Alessandra Riccio – https://nostramerica.wordpress.com
Y la culpa no era mía,
ni dónde estaba,
ni cómo vestía.
El violador eres tú.
El Estado opresor es un macho violador.
El violador eres tú.
Questi versi del tutto contemporanei, che stanno invadendo il pianeta, dal Cile all’India, dalla Germania a Roma, mi sembrano il miglior exergo per una brevissima storia del continente americano, tagliato in due dall’unica frontiera murata esistente fra il Polo nord e il Polo sud: la frontiera fatta erigere da Clinton, proseguita da Obama e perfezionata da Trump fra gli Stati Uniti e il Messico.
Questi versi fanno parte di un flash mob femminista contro la violenza maschile rapidamente diventato virale, partito dal Chile dove, dal 18 ottobre un’inattesa insorgenza popolare agita quel Paese che si vantava di essere l’eccezione nel contesto latinoamericano per gli indici economici che dovevano dimostrare che il neoliberalismo, ben applicato, produce vantaggi e benessere. Ma diretti a chi questi vantaggi e questo benessere, non veniva specificato. Del problema dei problemi per i cileni, la disuguaglianza, non se ne parlava neanche. La distanza verticale che separa le classi sociali non poteva essere toccata.
Contro l’insubordinazione, la repressione. Fra i tanti slogan in cui si sono espressi i cileni in questi mesi di disobbedienza, ce ne è uno che mi piace molto: «Quello che ammiravano del Cile non era il suo modello economico, ma il silenzio dei poveri». Oggi quel silenzio si è rotto e sappiamo di che lacrime grondi e di che sangue la democrazia cilena dopo i diciotto anni del regime dittatoriale di Pinochet e i trenta di democrazia vigilata. Per tre volte Presidente, Sebastián Piñera, al primo sorgere di insubordinazione – gli studenti medi che saltano i tornelli della metro e aiutano gli altri cittadini a saltarli – proclama «Estamos en guerra!», manda in strada squadre antisommossa armate fino ai denti, i terribili idranti popolarmente chiamati guanacos, i blindati, le pallottole sparate agli occhi, e via reprimendo.
Si sorprende, Piñera, in un’intervista a El País (10 novembre 2019) di non avere compreso il clamore proveniente dalla piazza per una società più giusta, nei primi giorni rubrica i disturbi come “malestar del éxito”, un malessere prodotto dal successo. Offre la testa di qualche ministro, promette una nuova Costituzione, si batte il petto («avremmo dovuto capire che bisognava distribuire meglio i frutti della nostra prosperità») e spera di mettere tutti nel sacco. Il gioco gli riesce con la sinistra rappresentata in Parlamento, più che assuefatta ai compromessi, ben cosciente degli stretti spazi in cui si può muovere, forse anche essa attaccata alle poltrone. Aquiles Baeza, nel 52esimo giorno delle proteste, accusa i giovani del Frente Amplio («giovani con anima vecchia», li definisce) di essersi sottomessi a un governo che era già a terra e di aver votato la legge repressiva che consente di perpetuare lo stato di guerra del Governo contro il popolo del Cile.
Passano le settimane, quel popolo continua a mostrare creatività, voglia di cambiamento, disobbedienza. Presenti, presentissime, le donne, che nei giorni scorsi, con il motivetto delle Las Tesis, con quei pochi passi di danza, con una benda nera sugli occhi, hanno riassunto in poche parole, il quid del problema in Cile e in America Latina: el violador eres tú, lo stupratore sei tu.
Viene dalle donne questa azzeccata semplificazione: qualsiasi siano i dettagli, i particolari di un abuso, la verità è che il colpevole della violenza è il violentatore. Spesso questo principio viene dimenticato, si cercano gli argomenti, ci si arrampica sugli specchi per trovare giustificazioni al gesto violento dello stupratore. È da poco accaduto in Bolivia, dove un piccolo gruppo di integralisti cristiani ha seminato il terrore nel Paese con metodi fascisti, contando sull’appoggio della oligarchia conservatrice e, soprattutto, delle forze armate, per mettere in fuga il Presidente Morales e nominare al suo posto una parlamentare il cui partito raggiunge a stento il 4% dei consensi e che ha scatenato una repressione che dura ancora. Nelle settimane precedenti a questo golpe, Evo Morales è stato il bersaglio degli strali provenienti da tutti i lati, si è scatenata la caccia agli errori, una certa sinistra ha cercato il pelo nell’uovo e, peggio ancora, l’antropologa argentina Rita Segato ha picchiato duro denunciando il sistema patriarcale della politica governativa e scoprendo uno a uno i nodi di una pratica politica senza sottolineare che, per la prima volta, quel Governo aveva a cuore faccende complicate come i temi delle donne, l’integrazione delle etnie, le pari opportunità, la disuguaglianza.
