di Geraldina Colotti
Quando lo abbiamo incontrato a Caracas, a febbraio, Freddy Bernal ce lo aveva anticipato: “Sappiamo – aveva detto – che un gruppo di paramilitari cercherà di entrare in Venezuela dalla Colombia, ma siamo preparati, li aspetteremo al varco”. E, infatti, qualche giorno fa è arrivata la notizia: 37 paramilitari della banda criminale “Los Rastrojos” sono stati arrestati nel Tachira con 650 kg di esplosivo, e trovati in possesso di uniformi dell’esercito colombiano.
Con quella quantità di esplosivo – ha scritto in twitter Bernal – si potevano produrre “fino a 2.000 bombe artigianali”. Bombe come quelle utilizzate nelle violenze contro il governo – le guarimbas -, che hanno avuto nello stato frontaliero del Tachira uno degli epicentri principali.
Un allarme che torna dopo l’appello a marciare fino all’Assemblea Nazionale Costituente domani 10, lanciato dall’autoproclamato “presidente a interim” Juan Guaidó. Dopo il tentativo di invasione dalla Colombia, mascherato da “aiuto umanitario”, sventato il 23 febbraio del 2019, la foto di Guaidó con Los Rastrojos era stata mostrata all’ONU dalla vicepresidenta Delcy Rodriguez e aveva destato scalpore. Quella dei Los Rastrojos è una organizzazione di narcotrafficanti, paramilitari, nati nel 2016 da una scissione delle Autodefensas Unidas.
Da quando Maduro lo ha nominato “protettore del Tachira”, Bernal è entrato nel mirino delle organizzazioni criminali che operano nel vasto territorio di frontiera. “Hanno offerto una ricompensa di oltre 20 kg d’oro a chi mi faccia fuori”, dice. Il Tachira, “è una zona di guerra, uno dei territori più recalcitranti a riconoscere l’autorità del governo bolivariano, in cui agiscono potenti organizzazioni criminali come Los Rastrojos, a cui abbiamo assestato potenti colpi, riprendendo il controllo di 3 sui 5 municipi che controllavano. L’ultima volta abbiamo sequestrato 17 imbarcazioni, 20 veicoli, 7 tonnellate di alimenti e 2 di medicine, che venivano prodotte in laboratori clandestini, e reperito un’enorme quantità di informazioni. Tutto grazie all’unione civico-militare, nel rispetto della legalità e dei diritti umani”.
Qualche tempo fa, Bernal è comparso con una gamba ingessata. Sulle reti sociali, la destra ha diffuso la notizia secondo la quale sarebbe stato sequestrato dai paramilitari di frontiera, che avrebbero così lanciato un avvertimento a Maduro.
Gli chiediamo cosa ci fosse di vero.
Bernal sorride: “E tu credi che se mi avessero catturato mi avrebbero poi lasciato andare? Se mi prendono, so cosa mi aspetta. Io mi muovo armato, e loro vengono con me – dice indicando il gruppo di compagni armati che gli fa da scorta, seguendolo dappertutto – Io non li abbandonerei, né loro abbandonerebbero me. Se volessero prendermi, dovrebbero fare un massacro, perché andremo fino in fondo. Anche se non mi piace la guerra e non sono un violento, sono un uomo di profonde convinzioni e che è abituato a mantenere la parola. Il presidente Maduro mi ha chiesto di trasformare il Tachira in una frontiera di pace, e così sto facendo. In due anni, abbiamo ripreso il controllo del territorio, e questo la destra non lo può sopportare, perciò diffonde menzogne servendosi dei media internazionali e delle reti sociali”.
Un uomo di profonde convinzioni, Bernal. Da dove provengono queste convinzioni? Le biografie dicono che, durante la IV Repubblica, non era dalla parte dei contestatori, ma dei repressori.
“Vengo da una famiglia di umili origini – racconta – Sono nato a San Cristobal del Tachira, alla frontiera con la Colombia. Da giovane non ho mai fatto parte di un partito. Sono entrato all’accademia militare nel 1980. Benché non mi considerassi di sinistra, sospettavano appartenessi a una cellula clandestina di Bandera Roja, ma non era vero, non sapevo chi fossero. Perché lo pensavano? Perché, quando avevo dovuto fare una tesina, avevo scelto come argomento il ruolo positivo di Cuba in America Latina e nei Caraibi, e in un’altra occasione, avevo parlato dell’invasione di Grenada da parte degli Stati Uniti. Così sono stato considerato sovversivo e non mi hanno permesso di andare avanti”.
