Andre Vltchek, 21st. Century Wire,
Si sono impegnati a farlo, e ‘hanno fatto, signori feudali, magnati dei mass media e altre “élite” ricche boliviane, hanno rovesciato il governo, spezzato la speranza e interrotto un processo socialista di grande successo in quello che una volta era uno dei Paesi più poveri del Sud America. Un giorno saranno maledetti dalla loro stessa nazione. Un giorno saranno processati per sedizione. Un giorno dovranno rivelare chi li ha addestrati, impiegati, trasformati in bestie senza spina dorsale. Un giorno! Speriamo presto.
Ma ora, Evo Morales, legittimo presidente della Bolivia, eletto più volte dal suo popolo, lascia la sua amata nazione. Travalica le Ande, volando lontano verso il fraterno Messico, che ha esteso la sua bella mano e gli ha offerto asilo politico. Questo ora. Le suggestive strade di La Paz sono coperte di fumo, piene di soldati, macchiate di sangue. Persone scompaiono. Sono detenuti, picchiati e torturati. Le foto di uomini e donne indigeni, in ginocchio, di fronte a pareti con le mani legate dietro la schiena, iniziano a circolare sui social media.
El Alto, fino a poco tempo fa luogo di speranza coi suoi campi da gioco per bambini e le eleganti funivie che collegano le comunità un tempo povere, inizia ora a perdere i suoi figli e le sue figlie nativi. La battaglia infuria. Il popolo accusa gli oppressori, issa bandiere, muore. Una guerra civile, o più precisamente, una guerra per la sopravvivenza del socialismo, una guerra contro l’imperialismo, per la giustizia sociale, per gli indigeni. Una guerra contro il razzismo. Una guerra per la Bolivia, per la sua straordinaria cultura pre-coloniale, per la vita; la vita come viene percepita nelle Ande o nelle profondità della foresta pluviale sudamericana, non come è vista a Parigi, Washington o Madrid. L’eredità di Evo Morales è tangibile e semplice da capire.
Per quasi 14 anni al potere, tutti gli indicatori sociali della Bolivia salirono alle stelle. A milioni furono tirati fuori dalla povertà. Milioni di persone hanno beneficiato di cure mediche gratuite, istruzione gratuita, alloggi agevolati, miglioramento delle infrastrutture, un salario minimo relativamente alto, ma anche dell’orgoglio restituito alla popolazione indigena che costituisce la maggioranza in questo Paese storicamente feudale governato da corrotte e spietate “élite”, discendenti di conquistatori spagnoli e “cercatori d’oro” europei. Evo Morales ha reso ufficiali le lingue Aymara e Quechua, pari con lo spagnolo. Ha reso le persone che parlano queste lingue, uguali a quelle che usano la lingua dei conquistatori. Ha elevato la grande cultura indigena a cui appartiene, rendendola il simbolo della Bolivia e dell’intera regione.
Sono finiti i baci incrociati dei cristiani (guarda le croci riapparire di nuovo, tutt’intorno alla oh così europea Jeanine Añez che ha preso il potere, ‘temporaneamente’, ma ancora completamente illegale). Invece, Evo era solito viaggiare, almeno una volta all’anno, a Tiwanaku, “la capitale del potente impero preispanico che dominava una vasta area delle Ande meridionali e oltre, raggiunse il suo apogeo tra il 500 e il 900 d.C.”, secondo l’UNESCO. È lì che cercava la pace spirituale. Ecco da dove viene la sua identità. Era finita la venerazione della cultura colonialista e imperialista occidentale, del capitalismo selvaggio. Questo era un nuovo mondo, con radici antiche e profonde. Questo è dove il Sud America si è riunito.