Tornando a “Un violador en tu camino”, le LasTesis ne hanno spiegato la genesi contingente, ma è stata la stessa Segato a far notare che lo stupratore non è semplicemente un individuo che agisce per il piacere sessuale: egli è colui che esercita l’atto violento, come Piñera che non ha esitato a dichiarare il coprifuoco per negare la giustizia al suo popolo. Non è la prima volta che ci tocca constatare che quando si sacrifica una politica di sinistra, seppur imperfetta, ne viene fuori una dittatura di destra perfetta e il pensiero corre subito all’indimenticabile Salvador Allende e a quei giorni drammatici rimasti miracolosamente intatti nella memoria dei cileni che hanno risuscitato i loro martiri e i loro eroi attraverso quei canti che quelli della mia generazione non hanno dimenticato e non possono dimenticare.
L’America ha avuto la disgrazia di inciampare più e più volte nel “violentatore”, a cominciare dall’insanabile ferita della conquista del Continente quando, da un’Europa come sempre in guerra – guerra di religione, guerra di confini – affrontavano l’oceano migliaia e migliaia di persone disposte a rischiare la vita nell’avventura, pur di ricavarne beneficio per se stessi o per la Corona e per le Chiese che rappresentavano. Chi ha “conquistato” l’America l’ha fatto con il metodo della violenza e si è giustificato per aver sottomesso interi popoli e civiltà con l’argomento della barbarie, delle religioni eretiche, delle pratiche bestiali, popolazioni colpevoli di “stare dove stavano”, di “vestire come vestivano”.
Tutte le corone europee hanno colonizzato con entusiasmo un intero continente di barbari, poco contava che fossero nomadi o organizzati in grandi Stati e addirittura in Imperi. La parola d’ordine era quella di
penetrare, violentare, conquistare e perfino sterminare. Proprio nelle modalità della Conquista, i diversi paesi europei hanno dato origine a una differenza continentale che si è rivelata fatale: per i coloni anglosassoni, l’imperativo era quello di conquistare una terra per sé e per la propria famiglia, non difendersi dai popoli originari ma attaccarli e sterminarli, fare tabula rasa degli abitanti di quelle immense pianure dove popolazioni di varie etnie vivevano da secoli nel loro equilibrio socioeconomico.
Vale la pena di notare che mentre la parola “conquistatore” è usata per gli spagnoli e i portoghesi, quando si tratta dell’epopea della conquista dell’America del Nord, la parola usata è “colono”, e la narrazione di quella epopea parla di eroiche famigliole minacciate da crudeli selvaggi mentre penetrano innocentemente in un territorio altrui in cerca del loro benessere e dotati di un’arma formidabile, quella di essere portatori di civiltà, colonizzatori. Penetratori, violentatori, quei coloni non ritenevano di dovere obbedienza alla Corona, nelle loro vicissitudini di conquista del territorio avevano contato sulle proprie forze, nutrito un senso della libertà individuale che ancora oggi caratterizza il cittadino che è pronto a difendere con le armi le proprietà personali, anche le più infime. Di convivenza con le popolazioni indigene, neanche a parlarne; relegati nelle riserve, i pericolosi “pellerossa” si sono consumati poco a poco.
Di convivenza con i confinanti spagnoli, ancor meno. Diversi per lingua e religione, sono anche essi barbari, si mischiano alla popolazione originaria, obbediscono a una Corona tradizionalmente nemica della Monarchia britannica e vanno tenuti a distanza. Dopo che le tredici Colonie hanno intrapreso e vinto la prima guerra di decolonizzazione, ottenuto l’indipendenza dalla madrepatria operando una vera e propria rivoluzione, combattuto una sanguinosa guerra civile fra Nordisti e Sudisti, la neonata confederazione di Stati ha avvertito l’urgenza di proteggersi dal diverso da sé e lo ha fatto allontanando sempre più la frontiera che la separa dal Messico e perfino comprando territori (il caso della Louisiana) o imponendo protettorati. La nuova federazione di Stati è bianca, anglosassone e protestante, non vuole vicini di casa, non vuole chi è diverso se non in ruoli subalterni e discriminanti. La statua della Libertà, che invita ad entrare in un porto sempre aperto che accoglie tutti, nei fatti, è una leggenda ingannevole.
