Ecuador, coronavirus e barbarie

Il Governo di Lenin Moreno volta le spalle al popolo con i cadaveri accantonati nelle strade di Guayaquil

 

Francesco Maniglio, Università Tecnica di Manabí, Ecuador

Rosimeire Barboza da Silva, Università di Coimbra, Portogallo

Quito,  Aprile 2020

L’odore acre della morte è nelle case, nei quartieri, nelle strade, soffocando Guayaquil. La “perla del pacifico”, per i commerci internazionali e gli scambi portuari, è la città dell’oligarchia politico-bancaria, la più popolosa e soprattutto la più disuguale del paese, con interi quartieri senza acqua potabile e servizi igienici minimi.

Non è per nulla strano quindi quello che succede oggi, anzi possiamo affermare che questa è la regola. Cruda, soffocante, indignante che sia, l’immagine dei cadaveri abbandonati, ammassati o bruciati, come nei terribili racconti medievali sulla peste, non rappresenta solo l’eccezionalità o l’emergenza della pandemia Covid-19, ma la dura regola della disuguaglianza e del razzismo, delle tragedie concrete che attraversano e strutturano il potere politico ed economico dell’Ecuador fin dai tempi coloniali. Nella citta moderna, modello del successo tutto “cemento e speculazione” portato avanti per quasi tre decenni dalla destra “Cristiana Sociale” e dai conglomerati mediatici e finanziari, non si riesce neppure a stabilire il numero dei morti. Le uniche cifre che possono farci capire l’entità della tragedia sono quelle del Registro Civile Provinciale di Guayas, dove in soli due giorni – dal 30 al 31 marzo- ne sono stati registrati 722, un numero addirittura superiore al totale del mese di marzo del 2019, con un aumento del 103%. Ed in questa settimana la curva continua a crescere.

La zona zero, il quartiere dei bianchi criolli e dell’oligarchia, Samborodom. Circa venti giorni fa, una festa di matrimonio, con centinaia di invitati. Contagiati “illustri”, tra cui sette sindaci, parlamentari, rappresentanti della politica regionale e dell’alta finanza. Ma le élite di Samborodom, ancora oggi si specchiano nei social network, continuando a giocare a golf, come se il virus non gli appartenesse. Abituati a vivere in una bolla, lontani dalla realtà del paese, sostenuti dalle palesi differenze di classe e di razza. Dal giorno del famoso matrimonio, a Samborodom i servizi di salute sono efficientissimi, realizzano il test Covid-19 porta a porta e le strade vengono disinfettate continuamente. Il virus, però, ha varcato velocemente il muro dei lussuosi condomini privati, stravolgendo la citta, concentrando in pochissimo tempo quasi tutti i casi che si registrano a livello nazionale. Gli ospedali pubblici sono abbandonati al loro tragico destino, senza medicinali e dispositivi minimi per la sicurezza del personale sanitario, con i cadaveri che riempiono le sale di attesa, oramai ridotte a camere mortuarie.

In un recente report durante gli inizi dell’epidemia, Amnesty International metteva in guardia riguardo la censura, la discriminazione del diritto alla salute e gli arresti arbitrari che si sarebbero potuti verificare in diverse nazioni durante la lotta al virus. L’Ecuador è senza ombra di dubbio una fra queste nazioni, con il governo di Moreno che sembra entrato in uno stato di mitomania acuta. Cerca in tutti i modi di nascondere le proprie responsabilità, occultando i dati del genocidio in corso, adottando protocolli sanitari che non prevedono il test del tampone per la maggior parte di queste morti, che in questo modo non vengono contabilizzate nelle statistiche ufficiali. In un primo momento, mentre si comunicava ufficialmente che il numero di defunti per Covid-19 a Guayaquil erano “solo” 42, la ministra degli interni Maria Paula Romo proponeva nientemeno che varo delle fosse comuni, un modo sbrigativo di sbarazzarsi dei corpi, ricordo delle dittature militari degli anni settanta. Non male come inizio per una ministra che solo tre mesi prima era segnalata dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani come principale responsabile degli omicidi e delle gravi violazioni dei diritti umani durante le proteste dell’ottobre scorso.