Qui, e nell’Ecuador, da Correa, prima che Correa e le sue credenze fossero epurate e estromesse dal perfido Moreno. E per di più: prima del colpo di Stato , la Bolivia non soffriva una crisi economica; andava bene, estremamente bene. Era in crescita, stabile, affidabile, sicura. Perfino i proprietari di grandi aziende boliviane, se si preoccupassero un po’ della Bolivia e del suo popolo, avrebbero avuto innumerevoli ragioni per rallegrarsi. Ma la comunità imprenditoriale boliviana, come in molti altri Paesi dell’America Latina, è ossessionata dall’unico e unico “indicatore”: “quanto più in alto, quanto sopra la media dei cittadini si può arrivare”. Questa è la vecchia mentalità dei colonialisti; una mentalità feudale e fascista. Anni fa fui invitato a La Paz, a cena da una vecchia famiglia di senatori e proprietari di mass media. Senza vergogna, senza paura, apertamente, parlarono, nonostante sapessero chi fossi: “Ci libereremo di questo bastardo indigeno. Chi pensa di essere? Se perdiamo milioni di dollari nel processo, come abbiamo fatto nel 1973 in Cile e ora in Venezuela, lo faremo comunque. Ripristinare il nostro ordine è la priorità”. Non c’è assolutamente modo di ragionare con costoro. Non possono essere placati, ma solo schiacciati; sconfitti. In Venezuela, Brasile, Cile, Ecuador o in Bolivia. Sono come topi, come malattie, i proverbiali simboli del fascismo come nel romanzo La peste di Albert Camus. Possono nascondersi, ma non scompaiono mai del tutto. Sono sempre pronti a invadere, senza preavviso, alcune città felici. Sono sempre pronti a unire le forze coll’occidente, perché le loro radici sono in occidente. Pensano esattamente come i conquistatori europei, come gli imperialisti nordamericani. Hanno doppie nazionalità e case in tutto il mondo. L’America Latina per loro è solo un posto dove vivere e saccheggiare le risorse naturali, sfruttare il lavoro. Derubano qui e spendono soldi altrove; educare i loro figli altrove, fare i loro interventi chirurgici (di plastica o reali) altrove. Vanno all’opera di Parigi ma non si mescolano mai cogli indigeni in casa. Anche se, per miracolo, si unissero alla sinistra, si tratterebbe della sinistra occidentale, anarco-sindacalista del Nord America e dell’Europa, mai la vera sinistra rivoluzionaria, antimperialista, dei Paesi non europei. Non hanno bisogno del successo della nazione. Non vogliono una Bolivia grande e prospera; la Bolivia per tutti i suoi cittadini. Vogliono solo aziende prospere. Vogliono soldi, profitto per se stessi, per le loro famiglie e clan, per la loro banda. Vogliono essere riveriti, considerati “eccezionali”, superiori. Non possono vivere senza quel divario, il grande divario tra loro e quegli “indiani sporchi”, come chiamano gli indigeni, quando nessuno li ascolta! Ed è per questo che la Bolivia dovrebbe combattere, difendersi, e comincia a farlo proprio ora.
Se questo, ciò che succede a Evo e al suo governo, è “la fine”, allora la Bolivia arretrerà di decenni. Intere generazioni marciranno di nuovo vive, nella disperazione, in baracche di argilla, senza acqua e luce, e senza speranza. Le “élite” ora parlano di “pace”, pace per chi? Per loro! Pace, come prima di Evo; “pace”, così i ricchi possono giocare a golf e volare per fare shopping nelle loro amate Miami e Madrid, mentre il 90% della popolazione veniva preso a calci, umiliato, insultato. Ricordo quella “pace”. Il popolo boliviano lo ricorda ancora meglio. Seguì la guerra civile nel vicino Perù, per diversi anni, negli anni ’90, e spesso passavo in Bolivia. Scrissi un romanzo al riguardo, “Punto di non ritorno”. Era un orrore assoluto. Non potevo nemmeno portare i miei fotografi locali a un concerto o per un caffè in un posto decente, perché erano colos, indigeni. Dei nessuno nei loro Paesi. Era l’apartheid. E se il socialismo non ritorna, sarà di nuovo l’apartheid. L’ultima volta che andai in Bolivia, qualche mese fa, era un Paese completamente diverso. Libero, fiducioso. Sbalorditivo. Ricordando ciò che vidi in Bolivia e Perù, un quarto di secolo fa, dichiaro chiaramente e con decisione: “Al diavolo questa “pace” proposta dalle élite”! Niente di tutto questo, ovviamente, è menzionato nei media occidentali. Li seguo, dal New York Times a Reuters. Negli Stati Uniti, nel Regno Unito, persino in Francia. I loro occhi brillano. Non possono nascondere la loro eccitazione; euforia. Lo stesso NYT celebrò i massacri durante il colpo di Stato militare orchestrato dagli Stati Uniti nel 1965-66 in Indonesia, o l’11 settembre 1973 in Cile. Ora la Bolivia, prevedibilmente. Grandi sorrisi in tutto l’occidente. Ancora e ancora, i “risultati” dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) vengono citati come se fossero fatti; “i risultati” di un’organizzazione pienamente subordinata agli interessi occidentali, in particolare di Washington. È come se dicesse: “Abbiamo la prova che un colpo di Stato non ha avuto luogo, perché chi l’ha organizzato afferma che non c’è stato”.