Nell’altra parte dell’America, quella a Sud, hanno sterminato, hanno imposto, hanno violato e stuprato ma non hanno annientato stirpi, tradizioni, lingue, abiti che dopo cinquecento anni di sorda resistenza sono ancora nei loro territori, parlano le loro lingue, vestono secondo le loro tradizioni. Sono gli ultimi degli ultimi, vengono perfino dopo i negri rapiti dalle loro terre africane, venduti al mercato degli schiavi e usati come strumenti di lavoro finché una lunga, ambigua campagna antischiavista li libererà dallo stigma della schiavitù ma non darà loro l’uguaglianza (né al Nord, né al Sud).
Esemplare è il caso dei mapuche, ridotti dalla logica coloniale che separa le etnie con abusivi confini, a vivere nelle terre più meridionali di Cile e Argentina ma mai domati e mai annientati. Essi occupano da prima della Conquista, da prima dell’invenzione delle frontiere fra gli Stati, delle terre ambite dagli speculatori: ne hanno un diritto ancestrale che però a poco serve rispetto alla prepotenza del capitale, alla forza del denaro e a un diritto fatto ad uso e consumo delle classi dominanti. È noto il caso di Benetton, che ha acquistato immensi territori per i suoi allevamenti e si è trovato a doversi scontrare con gli insediamenti mapuche decisi a non cedere le loro terre. Nel Cile di Pinochet e seguaci, all’insubordinazione dei mapuche si è risposto con una misura estrema: per loro vale la stessa legislazione che regola il terrorismo, per cui qualsiasi gesto di disobbedienza viene condannato nella maniera più severa.
Quando gli insubordinati, i disobbedienti sono degli Stati, piccoli o grandi, non importa, la reazione è ancora la stessa: eliminare la mela marcia, ricondurre alla “norma” chi trasgredisce. Succede con una puntualità esasperante, a cominciare dal Guatemala degli anni Cinquanta, passando per Cuba – indomita ma mai perdonata -, e via via fino a questo nuovo millennio, quando parte dal Venezuela un’iniziativa pericolosissima per l’assetto americano; si tratta di una nuova alleanza panamericana, ALBA, che parte dalla Cuba di Castro e dal Venezuela di Chávez per aggregare in pochi anni il Brasile di Lula, l’Argentina di Kirchner, l’Ecuador di Correa, la Bolivia di Evo Morales, il Nicaragua di Ortega. Questo gruppo di paesi progressisti constata che esiste una storia comune di colonialismo e neocolonialismo, una lingua comune (il portoghese del Brasile è assorbibile), una coscienza comune delle potenzialità dei singoli Stati decisi a mettere in comune risorse e necessità. È una vera e propria bomba che va disinnescata con tutti i mezzi possibili: mette in discussione la supremazia di Washington e questo è inaccettabile. Questa operazione di disinnesco, iniziata nei primi anni del 2000, è in pieno corso e si serve di tutti gli strumenti, quelli tradizionali e quelli di nuova e nuovissima invenzione, pur di spezzare quella nascente alleanza, disautorarne i leader e ripristinare l’ordine voluto da Washington e sostenuto dai governi di Cile, Colombia, Perù e anche Messico prima che venisse eletto il nuovo Presidente Manuel López Obrador.
Questa la brevissima historia dell’America Latina nel Terzo Millennio. Ogni tipo – vecchio e nuovo – di destabilizzazione dei legittimi governi è messo in atto da una sotterranea, ma non troppo, alleanza fra oligarchie, multinazionali, sette religiose conservatrici di grande potere sotto la guida, sotterranea ma non troppo, degli Stati Uniti d’America e della sua potentissima intelligence.
L’America agli americani, recitava l’ottocentesca Dottrina Monroe e ora, nel XXI secolo, ancora ferreamente vigente, implacabile, asfissiante. A nulla sono valse le grandi esperienze politiche, sociali, culturali della Rivoluzione Messicana, del Bogotazo, delle rivolte contro dittatori come Trujillo nella Repubblica Domenicana, riformismi come quello tentato da Arbenz in Guatemala, vere e proprie rivoluzioni come quella cubana, esperienze di un socialismo illuminato come nel Cile di Allende o di una rivoluzione pluralista come nel Nicaragua sandinista, decenni di lotta armata in Perù, in Centro America, in Colombia.
La via crucis dell’America Latina non è ancora finita. Il golpe ultraconservatore in Bolivia contro il governo di Evo Morales, spazza via una delle esperienze più originali, innovative e coraggiose mai sperimentate. Ma il Cile, per tanti anni dormiente, assopito, silenzioso, sta lì a dirci che la cenere brucia sotto il carbone e che le grandi esperienze rivoluzionarie lasciano sempre profonde tracce.
Riusciremo mai a vedere un giorno un mondo senza violentatori?