Mario Lombardo www.altrenotizie.org
Nel fine settimana è approdata indisturbata in un porto del Venezuela la prima delle cinque petroliere inviate dal governo iraniano per sopperire alla cronica carenza di carburante del paese latinoamericano sottoposto alle feroci sanzioni di Washington. Una seconda imbarcazione è già entrata nelle acque venezuelane e, per il momento, gli Stati Uniti non hanno mosso un dito per impedirne il transito, nonostante la retorica minacciosa dei giorni scorsi.
Complessivamente, il contributo della Repubblica Islamica alle necessità di Caracas dovrebbe ammontare a oltre 1,5 milioni di barili di benzina, assieme a un componente chimico da utilizzare nei processi di raffinazione del greggio, per un valore totale di 46 milioni di dollari. Secondo la stampa internazionale, il Venezuela avrebbe pagato in oro il carico in arrivo dall’Iran, ma la notizia è stata smentita dal governo di quest’ultimo paese.
L’arrivo delle petroliere iraniane è stato accolto trionfalmente dalle autorità venezuelane. La marina bolivariana ha scortato le navi all’interno delle proprie acque fino alla costa, mandando un messaggio chiarissimo di sfida agli Stati Uniti e alle forze dispiegate recentemente nel mar dei Caraibi dalla Casa Bianca con la scusa di contrastare il traffico di droga. La decisione americana era stata una delle ultime tra quelle messe in atto in piena emergenza Coronavirus per fare pressioni su Caracas. In realtà, il movimento di stupefacenti verso gli Stati Uniti è alimentato quasi interamente dalla Colombia e transita attraverso i paesi centroamericani, i quali, ad eccezione del Nicaragua, sono tutti strettissimi alleati di Washington.
Il governo USA non aveva comunque annunciato piani per intercettare e ostacolare le petroliere iraniane. I vertici della Repubblica Islamica, da parte loro, avevano avvertito la Casa Bianca a non interferire nella legittima fornitura di carburante destinato al Venezuela. Il presidente iraniano, Hassan Rouhani, sabato scorso aveva assicurato che gli Stati Uniti si sarebbero ritrovati a fronteggiare seri “problemi” in caso di ostacoli al movimento delle petroliere.
A scoraggiare un intervento americano è in primo luogo il timore di una possibile escalation militare in Medio Oriente. Lo stop al petrolio diretto in Venezuela potrebbe infatti spingere l’Iran a mettere in atto la minaccia lanciata tempo fa a Washington, quella cioè di bloccare il traffico di greggio nella stretto di Hormuz, da cui transita quasi un terzo del totale mondiale spedito via mare.
La manovra venezuelano-iraniana è stata poi con ogni probabilità progettata quanto meno con il consenso di Russia e Cina, sempre più chiaramente coinvolte nelle vicende di Caracas a sostegno del legittimo presidente Maduro. Entrambe le potenze hanno forti interessi economici e strategici nel paese latinoamericano e nel recente passato avevano chiarito a sufficienza l’assoluta indisponibilità ad accettare un colpo di mano americano contro Maduro.
Se il cambio di regime a Caracas continua a essere in cima alla lista delle priorità di determinati ambienti di potere americani, è ugualmente innegabile che il precipitare della situazione in Venezuela rappresenterebbe un rischio enorme per Trump a pochi mesi dalle presidenziali e in presenza di una situazione interna drammatica sul fronte economico e sanitario. In questo quadro, la mossa iraniana, in collaborazione con Mosca e Pechino, alza ulteriormente la posta per Washington, rendendo ancora più rischiosa una mossa avventata in ambito militare.
Il comportamento americano deve essere ad ogni modo valutato con attenzione. Il livello di disperazione che caratterizza gli ambienti di potere negli USA davanti alla rapida perdita di influenza su scala globale suggerisce di non escludere decisioni irrazionali. Tanto più che quanto sta accadendo nelle acque venezuelane è un’operazione orchestrata da due paesi “canaglia”, soggetti a entrambi alle durissime sanzioni economiche imposte unilateralmente da Washington.