Il giovane Bernal si iscrive allora all’accademia di polizia. “Lì – ricorda – era proibito parlare della sinistra e, ovviamente, di rivoluzione. Io, però, istintivamente, mi leggevo il Libro verde di Gheddafi, i libri del Che o La storia mi assolverà, di Fidel Castro. Così, anche lì venni guardato con sospetto e stavano per espellermi a un mese dalla fine, nonostante fossi il miglior allievo del corso. Vivevo dunque in una drammatica dicotomia: da una parte mi stavo formando ai più alti livelli per difendere la democrazia rappresentativa con la mia stessa vita, dall’altra stavo prendendo coscienza del mio essere ribelle”.
Lo assegnano comunque all’unità speciale, quella più repressiva, con il compito di contrastare le manifestazioni pubbliche e le attività considerate sovversive. “Allora – spiega Bernal – il sistema di potere nato dal Patto di Punto Fijo si stava frantumando, il paese era in subbuglio, dagli studenti, agli operai, ai contadini, tutti manifestavano e, pur non avendo funzioni di comando, il mio compito era quello di reprimere chi manifestava. Poi mi mandano al comando speciale tattico, lo Zeta. Un reparto addetto a combattere la sovversione urbana, come i Tupamaros del 23 Enero e quella nei barrios di Caracas. Ho partecipato a operazioni speciali, con tiratori scelti, francotiratori… una situazione davvero complicata, per me”.
Accade allora che il presidente Carlos Andrés Pérez lo mandi in missione in Nicaragua: nel campo, però, di Violeta Barrios de Chamorro, che già stava ricevendo soldi dalla CIA per l’opposizione alla rivoluzione sandinista. “Ma lì – racconta Freddy – ho avuto modo di apprezzare il coraggio del popolo sandinista contro le aggressioni dei gringos, di conoscere l’attività rivoluzionaria del comandante Daniel Ortega, che avrebbe dovuto essere l’avversario da combattere e che invece da allora è mio grande amico. Mi sono innamorato della rivoluzione sandinista e ho definitivamente compreso da quale parte dovessi stare”.
Tornato in Venezuela, Bernal decide di formare un movimento clandestino nella polizia. “Si chiamava – spiega – Movimento Bolivariano per la Dignità della polizia. Ci riunivamo clandestinamente e denunciavamo con volantini la corruzione e le violazioni ai diritti umani. Quando scoppia la ribellione civico-militare del 4 Febbraio 1992, mi trovavo al comando generale di polizia, insieme a dei generali. Rimasi lì, per guadagnarmi la loro fiducia. Dopo, ho cercato i contatti con i ribelli. A maggio, ho scritto una lettera a Chavez. Lui mi ha risposto dal carcere di Yare ad agosto, facendomi entrare nell’Esercito Bolivariano Rivoluzionario. Ho portato con me 600 ufficiali e 4.600 uomini, che avevo reclutato durante i miei dieci anni in polizia. Il 27 novembre, il secondo momento della ribellione, ho fatto la mia parte. Allora, ero nello Stato maggiore di polizia. Avevo capito che mi stavano usando per reprimere il popolo da cui provenivo e dovevo dire basta”.
Da allora, Freddy si mette a disposizione del comandante Chavez. “Io – dice – non sapevo niente di politica, ma lui mi convinse a lavorare nei circoli bolivariani, mi chiese di formarli per la presa del potere. Io gli dico: Comandante, sono un uomo delle forze speciali, non sono un politico, non so fare discorsi, come faccio? Lui risponde: Non preoccuparti, Freddy, non fare niente, lascia che il tuo cuore parli e dica sempre la verità, vedrai che il popolo capirà. E così ho fatto, anche se la prima volta, davanti a una sessantina di persone nello stato Vargas, sudavo copiosamente. Poi, ho cominciato a parlare, seguendo il consiglio di Chavez, e da allora è sempre stato così: con i Circoli bolivariani, i Battaglioni socialisti, la Scuola socialista, i Comitati di salute, i Comitati di Terra urbana, le Unità di difesa popolare, e ora i Clap. E sempre sarà così, con l’orgoglio di servire fino all’ultimo questa rivoluzione”.
