di Geraldina Colotti
“Le sanzioni sono un crimine”. S’intitola così il rapporto informativo che il governo bolivariano ha presentato alla Corte Penale Internazionale per denunciare i danni provocati al popolo venezuelano dalle misure coercitive e unilaterali imposte da Donald Trump.
Misure che costituiscono un crimine di lesa umanità che, dal 2014, quando Obama ha definito il Venezuela “una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati Uniti”, provocano sofferenza alla popolazione con l’obiettivo esplicito e rivendicato di rovesciare il governo Maduro. Il rapporto contiene infatti le ripetute dichiarazioni di Trump e dei suoi funzionari che manifestano pubblicamente queste intenzioni.
Un attacco rinnovato il 5 marzo dal presidente nordamericano, che ha chiesto al Congresso USA di prolungare per un altro anno il decreto esecutivo di Obama, peggiorato da un lungo elenco di ordinanze promulgate poi dallo stesso Trump e rivendicate adesso con arroganza.
Per evitare che la situazione si stabilizzi in Venezuela, con l’approssimarsi delle parlamentari di questo anno e con la ripresa economica che si sta manifestando, la destra al soldo degli USA prepara una nuova offensiva violenta, coadiuvata dai paesi capitalisti vassalli di Trump, come la Colombia e il Brasile.
Maduro ha denunciato che Trump “cerca di provocare una guerra con il Brasile”, mentre un ingente quantitativo di armi e esplosivo, proveniente dalla Colombia, è stato sequestrato nel Tachira a un gruppo di paramilitari penetrati in Venezuela con intenti destabilizzanti.
E per il 10 marzo, l’autoproclamato “presidente a interim” Juan Guaidó, sconfessato da gran parte della destra che ha accettato il dialogo con il governo, ma ringalluzzito da un viaggio all’estero durante il quale ha ottenuto udienza presso i suoi padrini occidentali, ha annunciato una manifestazione.
Intanto, il governo bolivariano ha denunciato il “falso positivo” del presunto attentato contro Guaidó a Barquisimeto. Un altro teatro allestito dall’estrema destra per giustificare le nuove misure coercitive di Trump ai danni del popolo venezuelano. Le prove esibite dal governo, prima da Diosdado Cabello nel suo programma Con el Mazo dando, poi dal ministro della Comunicazione Jorge Rodriguez in conferenza stampa, sono inoppugnabili. Chiunque lo può constatare accedendo a youtube. Difficilmente, però, i media che hanno sparato a tutta pagina le foto manipolate del presunto attentato, pubblicheranno una smentita.
Un anno fa, il 7 marzo, la destra ha cercato di mettere in ginocchio il paese con il micidiale sabotaggio elettrico, bloccando anche la marcia delle donne del giorno successivo. Ma il socialismo bolivariano, il socialismo femminista, ha reagito con una grande manifestazione di piazza il sabato successivo. E così farà anche in questo 8 di marzo, festa delle lavoratrici.
L’intervista che segue, racconta la resistenza di una donna in uno dei municipi più anti-chavisti del Venezuela, Diego Bautista Urbaneja, nello stato Anzoategui.
“Palabra, palabra, palabra de mujer. La patria del Hugo Chavez la vamos a proteger”. “A construir, a practicar, el feminismo popular”. A Barcelona, le donne accolgono così l’arrivo della ministra Asia Villegas. Durante il dibattito sulla violenza di genere, Asia chiede alle donne presenti di esprimere richieste e proposte. Roxana Baez, presidenta de Inmujer del municipio Simon Bolivar, che vive però nel municipio Diego Bautista Urbaneja, il più anti-chavista del paese, chiede, in particolare, gli strumenti per l’analisi del DNA, prova essenziale nei procedimenti di questo tipo. Al termine dell’incontro, chiediamo a Roxana di parlarci della sua esperienza.
“Da 13 anni – dice – lavoro per costruire il socialismo femminista voluto da Chavez e da Maduro e per trasformare la società in base ai principi della nostra matria. Lo faccio in condizioni davvero avverse, poiché il municipio Diego Bautista Urbaneja, per quanto piccolo, è all’85% composto da classe medio-alta anti-chavista, ed è stato uno dei centri più attivi nelle violenze contro il governo. Durante le guarimbas, ho subito minacce e aggressioni. Per 4 mesi, ho dovuto camminare per un’ora e mezza per andare al lavoro e così per tornare a casa. Ma tu sai come siamo noi donne, non ci lasciamo intimorire”.
Nel municipio – dice Roxana – ci sono molti problemi, molte famiglie disfunzionali che hanno figli tossici e violenti. I suoi due figli, grazie alle relazioni della famiglia, sono stati ammessi in uno dei collegi più prestigiosi. “In quell’istituto – racconta Roxana – trafficavano con le quote d’ingresso. Una pratica che ho denunciato pubblicamente. Il comandante Chavez mi ha dato coraggio e sono andata avanti. Per il mio impegno dichiarato a favore della rivoluzione, hanno cercato di cacciare i miei figli, li hanno isolati e perseguitati. È stato terribile, ma abbiamo tenuto duro. E quando il più grande si è laureato da avvocato con il massimo dei voti, i direttori hanno dovuto chiederci pubblicamente scusa per quel che ci avevano fatto passare. I miei figli oggi hanno una coscienza socialista.”.
Roxana racconta che, come direttora di Inmujer, si dedica soprattutto a “sviluppare coscienza attraverso la formazione. Ho cominciato a tenere corsi – spiega – alla polizia del municipio, quando mi sono resa conto che non prestavano attenzione alle denunce per violenza di genere delle donne, che erano obbligate ad andare a Barcelona. Ho aperto un ufficio nel Museo de los niños e, da 13 anni, per due volte alla settimana ricevo le donne vittime di violenza. Ne ho già aiutate 600”. Con quali mezzi? “La sorellanza, l’aiuto mutuo fra donne. Quando ho bisogno della perizia psicologica o psichiatrica, chiamo qualche mia amica che riceve le donne gratuitamente. Per migliorare le cose, dovremmo adottare un protocollo unico per le denunce, adottare un linguaggio comune. E avere gli strumenti per le analisi del DNA è fondamentale per facilitare le indagini e impedire che i casi vengano archiviati perché manca la prova definitiva”.