Nel frattempo il presidente Moreno che come da abitudine nei momenti difficili scappa via, si è rifugiato addirittura nelle isole Galapagos da dove, sei giorni fa, a causa della pressione e della commozione popolare, si è rivolto alla nazione promettendo sepoltura degna, ammettendo frettolosamente la non attendibilità dei dati ufficiali, ed invitando -in modo a dir poco tragicomico- il suo stesso governo ad essere “più trasparente”. Naturalmente Moreno mentiva, prima di tutto sulla sepoltura degna: si è passati rapidamente dalla strategia delle fosse comuni al modello delle bare di cartone. Proprio così, bare di cartone!

E come se non bastasse, continua a mentire sui dati. Ancora oggi, infatti, mentre il numero di 191 decessi fornito dal governo continua ad essere inverosimile, il Difensore del Popolo e le associazioni dei diritti umani raccolgono centinaia di denunce di medici, infermieri e familiari delle vittime, che testimoniano le pressioni del governo nell’insabbiare il genocidio e censurare le informazioni sulle condizioni disastrose in cui verte il sistema di salute nazionale.

Cesar Paz-y-Miño, medico e Direttore del Centro di Ricerca in Genetica e Genomica dell’Università Tecnologica Equinoziale di Quito, è molto chiaro a riguardo. Prima di tutto si scaglia contro il sistema statistico del ministero della salute, assolutamente inadeguato, con un numero irrisorio di test effettuati che non riescono a rendere la situazione minimamente apprezzabile da un punto di vista scientifico. Denuncia le gravi carenze del sistema, che al giorno d’oggi è sprovvisto di reagenti chimici per sviluppare i test e di medicinali adeguati ai protocolli di cura pertinenti, in linea con le raccomandazioni della OMS. D’altronde, afferma Paz-y-Miño, il sistema di salute e di ricerca che era stato potenziato dal governo socialista di Rafael Correa, negli ultimi tre anni “è stato letteralmente asfissiato” per favorire gli interessi dei centri di salute privati. Non stupisce quindi che si conti con solo 200 posti di terapia intensiva a livello nazionale. Gli investimenti pubblici sono stati praticamente congelati, la spesa ridotta del 36 per cento, con licenziamenti di massa per medici e personale sanitario. La ricerca nel campo medico è stata azzerata ed è per questo che non ci sono neppure le risorse umane per stabilire un piano di monitoraggio nazionale. Si consuma in questo modo “una discriminazione razziale e classista del diritto alla salute, quando le élite si rifugiano negli ospedali privati, con servizi efficienti e abbondanza di medicinali, mentre il popolo è costretto in un sistema pubblico che non ha le risorse per fare assolutamente nulla, neppure per proteggere la salute del personale sanitario stesso”. E non solo, conclude Paz-y-Miño che denuncia un amento di casi di “malattie infettive gravi, come il dengue, la malaria e la chikungunya che, non essendo più monitorate da un sistema oramai collassato, stanno mietendo un numero crescente di vittime”.

Intanto il decreto presidenziale per imporre il distanziamento sociale, entrato in vigore il 12 marzo, sembra non reggere più. Se la quarantena e l’isolamento sono la prima misura precauzionale, allora dovremmo pur domandarci sulle condizioni delle famiglie numerose, vulnerabili, che vivono in pochi metri quadrati in forma precaria. Dobbiamo considerare che oltre il 60 per cento della popolazione economicamente attiva dell’Ecuador – circa 5 milioni di persone – è disoccupata o sottoimpiegata, mentre la vulnerabilità sociale e la povertà hanno ripreso a crescere per la prima volta negli ultimi 10 anni.

A questa situazione disastrosa, il governo ci ha aggiunto un carico da novanta, approvando nuove misure di austerità e facendo fronte al pagamento di 324 milioni di dollari al Fondo Monetario Internazionale, capitali che potevano essere utilizzati per combattere l’emergenza sanitaria e sociale. Riassumendo, gli interessi dei creditori sulle vite dei cittadini.

In questo modo, mentre Moreno continua il processo di negazione della realtà ed i possessori del debito ecuadoriano si arricchiscono, a Guayaquil l’orrore è nelle strade, nelle case, negli occhi di un popolo a cui non rimangono neppure lacrime da versare, ferito ancora una vota dall’infamia delle élite al potere. Come Joaquín Gallegos Lara che nella novella Le croci sull’acqua denunciò il massacro dei lavoratori di Guayaquil durante lo sciopero del 15 novembre 1922 perpetrato dall’esercito ecuadoriano, anche noi oggi abbiamo l’obbligo di denunciare le barbarie che le élite in Ecuador continuano ad infliggere al proprio popolo. Perché il crimine è abituarsi all’orrore.

 

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