

“Hablamos de la renuncia de Evo Morales, un nuevo proceso electoral sin la participación de Evo Morales y un nuevo tribunal (electoral), pero la renuncia tiene que ser inmediata”, dijo Camacho.

En seis regiones se organizaron cabildos que determinaron rechazar la tregua planteada por el presidente Morales; llamó a desistir de las movilizaciones hasta que culminara la auditoría.

La narrativa y el ímpetu de clara confrontación planteado por los cívicos cruceños también ha supuesto la proclamación de Carlos Mesa como “presidente electo y legítimo”. Dicha semiótica parece enfilar la posibilidad de que se fragüe en Bolivia otro ensayo de proto-Estado paralelo, tal como en Venezuela con Juan Guaidó, aunque tal experiencia no ha rendido los frutos esperados en la agenda golpista.

Para los cruceños, su proclamación como “autonomía” o su consagración bajo la nueva condición de ser “otro país” mediante una institucionalidad paralela, no son actos que les parezcan descabellados. Sin embargo, el elemento subyacente de estas pretendidas acciones supone propiciar un quiebre institucional, el cual se está fabricando de manera multidireccional, con llamados a las fuerzas armadas a que depongan a Morales.

Las posibilidades de diálogo político para una pacificación de la coyuntura boliviana son indecibles, por la ruptura opositora y el hecho de que no hay una interlocución clara entre los adversarios de Morales.

¿INTENTO DE MAGNICIDIO?

Como componente adicional a la crisis boliviana sobrevinieron los eventos de este 4 de noviembre. El helicóptero donde viajaba el presidente Evo Morales sufrió una falla mecánica precipitándose hacia tierra a baja altura, sin que el mandatario u otro tripulante resultara lastimado. A través de un comunicado, la Fuerza Aérea Boliviana detalló que durante el despegue, el piloto se dio cuenta de una falla en la cola de la aeronave, por lo que aterrizó de inmediato. En ese sentido, el texto destacó que “la FAB de acuerdo con las normas procederá a activar la Junta Investigadora de Accidentes; mayores detalles referente al hecho se los dará de acuerdo con los avances de la investigación”.

Casi en simultáneo a estos eventos, la Fuerza Armada de Bolivia se había pronunciado institucionalmente reafirmando su rol de velar por el “mantenimiento de la democracia” y apegándose a la Constitución, llamando a la “racionalidad” y al “diálogo”.

Una respuesta directa a los llamados de sedición cada vez más acentuados y en la víspera de los resultados de la auditoría electoral en curso.

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