Questo sabato, nella sala José Antonio Portuondo de La Cabaña, viene presentata l’edizione cubana di questo gioiello di saggio di Jon Illescas
Iroel Sánchez www.granma.cu
Come è possibile che un saggio, con più di 600 pagine e 1300 note, accumuli in breve tempo tre edizioni stampate e la sua versione digitale si commercializzi con successo in internet?
Com’è possibile che l’apparizione di un’opera come ‘La dittatura del videoclip’, che dalla prima pagina si dichiara apertamente marxista ed anticapitalista, abbia provocato numerose recensioni nei media che sistematicamente professano l’opposto di ciò che in essa si espone?
Sono domande che assalgono la mente al conoscere la storia di questo titolo di Jon Illescas, che ha avuto la deferenza di facilitare l’accesso al lettore cubano e che molti concordano nel definire come la ricerca più completa, almeno in spagnolo, sul prodotto dell’industria culturale che più impatto ha tenuto, da più di una decade, tra i giovani di tutto il mondo e la cui influenza -con la costante crescita degli accessi ad Internet- non ha fatto altro che moltiplicarsi.
Questo non è un libro contro il videoclip, ma contro il suo controllo ed uso da parte di una manciata di società transnazionali e governi al servizio di quelle, con desiderio di dominio globale. Viste da coloro che aspirano alla diversità culturale, le statistiche mostrate in questo titolo risultano inquietanti:
Dei dieci video più visti su YouTube, tra il 2005 ed il 2015, sette sono USA, uno coreano, uno canadese ed uno spagnolo.
-Il 61,5% delle bandiere che compaiono nei videoclip sono USA, moltiplicando per sei la frequenza del secondo paese: la Gran Bretagna.
-Il 90% dei videoclip sono cantati in inglese.
-In quasi quattro su dieci video (39,8%) ci sono apologie di droghe legali (quasi sempre alcol) ed in più di uno ogni dieci, illegali (marijuana quasi sempre).
L’autore qui riesce a combinare, in modo ameno, l’aneddoto e l’analisi più rigorosa con le statistiche e le citazioni che lo argomentano nella sua critica all’industria culturale egemonica. Tuttavia, ciò non lo rende cieco davanti alle incoerenze di coloro che dovrebbero essere la sua alternativa, compresi musicisti, organizzazioni e governi che si riconoscono, o si sono riconosciuti, di sinistra o socialisti, benché, a volte, le poche informazioni disponibili da questi stessi processi e l’inondazione di informazioni stereotipate, lo faccia, con onestà, relativizzare o porre in dubbio sui suoi stessi giudizi. Anche in questo contesto risalta il suo riconoscimento di come a Cuba la produzione di videoclip sia orientata «da logiche più vicine a quella artistica», percezione che sicuramente approfondirà nel suo contatto con la nostra realtà a partire dai coinvolgimenti ed approcci che risveglieranno, tra noi, la pubblicazione del suo libro, perché al di là delle nostre stesse manchevolezze, siamo ben lungi dall’essere in un’urna di cristallo, è crescente l’accesso dei giovani cubani ad Internet e recenti ricerche segnalano YouTube come la rete sociale più visitata dell’isola.
C’è qui uno sguardo accurato su come si mescolano in questa industria -con una crescente efficacia, facilitata dal big data- profitto, seduzione, censura ed egemonia, ma anche ciò che spesso manca in altre opere di questo tipo: proposte di alleanze ed articolazioni finanziarie, di realizzazione e distribuzione, che consentirebbero stimolare l’esistenza e la remunerazione di ciò che l’autore chiama videoclip contro-egemonico, all’interno della quale registra opere realizzate a Cuba.
Leggere questo libro dall’America Latina rimette alla bassa priorità che i progetti di integrazione per la produzione audiovisiva e dell’industria culturale in generale, hanno avuto tra quelle forze di sinistra che sono giunte al governo, negli ultimi due decenni nella regione, ed hanno dovuto concentrarsi sulla battaglia politica, comunicativa, economica e militare senza quartiere pianificata dall’imperialismo, che si riflette nella loro poca presenza nelle piattaforme e strategie di comunicazione, più concentrate sull’urgenza del combattimento informativo che sull’articolazione di alternative che potenzino la produzione e circolazione di produzioni audiovisive contro-egemoniche.