A Parigi, il 10 novembre, a Place de la Republique si radunò un’enorme folla di ricchi boliviani, chiedendo le dimissioni di Evo. filmai e fotografai tali persone. Volevo avere questo filmato, per i posteri. Vivono in Francia e le loro alleanze sono per l’occidente. Alcuni sono addirittura di origine europea, sebbene altri siano autoctoni. Ci sono milioni di cubani, venezuelani, brasiliani che vivono negli Stati Uniti e in Europa, lavorando instancabilmente per la distruzione delle loro ex-terre madri. Lo fanno per compiacere i loro padroni, per profitto, così come per vari altri motivi. Non è pace, questa è una guerra terribile e brutale che ha già fatto milioni di vittime nella sola America Latina. Questo continente ha la ricchezza meno equamente distribuita sulla terra. Centinaia di milioni vivono nella miseria. Mentre altri, figli e figlie o feccia feudale boliviana, frequentano Sorbona e Cambridge, per essere intellettualmente condizionati a servire l’occidente. Ogni volta, e lo ripeto ogni volta, che gente decente e onesto viene votato democraticamente dal popolo, ogni volta che c’è qualcuno che inventa una soluzione brillante e un piano solido per migliorare questa terribile situazione, l’orologio inizia a ticchettare. Gli anni (a volte anche i mesi) del leader sono contati. Lui o lei sarà o ucciso, o estromesso, o umiliato e costretto a lasciare il potere. Il Paese ritorna quindi, letteralmente, nella merda, come successo di recente in Ecuador (sotto Moreno), Argentina (sotto Macri) e Brasile (sotto Bolsonaro). Il brutale status quo è preservato. Le vite di decine di milioni rovinate. La “pace” ritorna, per il regime occidentale e i suoi lacchè.
Quindi, mentre un Paese violentato urla di dolore, innumerevoli ONG internazionali, agenzie delle Nazioni Unite ed organizzazioni finanziarie si avventano su di esso, improvvisamente decisi ad “aiutare i rifugiati”, a tenere i bambini in classe, a “dare potere alle donne” o a combattere malnutrizione e fame. Niente di tutto ciò sarebbe necessario se i governi al servizio del popolo fossero lasciati soli; in pace! Tale ipocrisia malata e patetica non è mai discussa pubblicamente dai mass media. Tale terrorismo occidentale scatenato contro i Paesi progressisti dell’America Latina (e decine di altri Paesi nel mondo), è messo a tacere. Quando è troppo è troppo!
L’America Latina si sta nuovamente risvegliando. I popoli sono indignati. Il colpo di Stato in Bolivia sarà contrastato. Il regime di Macri è caduto. Il Messico marcia su una direzione cautamente socialista. Il Cile vuole riavere il socialismo; un Paese che fu schiacciato dai militari nel 1973. Nel nome del popolo, nel nome della grande cultura indigena e nel nome di tutto il continente, i cittadini boliviani ora resistono, lottano, affrontando le forze fasciste e filo-occidentali. Il linguaggio rivoluzionario viene di nuovo usato. Potrebbe essere fuori moda a Parigi o a Londra, ma non in Sud America. E questo è ciò che conta, qui!
Evo non ha perso. Ha vinto. Il suo Paese ha vinto. Sotto la sua guida, divenne un Paese meraviglioso; pieno di speranza, che offriva grandi prospettive a centinaia di milioni in tutta La Patria Grande. Tutti a sud del Rio Grande lo sanno. Anche il meraviglioso Messico, che gli ha dato asilo, lo sa. Evo ha vinto. E poi, fu costretto ad abbandonare dall’esercito di traditori, affaristi criminali, feudatari e Washington. Evo, la sua famiglia e i suoi compagni furono brutalizzati dal capo paramilitare di estrema destra Luis Fernando Camacho che si definisce cristiano; brutalizzato da lui e dai suoi. La Bolivia combatterà. Riporterà il suo legittimo presidente al suo posto; nel palazzo presidenziale. L’aereo che porta Evo in Messico, a nord, lo riporterà a casa, di nuovo in Bolivia. È una grande deviazione, grande. Migliaia di chilometri e mesi, forse anni … Ma dal momento in cui l’aereo decollò, iniziò il tremendo, epico viaggio di ritorno a La Paz. Il popolo della Bolivia non abbandonerà mai il suo Presidente. Ed Evo è, per sempre, legato al suo popolo. E viva la Bolivia, dannazione!
Traduzione di Alessandro Lattanzio