L’essere umano, o l’uomo come si diceva prima è un essere sociale, gregario per natura e dato al dialogo e alla conversazione; sia per filosofare nei parchi, nei caffè o nelle cantine o per, semplicemente, sentire il gusto del sapore delle parole.
Siamo così ed è già tardi per essere in un’altra maniera.
In questo pianeta globalizzato dalle tecnologie della comunicazione nessuno abbraccia la sindrome di Robinson Crusoe, neanche per sogno.
Ci piace la strada, molto, moltissimo, soprattutto se accade qualcosa di non abituale. Nel mezzo della strada conversiamo sfidando le automobili, i bici taxi e anche i camion. E se una frenata stridente ci perfora l’udito, ci avviciniamo all’angolo per vedere se è stata solo una frenata o un incidente di maggiori conseguenze.
Se cade un fulmine nell’isolato e distrugge un albero, ci alziamo dal tavolino del domino per poi dire che gli alberi dell’isolato sono stati distrutti da una saetta che quasi ci fulmina.
A volte anche preferiamo la strada ai marciapiedi, soprattutto in luoghi affollati come Centro Habana, Santa Clara o Santiago di Cuba; dove i marciapiedi non sono piste piatte sulle quali si può pattinare come su una lamina compatta di cemento.
Siamo curiosi con la sana curiosità che si dev’essere informati, perché nessuno ti prenda in giro. Ma sappiamo anche essere educati e discreti e non riveliamo quello che può danneggiare i nostri simili. Ma sì ci piace sapere e raccontare quello che sappiamo, con un grazioso pizzico d’esagerazione: il sale che fissa il sapore di quello che raccontiamo.
Io non so se il cubano, e in questo certamente includo anche la cubana, è più socievole di altri popoli del continente.
Ma se non lo è, lo dissimula molto bene con un grande disinvoltura.
Siamo così e questo lo vide come nessun altro Fernando Ortiz, quando con il suo sguardi profondo definì il nostro modo d’essere come “un ajiaco” , un minestrone; questa minestra in cui gli ingredienti spagnoli, africani e asiatici, tra gli altri, cuociono borbottando per offrire ad ogni generazione un piatto rinnovato e succulento: i fattori umani della cubanità che non sono altra cosa che un’approssimazione. Quello che chiamiamo identità, uno specchio concavo e polisemico di fronte al quale abbiamo il dovere di guardarci ogni giorno.
Al meno, e di questo sono convinto, non siamo flemmatici, grazie a Dio, siamo creoli da far paura. Ed anche ora stiamo mostrando al mondo quanto diversa e profonda è la nostra condizione di esseri sociali, capaci di rompere schemi e risalire le alte cime del sacrificio e del dovere.
Ancora una volta questo popolo cresce con una mutazione progressiva del suo carattere. Quelli che hanno perso nella lotta per la resistenza sono scomparsi. Ma noi non apparteniamo a questa specie, lo abbiamo dimostrato nella Sierra Maestra, a Girón, nella Crisi d’Ottobre, nel periodo speciale e ora, oggi, di fronte a una pandemia feroce che non ci può intimorire.
Dalle stirpi nascono altre stirpi che ottengono una maggior perfezione grazie al cambio della natura e noi siamo eredi d’una stirpe che che ci ha insegnato a perdere la paura e a comportarci con la serenità di un mambì, quando la terra che calpestiamo ci fa muovere.
Sì, in questi giorni ci mancano gli esseri più cari, familiari di sangue o d’adozione e gli amici vicini e anche coloro che sono lontani e vediamo solo con WhatsApp.
Ci parliamo per telefono e non tralasciamo gli abbracci virtuali. Abbiamo scoperto che cresciamo ogni giorno e che la condizione dello spirito non è statica, ma espansiva e calda.
Rapidamente siamo anche altri, più riflessivi, più disciplinati e più abituati a condividere la solitudine con la nostra ombra sulla parete.
Stiamo riscattando il tempo perduto, non quello di Marcel Proust, ma il nostro quello che la vita quotidiana ci ha rubato, la vita dell’ufficio o le notti d’avventure più care.
Stiamo leggendo e rileggendo, udendo la musica che avevamo dimenticato, quella che ha significato tanto nella nostra gioventù.
Riscattiamo anche dalla memoria i films antologici che ci diedero brio e maturità.
E le canzoni. Ah! Le canzoni con le quali abbiamo amato nelle ore dell’amore e delle fortuna, le sole che vale la pena conservare. Stiamo lottando contro la più smussata della nostra materia prima, per alimentare la spiritualità a cui ci ha convocato nella sua poesia José Martí. Con molte mani stiamo spingendo un paese, quello che vogliamo e al quale ci hanno vincolato Carlos Manuel de Céspedes, José Martí e Fidel.