Negro!

Alessandra Riccio https://nostramerica.wordpress.com

“Io non sono un negro, io sono un uomo!”, così lo scrittore James Baldwin pretendeva di spiegare l’enigma del razzismo. Non è il colore della pelle, non è l’origine africana, un uomo diventa un negro quando gli occhi che lo guardano lo vedono diverso e altro. Per essere negro, sosteneva Baldwin, afroamericano di Harlem che ha passato gran parte della sua vita in Francia denunciando la discriminazione razziale e sessuale del suo paese, devi essere visto da sguardi che in quella differenza di pelle vogliono vedere inferiorità e servitù.

Baldwin è morto nel 1987 ma pochi anni fa, nel 2016, Raoul Peck ha montato molte sue interviste e dichiarazioni in un documentario che è stato anche candidato al Premio Oscar, e gli ha dato un bel titolo: “I am not Your Negro” (Io non sono il tuo negro), un documentario che è una lezione sul razzismo. Niente di nuovo, naturalmente: nel 1937 Billie Holiday cantava Strange fruit, e quei frutti strani erano i negri linciati dai razzisti e impiccati ai rami degli alberi come ammonimento.

Fra le prime letture che mi hanno rivelato l’orrore del razzismo contro i negri, c’è un’edizione Einaudi del 1970 di I fratelli di Soledad, la storia dei fratelli Jackson, uno, George, in carcere con una condanna per furto a un distributore di benzina e più tardi, insieme ad altri due, per l’omicidio di un poliziotto durante un ammutinamento nel carcere di Soledad. Sono loro i “fratelli di Soledad”, tre giovani neri che in carcere hanno maturato le loro idee ribelli e si dichiarano militanti del Black Panther Party (BLA). L’altro, suo fratello carnale, Jonathan, di soli 17 anni, entra nell’aula del tribunale dove si giudica George, lo libera, prende degli ostaggi fra cui il giudice, scappa in un furgone ma, nella sparatoria della polizia muore insieme ad altri. Angela Davis, militante anch’essa delle Pantere Nere, fu accusata di aver introdotto nel carcere la pistola trovata in possesso di Jackson. In pochi mesi si consuma questa terribile tragedia con la morte di George Jackson nel carcere di San Quentin, sparato alle spalle da un secondino. Ma ha avuto tempo di raccontare le gesta e la morte del suo fratello appena diciassettenne, di raccontare le persecuzioni contro i detenuti, soprattutto i neri, le violazioni e le forzature alle leggi, denunciarle al mondo. Passa meno di un anno e, nel 1971 scoppia la più grande rivolta che si ricordi (e la più atroce repressione) nella prigione newyorkina di Attica. Ladri, criminali, ribelli, discriminati, i peggiori colpevoli sono sempre i negri. Anche Angela Davis è afrodiscendente, è comunista e milita anche fra le Pantere nere; ha sposato e appoggia quel potente movimento articolato fra posizioni pacifiste, rivoltose ed infine armate, come il Black Liberation Army di cui faceva parte Assata Shakur, ancora oggi una delle “terroriste più ricercate” dagli Stati Uniti, anche se c’è poco da ricercare poiché tutti sanno che Assata vive come rifugiata politica a Cuba dal 1984. In quei terribili anni settanta negli Stati Uniti è guerra. Al commemorare i 40 anni della strage di Attica, il filosofo e professore all’Università di Princeton, il negro Cornel West, ha ritratto il trauma, lo stigma, la paura degli afroamericani dopo quella e tante altre brutali repressioni: “Quaranta anni dopo siamo qui a commemorare questa lotta davanti allo sfondo storico di un popolo che è stato così terrorizzato, traumatizzato e stigmatizzato che abbiamo imparato a restarcene impauriti, intimiditi, sempre timorosi, sospettosi gli uni degli altri e irrispettosi gli uni degli altri. Ma la ribellione di Attica è stata un contrattacco in questa direzione. Lo chiamano la “negrizzazione” di un popolo, non solo del popolo negro, perché gli Stati Uniti sono stati negrizzati dopo quel giorno. Quando si è negrizzati si è insicuri, indifesi, sottomessi a una violenza aleatoria, odiati per quel che si è. Uno ha talmente paura che afferisce ai poteri che esistono ed è disposto a consentire di essere dominato. E questa è la storia della gente negra negli Stati Uniti.”

Ho incontrato e intervistato Assata Shakur più volte, a Cuba. Ho sentito dalla sua viva voce le fasi drammatiche del suo arresto, della sua detenzione, delle varie fasi dei processi in cui è risultata innocente, soprattutto dall’accusa di aver sparato al poliziotto che l’arrestava, della straordinaria forza che le hanno dato le donne della sua famiglia, soprattutto l’instancabile zia avvocato, della sua solidarietà verso Silvia Baraldini, accusata di aver prestato una sua vettura al movimento delle Pantere Nere, per ventiquattro anni in carcere negli Stati Uniti senza che dalle sue labbra uscisse la ritrattazione che ci si aspettava da una bianca. Silvia fu poi estradata in Italia grazie a un importante movimento di opinione e all’interessamento dell’allora Ministro di Giustizia, Diliberto. Ho guardato negli occhi quella donna sola, ho rispettato il suo silenzio sugli anni in cui, evasa dal carcere in un operativo dei BLA, dal 1979 al 1984 è scomparsa, come morta, anche e soprattutto per sua madre e sua figlia. Cuba era l’unico posto al mondo dove potesse sentirsi sicura, e lo è ancora oggi, quando l’Amministrazione Trump aumenta ancora la taglia sul suo capo e la ritiene una preda ambitissima. Non solo Trump, anche Obama e altri prima di lui hanno tentato di usarla come arma di scambio con i Cinque doppi agenti cubani arrestati in Florida e finalmente ritornati in patria in quella breve parentesi in cui poteva sembrare che gli Stati Uniti avessero deciso di cambiare la loro arrugginita politica contro Cuba.

La storia degli Afroamericani è molto più lunga e complicata di quel che ho detto in questo riassunto molto personale; ho raccontato soprattutto di combattenti in guerra con il potere della nazione, preparati a subire le conseguenze di una guerra. Ma George Floyd non militava, non faceva rapine per l’autofinanziamento, non sfidava il potere; andava semplicemente a comprare le sigarette con un biglietto da venti dollari, forse falso; ha aspettato quietamente in macchina che arrivasse la polizia, si è lasciato ammanettare e gettare per terra. Per nove interminabili minuti ha chiesto di poter respirare mentre tre poliziotti le tenevano fermo e il quarto gli premeva il ginocchio sul collo e un quinto badava che non si avvicinasse nessuno. L’immancabile telecamera ha ripreso il tutto, ha incrociato lo sguardo di ghiaccio del poliziotto che inscenava la morte in diretta e l’ha diffusa nel mondo. Non è la sola morte arbitraria imposta nel mondo dalle forze dell’ordine; di questi abusi di potere ne conosciamo purtroppo molti ma qui l’odio del bianco verso il nero raggela. E ha riproposto ancora una volta la questione del razzismo, interrogando anche noi. Jorit, l’artista di strada che opera prevalentemente a Napoli ha disegnato su un tetto di Barra i volti di Lenin, Malcom X, Angela Davis, Martin Luther King e George Floyd e sotto uno striscione che grida: “E’ tempo di cambiare il mondo”. In una manifestazione in una delle nostre città, un cartello diceva: “Credimi, anche il Mediterraneo toglie il respiro”. E in tutto il mondo si grida: “Black Lives Matter, la vita dei negri conta”.

(“Cumpanis”, n. 1, 10.6.2020)

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