Ad esempio, suggerisce che, in America Latina, Telesur dovrebbe essere l’inizio del dispiegamento dei potenziali di uno spazio audiovisivo comune latinoamericano. Un paese con la densità culturale dell’Argentina ha diversificato e moltiplicato, durante i governi dei Kirchner e sotto la direzione del cineasta Tristán Bauer, la produzione audiovisiva per scopi educativi e culturali, creando produttori e nuovi canali televisivi anche con una presenza in Internet. Il lavoro congiunto di questi canali con case di produzione di piccole e medie dimensioni, istituzioni e ministeri argentini, ha generato, dal 2007, 21000 posti di lavoro tra specialisti dell’industria audiovisiva e gestori dei contenuti relazionati ad obiettivi culturali, educativi, identitari ed emancipatori nelle diverse sfere dell’arte e della scienza, ma questo trascendeva molto poco al di fuori del paese sudamericano, in momenti in cui più successo hanno avuto i processi di integrazione regionale. Il ritorno di un governo post-neoliberale a Buenos Aires, in cui Bauer è il ministro della cultura, suggerisce una seconda opportunità per l’integrazione latinoamericana su questo fronte.
La lettura attenta all’inizio di questo volume può offrire alcune risposte alle domande iniziali ed alla conoscenza del suo autore, ma anche farci sapere che, nonostante i più alti riconoscimenti accademici ottenuti dalla ricerca dottorale che funge da base al libro, in due delle più prestigiose università spagnole, Illescas non è ammesso come docente in quelle né in qualsiasi altra istituzione di studi superiori ed attualmente è professore in una Scuola Superiore e Secondaria di base nel suo paese, un lavoro che egli dice gli ha permesso trovare nuovi apprendimenti tra coloro che sono i suoi alunni.
Ma dopo aver letto questo volume, capiremo che oggi ci sono pochi altri compiti più importanti che impartire la Cultura Audiovisiva agli adolescenti ed ai giovani, come fa Jon Illescas, condividendo con i cittadini del futuro la saggezza che le ricerche contenute in questo libro gli ha apportato. Non sarà la prima volta che idee e conoscenze rompono i muri di un’aula o le pagine di un libro per contribuire alla trasformazione della realtà. E a tal fine è un passo significativo pubblicare quest’opera a Cuba, un’isola che ha tra le sue più importanti sfide rinnovarsi e continuare ad essere, lei stessa, nel mezzo di una formidabile guerra che non è solo economica, ma anche e, soprattutto, culturale.
La dictadura del videoclip
Este sábado, en la sala José Antonio Portuondo de La Cabaña, se presenta la edición cubana de esta joya del ensayo de Jon Illescas
Autor: Iroel Sánchez | internet@granma.cu
¿Cómo es posible que un libro de ensayo, con más de 600 páginas y 1 300 notas, acumule en breve tiempo tres ediciones impresas y su versión digital se comercialice exitosamente en internet?
¿Cómo es que la aparición de una obra como La dictadura del videoclip, que desde la primera página se declara abiertamente marxista y anticapitalista, provocó numerosas reseñas en medios de comunicación que sistemáticamente profesan todo lo contrario a lo que ella plantea?
Son preguntas que asaltan la mente al conocer la historia de este título de Jon Illescas, quien ha tenido la deferencia de facilitar el acceso al lector cubano y que muchos coinciden en definir como la investigación más completa, al menos en lengua española, sobre el producto de la industria cultural que más impacto viene teniendo desde hace más de una década entre los jóvenes del mundo entero, y cuya influencia –con el crecimiento constante de los accesos a internet– no ha hecho sino multiplicarse.
Este no es un libro contra el videoclip, sino contra su control y utilización por un puñado de empresas transnacionales, y gobiernos al servicio de aquellas, con afanes de dominación global. Vistas desde quienes aspiran a la diversidad cultural, las estadísticas que muestra este título resultan inquietantes:
De los diez videos más vistos en YouTube entre 2005 y 2015, siete son estadounidenses, uno coreano, uno canadiense y uno español.
El 61,5 % de las banderas que aparecen en videoclips son de Estados Unidos, multiplicando por seis la frecuencia del segundo país: Gran Bretaña.
El 90 % de los videoclips son cantados en inglés.
En casi cuatro de cada diez videos (39,8 %) hay apología de drogas legales (casi siempre alcohol) y en más de uno de cada diez, ilegales (marihuana casi siempre).
