Alessandra Riccio – https://nostramerica.wordpress.com
José Martí (La Habana 1853 – Dos Ríos 1895) è una delle figura più rilevanti della storia e della cultura antillane e latinoamericane; poeta, giornalista, saggista, ha fondato il Partito Rivoluzionario di Cuba, ha organizzato e partecipato all’insurrezione contro la Spagna ed è morto in combattimento per l’indipendenza e la libertà dell’ultima colonia spagnola.
Era figlio di un poliziotto spagnolo e di Leonor Pérez, creola di prima generazione; una famiglia piuttosto povera che aveva cercato nell’emigrazione da una Spagna ormai sul lastrico il modo per stabilizzare la propria situazione economica. Colui che sarà l’organizzatore e il realizzatore della guerra di indipendenza (la terza, a partire dal 1868) e che per essa darà la vita, in realtà visse a Cuba per meno di quindici anni interrotti da un breve soggiorno in Spagna quando aveva quattro anni. Ad appena diciassette anni, a causa delle sue attività antispagnole, venne condannato prima ai lavori forzati e poi ad un esilio che, salvo brevissime e scarse parentesi, durò fino al suo sbarco in clandestinità sulle coste orientali dell’isola, nel 1895, per partecipare alle operazioni di guerra venendo, come si è detto, assai presto falciato da un colpo della fucileria nemica. Martí, dunque, figlio di spagnoli, era cubano per nascita eppure, visto che una “nazione Cuba” non era certo esistita prima della colonia (penso al caso della pressocché coetanea guerra di indipendenza della Grecia con alle spalle millenni di un passato attraverso il quale l’idea di “Grecia” si era profondamente radicata anche nell’immaginario delle altre culture europee), bisogna chiedersi se, nel caso di Martí, sia ancora lecito parlare di nazionalismo come fino ad ora si è fatto, o se piuttosto non sia il caso di cominciare a riconoscere in questo nazionalismo i germi di un discorso continentale, di un discorso anticolonialista e anticapitalista, di quello stesso veemente discorso che cinquanta anni dopo avrebbe fatto un altro antillano indimenticabile, Frantz Fanon[1] . In tal caso sarebbe possibile ritessere la trama del dibattito latinoamericano del novecento senza più attardarsi sulla pretestuosa dicotomia “civiltà o barbarie”[2] e sulla insistenza di un concetto di nazionalità ricalcato dal modello europeo ma in realtà fondato sul vuoto -non essendo le strutture socio-politico-culturali esistenti prima di Colombo, paragonabili al nostro concetto di nazione-, cercando di liberare il campo da schemi euro-ottocenteschi per lasciare agire concetti che all’epoca suonavano così nuovi e così diversi da risultare scandalosi e impraticabili; per esempio, considerare come nemico un sistema e non un paese[3]. José Martí fu, fra i pensatori e gli intellettuali del suo tempo, colui che con maggiore lucidità, e senza sottovalutare la necessità primaria di liberarsi del giogo coloniale della Corona di Spagna, vide nello spazio continentale la possibilità di una organizzazione di uomini diversa e sovranazionale, fondata sulla composita realtà di un continente che proveniva da inedite esperienze storiche e che era il risultato di nuovi amalgami non riscontrabili altrove.[4] La distruzione radicale delle civiltà preesistenti, l’imposizione di modelli sociali e religiosi estranei al territorio, l’addomesticamento coatto delle popolazioni indigene, la tratta e il commercio di esseri umani provenienti dall’Africa, l’imposizione violenta della supremazia dell’europeo su indios, negri e criollos, al di là di qualunque (e a questo punto inutile) giudizio morale, hanno tessuto una trama di memorie che formano parte della complessità americana
Martí consacra la sua vita e le sue opere all’indipendenza dell’isola e, insieme, alla costruzione di una America Nostra che egli immagina come uno spazio culturale, più che geografico, che accolga il mondo nuovo che sullo scenario continentale americano era ormai visibile e tangibile. Questo mondo era nuovo non per il suo paesaggio, una natura ampia e selvaggia ormai in gran parte domesticata (industrializzazione delle piantagioni, ferrovie, ecc.); non per i modelli sociali che vi furono trapiantati e che erano modelli creati ed elaborati nella vecchia Europa (le idee illuministe, gli ideali della rivoluzione francese, l’utopia repubblicana); e neanche per la mescolanza di razze, una mescolanza che era anche all’origine delle popolazioni dell’Europa; questo mondo era nuovo perché offriva l’opportunità nuova di concepire la società come un organismo costituito da diversità conciliabili piuttosto che da una teorica omogeneità prodotta dal predominio di uno, diverso da tutti gli altri (un esempio per tutti: la società wasp). A questo alludiamo quando parliamo di ibridità americana, cercando di sottolineare la differenza fra una concezione tollerante del diverso e una concezione integrante, agglutinante, del diverso non più inteso come altro da sé.[5]
