di Geraldina Colotti
È nella natura del capitalismo cercare di risolvere la sua crisi strutturale con le guerre imperialiste: per impadronirsi di territori e risorse, ma anche per far recuperare consensi a governanti screditati, chiamando all’“unità nazionale” contro un nemico particolarmente demonizzato. Più quel nemico verrà reso odioso, più incarnerà tutti i mali del secolo, più auspicabile sarà la sua uccisione, più si accetterà qualunque mezzo impiegato per ottenerla.
La propaganda, organizzata dalle grandi concentrazioni monopolistiche che reggono l’informazione a livello globale, prepara il terreno. Innanzitutto, si sceglie una grande paura che il “nemico” dovrà incarnare. In tempi recenti, si è usata quella delle “armi di distruzioni di massa”: per attaccare l’Iraq, per “sanzionare” l’Iran, per uccidere Gheddafi, per attaccare la Siria, e oggi per accusare la Cina di aver costruito in laboratorio il coronavirus.
Intanto, il complesso militare-industriale a guida USA continua gli esperimenti biologici, infischiandosene degli accordi internazionali. L’impiego di armi chimiche nelle guerre “asimmetriche” non è certo una eccezione. Le denunce di chi difende i “cattivi” passano però sempre in secondo piano, e vengono considerate inconsistenti. Lo si è visto con la Siria, lo si vede con il genocidio dei palestinesi.
Gli apparati ideologici di controllo (per dirla con il filosofo Althusser) si incaricano di deviare le domande dai fatti reali e dai responsabili veri, allestendo un “teatro delle emozioni” in cui far convergere sul bersaglio tutte le paure. Il teatro delle lacrime unisce così vittime e carnefici, consentendo al meccanismo di perpetuare l’esclusione sociale. In questo scenario si inserisce anche la corsa alle “donazioni”, che vieta di chiedere i conti a chi ha fatto e continua a fare profitti stellari con lo sfruttamento del lavoro.
Ecco allora che: di fronte a una tragedia planetaria che mette a nudo i meccanismi dello sfruttamento capitalista e le sue conseguenze per i settori popolari; di fronte al cinismo di quei governanti che, come Trump, considerano i morti come “vittime collaterali”; di fronte al fallimento della globalizzazione capitalista e della sua falsa “integrazione” europea, ecco risorgere il mai sopito “pericolo rosso”, incarnato oggi nella persona del presidente venezuelano Nicolas Maduro.
Il nuovo piano del Pentagono si è articolato in due mosse. La prima, che si stava preparando da tempo, è stata quella di dichiarare quello venezuelano uno stato “narcotrafficante e terrorista”. Il cowboy della Casa Bianca si è spinto fino a mettere una taglia di 15 milioni di dollari sulla testa di Maduro. Terrorismo e narcotraffico sono stati gli interdetti più potenti usati, soprattutto dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2011, per colpire gli stati considerati “canaglia” e per finanziare con milioni di dollari la repressione del conflitto sociale con il pretesto della lotta alla droga e al “terrorismo”.
Una strategia che è servita a mettere al di sopra di tutte le leggi il principale stato finanziatore del narcotraffico e del terrorismo, quello nordamericano, e per mettere al riparo altri governi criminali che lo sostengono, come Israele e la Colombia. I dati mostrati dal presidente Maduro e dal presidente dell’Assemblea Nazionale Costituente, Diosdado Cabello, hanno ricordato quale sia la reale rotta del narcotraffico, che non passa per il Venezuela.
Persino l’ultimo rapporto dell’agenzia antidroga nordamericana, la DEA, (2019) ha indicato il Messico, il Guatemala e l’Ecuador come i punti di transito della droga verso gli Stati Uniti, il principale consumatore mondiale di stupefacenti, che si rifornisce dal principale produttore mondiale, la Colombia. Vale, inoltre, ricordare, come e chi e perché abbia creato i grandi cartelli del narcotraffico, unificando le bande che fino ad allora agivano in modo “artigianale” nei paesi come il Messico, dove la povertà spingeva e spinge molte famiglie contadine a volgersi verso il narcotraffico per sopravvivere.
Dalla guerra contro l’Unione Sovietica in Afghanistan nel secolo scorso, a quella contro il sandinismo, alle operazioni di destabilizzazione attuali, la CIA si è servita del narcotraffico a fini tutt’altro che umanitari, e la DEA ha fatto da paravento. Basta leggere i rapporti del governo bolivariano in merito ai sequestri di droga, effettuati dopo la cacciata della DEA dal paese.