La rottura del presunto isolamento del Venezuela, peraltro di natura soprattutto simbolica visto che le forniture iraniane copriranno un fabbisogno di non più di tre settimane, risulta di estremo rilievo anche perché arriva a poca distanza da iniziative eclatanti tentate dall’amministrazione Trump per rovesciare il governo Maduro. La Casa Bianca aveva messo ad esempio una taglia da 15 milioni di dollari sul presidente venezuelano, ridicolmente accusato di narcotraffico.
Inoltre, solo poche settimane fa era finito malamente un tentativo di invasione sulle coste del Venezuela ad opera di mercenari al servizio di una compagnia americana, reclutata dal fantoccio di Washington, Juan Guaidó, da pagarsi con oltre 200 milioni di dollari letteralmente rubati al governo e al popolo venezuelani. Come quest’ultima impresa fallita miseramente, anche l’arrivo delle petroliere iraniane contribuisce a screditare le forze di opposizione su cui si basano gli Stati Uniti per tentare il golpe a Caracas. Infatti, lo stesso Guaidó aveva di fatto invocato l’intervento militare USA per impedire la fornitura di beni di cui il suo paese ha assoluto bisogno.
Gli eventi di questi giorni nel mar dei Caraibi potrebbero concludersi in un’autentica umiliazione per gli Stati Uniti, i quali stanno vedendo emergere un elemento nuovo nella competizione strategica in quello che è considerato da sempre il “giardino di casa” di Washington. La frustrazione, assieme all’arroganza, americana a questo proposito è trapelata tra l’altro dalle dichiarazioni del comandante responsabile delle operazioni nel continente americano, ammiraglio Craig Faller. Quest’ultimo ha condannato il comportamento dell’Iran perché diretto a “conquistare vantaggi in una regione vicina [agli USA] a discapito dei nostri interessi”.
Per quanto riguarda l’impotenza evidenziata finora davanti all’iniziativa iraniana, la frustrazione a Washington è stata inequivocabile nei giorni scorsi. Un editoriale del Wall Street Journal era arrivato a chiedere apertamente un’azione militare per fermare le petroliere dirette in Venezuela. Per il giornale di Rupert Murdoch, l’inazione sarebbe infatti più rischiosa della possibile esplosione di un conflitto armato, nonostante la più che dubbia legalità di un’operazione da condursi in acque internazionali.
Il Washington Post di Jeff Bezos ha invece dato credito alle congetture di quanti sostengono come l’Iran non stia fornendo solo benzina, ma utilizzi le petroliere per portare in Venezuela materiale di intelligence per installare una postazione nel paese latinoamericano da cui intercettare comunicazioni “aeree” e “marine”. Il Post, inoltre, ha evidenziato con irritazione come a uscire vincitrice dalla violazione dell’embargo imposto al Venezuela sia soprattutto la Russia.
Per finire, l’imbarazzo americano è moltiplicato anche dal fatto che la provocazione iraniana si colloca in un frangente segnato da una relativa de-escalation dello scontro con Teheran, da cui proprio l’amministrazione Trump sembra dover trarre i maggiori benefici. Principalmente per ragioni elettorali, la Casa Bianca aveva acconsentito tacitamente ad abbassare i toni e ad astenersi da iniziative minacciose dirette contro la Repubblica Islamica, così da evitare un conflitto rovinoso in Medio Oriente.
Il convergere degli interessi dei due paesi nemici era apparso chiarissimo in Iraq, dove recentemente si è insediato un nuovo primo ministro dopo mesi di stallo politico grazie al via libera di Washington e Teheran. In questa prospettiva andava inquadrata anche la decisione USA di ritirare una parte del proprio contingente militare dall’Arabia Saudita, ovvero il principale rivale strategico dell’Iran in Medio Oriente dopo Israele.
Un riesplodere delle tensioni in America Latina riporterebbe perciò all’ordine del giorno l’ipotesi di uno scontro armato tra USA e Iran, con i rischi già ricordati per le prospettive di rielezione di Trump, per non parlare dei contraccolpi economici. Le intenzioni americane potranno essere comunque verificate meglio nei prossimi giorni, quando sulle coste del Venezuela dovrebbero attraccare le tre petroliere iraniane ancora in navigazione nell’oceano Atlantico.