El autor logra aquí combinar de modo ameno la anécdota y el análisis más riguroso con las estadísticas y las citas que lo argumentan en su crítica a la industria cultural hegemónica. Sin embargo, eso no lo hace ciego frente a las incoherencias de quienes deberían ser su alternativa, incluyendo músicos, organizaciones y gobiernos que se reconocen, o han reconocido, como de izquierda o socialistas, aunque en ocasiones la poca información disponible desde estos propios procesos y la inundación de información estereotipada, lo haga, con honestidad, relativizar o poner en duda sus propios juicios. Aun en ese contexto resalta su reconocimiento de cómo en Cuba la producción de videoclips se orienta «por lógicas más cercanas a la artística», percepción que seguramente profundizará en su contacto con nuestra realidad a partir de las apropiaciones y acercamientos que despertarán entre nosotros la publicación de su libro, porque más allá de nuestras propias manquedades, distamos mucho de estar en una urna de cristal, es creciente el acceso de los jóvenes cubanos a internet y recientes investigaciones señalan a YouTube como la red social más visitada en la Isla.
Hay aquí una certera mirada acerca de cómo se mezclan en esta industria –con una eficacia creciente, facilitada por el big data– lucro, seducción, censura y hegemonía, pero también lo que muchas veces se extraña en otras obras de este tipo: propuestas de alianzas y articulaciones financieras, de realización y distribución, que permitirían estimular la existencia y remuneración de lo que el autor llama videoclip contrahegemónico, dentro del cual lista obras hechas en Cuba.
Leer este libro desde América Latina remite a la poca prioridad que los proyectos de integración para la producción audiovisual, y de la industria cultural en general, han tenido entre aquellas fuerzas de izquierda que han llegado al gobierno en las últimas dos décadas en la región y han debido concentrarse en la batalla política, comunicacional, económica y militar sin cuartel planteada por el imperialismo, lo que se refleja en su poca presencia en las plataformas y estrategias de comunicación, más centradas en la urgencia del combate informativo que en la articulación de alternativas que potencien la producción y circulación de realizaciones audiovisuales contrahegemónicas.
Por ejemplo, hace pensar en que, en Latinoamérica, Telesur debería ser el inicio del despliegue de las potencialidades de un espacio audiovisual común latinoamericano. Un país con la densidad cultural de Argentina diversificó y multiplicó, durante los gobiernos de los Kirchner y bajo la dirección del cineasta Tristán Bauer, la producción audiovisual con fines educativos y culturales, creando productoras y nuevos canales televisivos también con presencia en internet. El trabajo conjunto de esos canales con pequeñas y medianas casas productoras, instituciones y ministerios argentinos, generó, desde el año 2007, 21 000 puestos de trabajo entre especialistas de la industria audiovisual y gestores de los contenidos relacionados con objetivos culturales, educativos, identitarios y emancipatorios en las distintas esferas del arte y la ciencia, pero eso trascendió muy poco fuera del país sudamericano, en los momentos en que más auge tuvieron los procesos de integración regional. El regreso de un gobierno posneoliberal a Buenos Aires, en el que Bauer es el Ministro de Cultura, hace pensar en una segunda oportunidad para la integración latinoamericana en este frente.
La lectura atenta a los inicios de este volumen puede ofrecer algunas respuestas a las preguntas iniciales y el conocimiento de su autor, para también hacernos saber que a pesar de los más altos lauros académicos obtenidos por la investigación doctoral que sirve de base al libro, en dos de las más prestigiosas universidades españolas, Illescas no es admitido como docente en esas ni en ninguna otra casa de altos estudios y se desempeña hoy como profesor de Bachillerato y Secundaria Básica en su país, un oficio que él plantea le ha permitido encontrar nuevos aprendizajes entre quienes son sus alumnos.
Pero después de leer este volumen, comprenderemos que hay pocos oficios más importantes hoy que impartir Cultura Audiovisual a adolescentes y jóvenes, como hace Jon Illescas, compartiendo con los ciudadanos del futuro la sabiduría que las investigaciones contenidas en este libro le ha aportado. No será la primera vez que ideas y conocimientos rompan los muros de un aula, o las páginas de un libro, para contribuir a la transformación de la realidad. Y en ese propósito es un paso significativo la publicación de esta obra en Cuba, una isla que tiene entre sus más importantes desafíos renovarse y seguir siendo ella en medio de una guerra formidable que no es solo económica, sino también y, sobre todo, cultural.