Alessandra Riccio – https://nostramerica.wordpress.com
Il Presidente del Cile Sebastián Piñera dichiara lo stato di guerra e la risposta corale è: “No estamos en guerra!”. Mi sorprendo ancora di sorprendermi di fronte all’indifferenza generale quando il presidente di uno stato “democratico” si dichiara in guerra contro la sua stessa gente. Sarà che ormai siamo anestetizzati da tanti movimenti di piazza, da tante rivoluzione colorate, da tante immagini di violenza e di morte da non sentirci interpellati dalla risposta dei cileni: “Non stiamo in guerra!”.
Siamo anestetizzati al punto che, mentre sulla Piazza Italia gremita di manifestanti cala un silenzio mediatico assurdo, i nostri media ci informano, commossi e partecipi, della morte di un giovane dimostrante ad Hong Kong, caduto da un parcheggio durante una manifestazione, lì c‘era bisogno di un morto.
“Quello che ammiravamo del Cile non era il suo modello economico, ma il silenzio dei poveri”, questa terribile verità, ora sventolata sugli striscioni dei manifestanti, racconta tutta la verità degli ultimi cinquant’anni di storia cilena: i pochi anni di Allende, i 18 di Pinochet e i 30 di “democrazia” recuperata durante la quale nessuno ha osato cambiare la Costituzione di Pinochet. Il Cile se ne stava acquattato, esibendo indici economici fantastici nel contesto regionale in cui trionfava sui mercati con i suoi vini, la sua frutta, i suoi prodotti ben commercializzati da imprese ben protette e favorite da uno stato che aveva mantenuto la privatizzazione del rame per poter pagare molto bene la fedeltà e l’appoggio delle forze armate, uno stato sussidiario, disponibile per le imprese private. La privatizzazione dell’acqua, che in Bolivia era stata il deterrente per il grande cambiamento che ha portato alla Presidenza Evo Morales, non solo non è stata messa in discussione dai successivi governi, ma è stata difesa al di là della logica e del senso comune.
Avevo visitato il Cile un po’ di anni fa, guidata e accompagnata da Soledad Bianchi e Guillermo Núñez che avevo conosciuto nel loro esilio a Parigi. Guillermo, un quotato pittore, era stato il primo cileno a testimoniare a Ginevra sulle torture subite, Soledad è un’apprezzata docente universitaria e critica letteraria. Nella loro casa del quartiere La Florida, circondata da alberi di avocado, avevo chiacchierato con la loro donna di servizio. Contrariamente a quanto avevo visto a Buenos Aires, dove i collaboratori domestici provenivano per la maggior parte dalla Bolivia, a Santiago il personale non mancava, tutti erano rassegnati a fare due o tre lavori e non solo nel lavoro domestico; la mia amica Soledad si districava fra due o tre università private mentre la sua domestica aveva mandato il figlio in Argentina a cercare di realizzare il sogno di laurearsi in un’università statale e gratuita. La democrazia cilena ignorava il welfare, lasciava che la gente si arrangiasse nel multilavoro mentre imperava il privato, nei mezzi di comunicazione, nella mobilità cittadina, nella sanità, ovunque e dappertutto.
Mentre visitavo la casa di Neruda a Santiago, nella sottostante alameda una manifestazione veniva dispersa da alcuni, mostruosi attrezzi che vedevo per la prima volta, degli idranti potentissimi che spazzano le strade con una violenza contro la quale niente resiste; ne avevo dedotto che la democrazia cilena si era ben attrezzata per reprimere il dissenso. In altre zone della città, gli studenti delle scuole medie, detti “pingüinos” per le loro uniformi grigio scure e le camicie bianche, manifestavano contro il prezzo del trasporto pubblico. Parlo degli ultimi mesi del Governo Lagos sostituito poi da Michelle Bachelet, vittima con la sua famiglia, della repressione di Pinochet. Ma l’assetto del paese non è cambiato, la disuguaglianza è rimasta tale, il sistema ipercapitalista è stato sempre alla difesa, ha offerto crediti facili, la gente si è indebitata e per questo l’ennesimo aumento per la spettacolare metropolitana di Santiago ha acceso la miccia. Ma quello che colpisce e commuove è che cinquanta anni dopo il popolo cileno “ha resuscitato i martiri, ha resuscitato gli eroi” come ha ricordato Nicolás Maduro pochi giorni fa all’Avana. E’ emozionante risentire le canzoni che ci avevano commosso nei primi anni settanta, la voce del martire Víctor Jara invocare il diritto di vivere in pace, la tonante affermazione che “el pueblo unido jamás serà vencido”. E’ emozionante vedere la novantenne vedova di Jara, Joan, che ha sempre perseguito la verità e la giustizia, manifestare al braccio di Rigoberta Menchú lungo quell’alameda che Salvador Allende profetizzò nuovamente libera.