Freddy dimostra la propria lealtà anche durante il colpo di stato contro Chavez, l’11 aprile del 2002. Così ricorda quei giorni: “Ero sindaco di Caracas. Gli anni precedenti erano stati molto difficili. Ogni mese, ogni settimana, eravamo più sicuri che ci sarebbe stato un tentativo di golpe. Stavamo preparando la difesa popolare della città. Quando rovesciano il presidente, grazie alla mia conoscenza della città, riesco a raggiungerlo a casa, erano le 24,30. Chavez cerca di convincermi a rimanere con lui, da prigioniero, ma io rispondo che, a differenza di lui, che era il nostro simbolo, io ho il compito di andare a combattere con il popolo. Allora mi abbraccia, ci salutiamo e io sguscio via a fare il mio dovere. Per 48 ore, insieme a Diosdado Cabello e Aristobulo Isturiz sono stato fra gli uomini più ricercati, vivi o morti, dall’esercito e dalla polizia”.
Una lealtà che il proceso bolivariano gli ha sempre riconosciuto. Ma le “decorazioni” di cui Freddy va più orgoglioso sono le otto liste di “sanzioni” in cui è stato incluso, e ci tiene a elencarle: “provengono dal governo USA, da quello canadese, dall’Unione Europea, dal governo svizzero, da quello panamense, dal governo colombiano… Otto decorazioni – dice – per la mia lealtà. Mi sanzionano per essere leale al popolo, perché non mi arrenderò né lo tradirò mai. Mi preoccuperei se i gringos parlassero bene di me o se mi invitassero a mangiare a palazzo di Narino in Colombia, o se lo facesse qualche fascista dell’Unione Europea. Questa rivoluzione è per la vita, così come per tutta la vita verremo assediati dall’imperialismo, e dobbiamo attrezzarci: per essere autonomi, indipendenti, sia dal punto di vista produttivo, che militare, per costruire il paese-potenza che Chavez voleva”.
Un impegno a cui Freddy Bernal, membro della direzione nazionale del PSUV, si dedica anche come segretario generale dei CLAP, i Comitati di rifornimento e autoproduzione che assistono 6,5 milioni di famiglie e che “ogni mese garantiscono che abbiano alimenti sussidiati per resistere al blocco economico-finanziario. Le misure coercitive unilaterali – afferma Bernal – hanno colpito tutti i settori. Prima gli additivi per la benzina venivano forniti dalla Cgto, la raffineria che c’è stata sottratta da Trump e dall’autoproclamato Guaidó. Ora arriva dall’India e, con il blocco delle navi, questo ritarda la distribuzione nel paese, lo stesso avviene per il gas, gli alimenti, le medicine. Questo, però, ci è servito ad aumentare i livelli di organizzazione a fare di più con poco, a risparmiare e a dare valore a quello che prima sprecavamo o che non vedevamo”.
Tutti gli strumenti del potere popolare – dice Freddy – oggi hanno un solo obiettivo: “produrre, produrre e produrre. La milizia deve produrre, i CLAP devono produrre, il PSUV deve produrre. Se ci sono 60.000 unità della milizia, ci devono essere altrettante unità produttive. Se ci sono 32.000 CLAP ci devono essere altrettante unità produttive. Per questo, il partito ha a disposizione un milione di ettari per la produzione, e un altro milione è a disposizione della milizia. La rivoluzione deve combinare difesa della patria e difesa della qualità di vita dei cittadini”.
A un anno dalla “battaglia dei 4 ponti”, la rivoluzione deve però affrontare un nuovo attacco dell’estrema destra che risponde agli ordini degli USA. Bernal ricorda l’impegno eroico di quel 23 febbraio 2019, quando il popolo venezuelano ha impedito l’entrata delle forze straniere dai suoi confini combattendo sui 4 ponti di confine.
“Io – dice – ho avuto l’onore di essere il capo politico di quelle operazioni, in compagnia del generale Manuel Bernal, che non è mio parente, e che aveva il comando militare. I veri eroi non siamo stati, però, noi Bernal, ma donne e uomini armati di pietre e di coscienza che, per 15 ore, hanno sostenuto uno scontro con paramilitari e criminali formando una formidabile barriera umana contro l’invasione e scontando un saldo di 333 feriti. Un popolo disposto a morire per difendere il socialismo, la sovranità e la pace”.
E cos’è il socialismo per Freddy Bernal? “E’ il sogno di vivere da uguali anche se siamo nati diversi, un progetto di ridistribuzione delle risorse in cui lo stato deve garantire i diritti elementari come l’alimentazione, la salute, l’educazione. Significa vivere in armonia con gli altri esseri umani e con la natura. Un sogno che riesce a cambiare profondamente la vita delle persone, com’è successo a me”.