Tuttavia, Trump e il suo segretario alla Difesa, Mark Esper, arrivano a dichiarare che non permetteranno ai cartelli della droga di approfittare della pandemia “per minacciare la vita dei cittadini statunitensi”. Con questo pretesto, hanno annunciato l’invio di una flotta di fronte alle coste venezuelane e messicane.
Un argomento che può consentire diverse forme di aggressione militare al paese bolivariano: dagli “omicidi mirati” dei dirigenti chavisti indicati a bersaglio, all’invasione del territorio attraverso paramilitari, al blocco navale. In questi giorni, sta circolando un inquietante video che mostra l’atterraggio di militari USA da un elicottero ai confini tra Colombia e Venezuela.
Che la Colombia del burattino Duke sia un attore attivo nella destabilizzazione del Venezuela non è un segreto. Che sul suo territorio, dove ogni giorno vengono impunemente assassinati militanti di opposizione, si allenino forze d’invasione, lo ha confermato anche recentemente la confessione di un ex ufficiale venezuelano, Cliver Alcalà, che ha coinvolto direttamente l’autoproclamato “presidente a interim”, Juan Guaidó.
Un cavallo che, evidentemente, la Casa Bianca considera ormai perdente. Il “governo di transizione” che il Segretario di Stato statunitense Mike Pompeo vuole imporre al Venezuela in cambio della fine delle sanzioni, prevede infatti “l’esclusione sia di Maduro che di Guaidó”. Quest’ultimo, tanto criminale quanto inconsistente, ha chiesto la convocazione del Consiglio di Stato, un organismo di emergenza, previsto dalla Costituzione bolivariana. Nicolas Maduro non ha certo avuto bisogno dei suoi suggerimenti per attivarlo. Insieme alla vicepresidente Delcy Rodriguez, ha così dato conto al paese di un nuovo appello all’unità nazionale alle forze di opposizione che abbiano a cuore il bene comune e non il proprio portafoglio.
A questo riguardo, in un paese come il Venezuela che ospita una grande diversità di religioni, è significativo il fatto che i rappresentanti di tutte le chiese si siano uniti nell’appello a rispettare le norme preventive contro il Covid-19. Al contrario, sia negli USA che nel Brasile di Bolsonaro, l’atteggiamento irresponsabile dei governanti sta consentendo a molte sette religiose di invitare la gente a unirsi (e quindi a infettarsi e a infettare) e non a rimanere a casa.
E di nuovo è emersa la statura morale del presidente bolivariano contro il cowboy della Casa Bianca e i suoi lacchè come Duque, che ha persino rifiutato due macchine per riscontrare il virus che il governo socialista vuole inviare in Colombia. Trump ha anche negato al governo Bolivariano la possibilità che alla compagnia aerea Conviasa vengano sospese le “sanzioni” per poter riportare in patria dagli USA le centinaia di cittadini venezuelani che vogliono rientrare.
Perché, anziché occuparsi del Covid-19, Trump si “occupa” del Venezuela? Evidentemente per spostare l’attenzione dalla crisi sanitaria e dal fallimento della sua gestione in questo anno di elezioni presidenziali. Una giornata di ricovero in ospedale, negli Stati Uniti, costa circa 3.500 dollari. I cadaveri si accumulano nei sacchi di plastica, le persone in povertà estrema sono quasi 19 milioni, quelle in povertà relativa oltre 40 milioni, su una popolazione di circa 333 milioni.
Che la piccola Venezuela, nonostante gli attacchi di ogni tipo a cui è stata sottoposta, sia finora riuscita a contenere la diffusione del virus, come ha riconosciuto anche la Organizzazione Mondiale della Salute, è evidentemente un affronto in più. Che, come hanno dichiarato i medici cubani che si sono recati in Europa, non si offra quello che avanza, ma si condivida ciò che si ha, è un messaggio che potrebbe essere colto da tutti i popoli sacrificati sull’altare del profitto in questa pandemia.
Anche la “civilissima Europa”, così solerte nella difesa dei “diritti umani” (quelli delle classi dominanti), si genuflette al cacciatore di taglie della Casa Bianca. Il ministro degli Esteri venezuelano, Jorge Arreaza, ha efficacemente denunciato come la crisi del coronavirus abbia evidenziato una volta di più la disintegrazione dell’Unione Europea, costruita a misura delle banche e dei potentati economici e non sulla solidarietà reciproca, com’è per i paesi dell’Alba.