Proprio in virtù della sua acuta sensibilità anticoloniale, Martí avverte, per primo, il pericolo neoimperialista. Gli Stati Uniti intervengono pesantemente e sfacciatamente sulle questioni continentali protetti dalla teoria, da loro stessi elaborata, che l’America era una faccenda che riguardava solo gli americani (dottrina Monroe); una dottrina affascinante perché rivendicava il diritto del Mondo Nuovo di determinare il proprio destino senza l’intervento dell’Europa imperialista e perché poteva appoggiarsi sulla straordinaria crescita di progresso degli Stati dell’Unione del Nord. Una dottrina ingannevole perché giocava sull’equivoco poiché intendeva :”tutta l’America ai nordamericani” e lo intendeva mentre gli Stati Uniti si dichiaravano ufficialmente paladini ad oltranza del diritto alla libertà dei popoli. Martí capisce il pericolo e lo denuncia, ma capisce anche che contro questa America (che non è nostra) è necessario organizzare una società cosciente e colta, tollerante e multirazziale, una società americana che riconosca e accolga e costruisca su un’eredità storica violenta, diversa, americana. Martí nega con vigore l’esistenza delle razze o, più precisamente, dell’inferiorità delle razze. La sua visione dell’indio e dell’africano è una visione non ideologizzata, profondamente realista e concreta, profondamente giusta: “El alma emana, igual y eterna, de los cuerpos diversos en forma y color.” D’altronde, le sue idee contro il razzismo erano maturate e si erano definite soprattutto a partire dalla sua lunga esperienza nordamericana e dall’attenta osservazione di quella società nella quale visse più anni di quanti ne avesse passati nella natia Cuba. Da quel punto di osservazione -privilegiato per certi versi ma rivelatore, per altri- egli matura un totale e vigoroso rifiuto della discriminazione: “El problema racial preocupó especialmente a Martí (y puede verse su crónica sobre los negros, otras referencia a los indios, así como sus observaciones sobre la relación de alemanes, irlandeses e italianos), dentro del contexto de la violencia social del país; y en estas crónicas no sólo ha dejado un vívido testimonio de la época, sino también la nítida, sensible, veladamente herida o solitaria mirada del hombre del Sur, de un hispanohablante, exiliado entre las virtudes y las miserias del espectacular país.”[6] Alcuni decenni più tardi, due grandi poeti afro-americani, lo statunitense Langstone Hugues (I, too, sing America // I am the darker brother [1926]) e il cubano Nicolás Guillén (Traemos // nuestro rasgo al perfil // definitivo de América [1930]) avrebbero, con rabbia e orgoglio rivendicato il loro contributo al processo identitario continentale.[7]
Nel suo breve e fondamentale saggio del 1891, Nuestra América, Martí anticipa, non in quanto profeta, ma in quanto lettore lucido e razionale della realtà finisecolare americana, le problematiche che hanno attraversato il Novecento e che, a quanto tutto sembra indicare, occuperanno ancora buona parte del secolo presente.
[1] – Manuel Maldonado-Denis ha illustrato in modo convincente le analogie fra questi due scrittori anticolonialisti: “Tanto Martí como Fanon perciben como enemigos no sólo el colonialismo, sino el neocolonialismo[…]”, cfr. Martí y Fanon, México, UNAM, 1978, p. 9.
[2] – E’ lo stesso Martí a denunciare, nel 1883 “el pretexto de que la civilización, que es el nombre vulgar con que corre el estado actual del hombre europeo, tiene derecho natural de apoderarse de la tierra ajena, perteneciente a la barbarie, que es el nombre que los que desean la tierra ajena dan al estado actual de todo hombre que no es de Europa o de la América Europea” e a liquidare la polemica suscitata da Sarmiento nell’articolo Nuestra América del 1891 con queste parole: “no hay batalla entre civilización y barbarie, sino entre la falsa erudición y la naturaleza”.
[3] – Cfr. M. Maldonado-Denís, cit., p. 9.
[4] – “Mientras el ‘occidental’ es un mero intruso en la mayor parte de las colonias que ha asolado, en el Nuevo Mundo es, además, uno de sus componentes, y no el menos importante, que dará lugar al mestizo (no sólo al mestizo racial, por supuesto). Si ‘la tradición occidental’ no es toda la tradición de éste, es también su tradición.” R. F. Retamar, Ensayo de otro mundo, La Habana, 1967, p. 46.
[5] – Sul problema dell’alterità, su cui tanto si è discusso negli anni novanta, mi sembra significativo il pensiero di Gerardo Mosquera, critico d’arte cubano: “L’interesse postmoderno nell’alterità è, ancora una volta, egemonico ed eurocentrico, un movimento del dominante verso il dominato: l’Altro siamo sempre noi.[…] Mi piace proclamare l’utopia pratica secondo cui il Terzo Mondo creerà la cultura occidentale, riferendomi a una possibilità di decentralizzazione che punta non solo all’ibridazione, ma ad un’azione più offensiva del non Occidente come creatore autonomo di cultura contemporanea”. Gerardo Mosquera, “Postmodernità, arte e politica”, Latinoamerica, anno XVIII, n. 64, 1997, pp. 91-100, in spagnolo con il titolo “Tercer Mundo y cultura occidental”, in Lápiz, Madrid, n. 56, febrero 1989.
[6] – Julio Ortega, “Introducción “a José Martí, in José Martí, Antología, Navarra, Salvat, 1973, p. 12.
[7] – Molto tempo dopo, una scrittrice proveniente da un’altra minoranza, quella chicana, metterà in luce la difficoltà dell’integrazione e nel contempo la necessità che la frontiera si trasformi in crocevia di transiti: “Il confine Messico- Stati Uniti è una ferita aperta dove il Terzo Mondo si sfrega contro il primo e sanguina. E prima che si formi una cicatrice essa comincia di nuovo a sanguinare, il sangue di due mondi si mischia formando un terzo paese -una cultura di confine.” Gloria Anzaldúa, Borderlands/La Frontera. The New Mestiza, Aunt Lute Books, San Francisco, 1987, p. 3.