Una Unione Europea a cui la Nato ha chiesto di aumentare i finanziamenti alla difesa. Soldi che verranno ovviamente tolti alle classi popolari, visto che i cento miliardi di prestito che la UE ha promesso di erogare ai paesi particolarmente colpiti come l’Italia e la Spagna, verranno condizionati dai soliti “piani di aggiustamento strutturale”.
Il livello medo dei salari esistenti in Italia, inferiore del 30% a quelli della Germania, indica di che natura sia l’”integrazione” dell’Unione Europea. Chi ha un salario minimo, in Italia, ha un reddito annuo di circa 15.000 euro. I manager di industrie o banche, arrivano a sei milioni annui. Su una popolazione di 60,5 milioni di persone, oltre 5 milioni vivono in povertà estrema e quasi 10 milioni di povertà relativa.
Tra questi, vi è la metà dei bassi salari, anche di quella piccola borghesia che non riesce a arrivare alla fine del mese. In Italia, non si distribuiscono computer gratis (le canaimitas) agli alunni e agli studenti, né tantomeno programmi informatici gratuiti agli insegnanti. Non c’è uno “stato docente” come in Venezuela.
Per questo, oltre il 50% dei minori delle classi popolari non può assistere alle lezioni da casa, perché il divario digitale è altissimo rispetto all’Europa. Nel 2019, in Italia, circa mezzo milione di persone non ha potuto acquistare i farmaci di cui aveva bisogno, e gran parte delle famiglie povere, per via della privatizzazione del sistema sanitario, fa fatica a curarsi.
Quanto ai cartelli della droga, alcuni dati servono a ricordare come le “economie sporche” siano l’altra faccia dello sfruttamento capitalista e finiscano nelle medesime tasche: quelle delle 60 famiglie che possiedono la ricchezza del pianeta. Insieme a Stati Uniti e Canada, i paesi europei sono tra i principali consumatori di droga. Secondo il XXI rapporto dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze, il mercato della droga ha attualmente un valore di 24 miliardi di euro, e non favorisce certo il Venezuela.
Il riciclaggio dei soldi sporchi è pari al 7% del PIL mondiale. Per l’Italia, rappresenta un giro d’affari di 100 miliardi. Quando un paese cerca di tassare le grandi fortune, gli evasori portano i soldi in paesi compiacenti, nei paradisi fiscali custoditi anche nelle banche degli Stati Uniti.
Anche nei paesi europei, Italia in primis, la “lotta al narcotraffico” come quella “al terrorismo” ha rappresentato e rappresenta un grosso affare per l’industria della guerra e della sicurezza privata, e un forte elemento di controllo sociale. Il fatto che il Venezuela, insieme a Cuba e all’arco di quelli che sono stati i governi progressisti dell’Alba come Bolivia e Ecuador, abbia posto tra i suoi obiettivi internazionali la lotta ai paradisi fiscali è stato un altro grosso motivo per distruggere l’integrazione latinoamericana.
I veri cartelli del narcotraffico si annidano nelle banche mondiali. Per questo, il racconto sul narcotraffico del Venezuela è altrettanto grottesco di quello immaginato dai grandi media circa lo scontro tra la piccola unità guardacoste della Marina Militare bolivariana e un mastodonte come la nave da crociera Rgs Resolute, battente bandiera portoghese. Nella ridicola versione delle destre, l’unità guardacoste avrebbe cercato di affondare la nave…
Contro quest’ennesima sopraffazione targata USA, movimenti popolari e governi progressisti come quello di Messico e Argentina, si stanno facendo sentire.
Il nuovo piano di Mike Pompeo, ha detto il ministro degli Esteri cubano, Bruno Rodriguez, “conferma le pretese neocoloniali degli Stati Uniti in linea con la Dottrina Monroe, e costituisce una minaccia per la pace e la sicurezza del nostro emisfero”.
Durante la guerra in Vietnam, gli Usa hanno impiegato armi chimiche e provocato milioni di morti, ma sono stati umiliati e sconfitti dalla resistenza del popolo vietnamita. Ora, i morti sacrificati dal coronavirus sull’altare del capitale, potrebbero produrre una sconfitta analoga: unendosi alla “furia bolivariana”, che – ha detto Maduro – si scatenerebbe se il cowboy del Pentagono aggredisse il Venezuela.