Questa domenica si è annunciata grigia, brutta e afosa e la nostalgia cresce come l’edera nell’umidità. Però ce ne sbarazziamo rapidamente, vai! Con un solo colpo di machete.
Arriva una cesta di dolci con una dedica. La madre di una paziente l’ha inviata ai lavoratori dell’ospedale. Dire domenica è dire madre. Ma nell’ospedale l’attività è interminabile. La mattina presto nella zona rossa, Julio y Alessandro discutono la situazione di alcuni pazienti.
E io mi dedico a guardare le lettere lasciate da coloro che sono stati dimessi e sono tornati a casa.
In una si legge« Sono stati i nostri angeli. I medici e gli infermieri e tutto il personale della OGR mi hanno ridato la vita e mi hanno dato il coraggio e la forza per andare avanti. Grazie per tutto l’affetto e la pazienza. Ne siamo usciti curati e lo dobbiamo a voi. Vi porterò tutti nel mio cuore».
Lontani dalle famiglie, queste lettre ci retribuiscono l’amore filiale. Perché c’è una famiglia più grande di quella che ci ha visto nascere o abbiamo creato: è quella che costruiamo attorno a noi, con le nostre azioni nella vita.
Nel pomeriggio il sole si è affacciato timido tra le nubi e i brigatisti che tornano alla loro residenza vanno con un’idea fissa: comunicare con i loro congiunti e i familiari. Le voci dei nostri brigatisti si sentono ben alte nei corridoi, superano le pareti delle stanze. Cuba è vincolata da oriente a occidente con i loro cellulari. Il cuore della Patria non smette di pulsare nelle nostre vene.
UNA CASA UMILE
Mentre aspetto a pochi passi dalla residenza che i miei compagni abituali scendano per fare colazione, scopro sorpreso nel marciapiede le linee ben tracciate di un gioco infantile (pon a Cuba) fatte con pezzetto di calce.
La figlia del padrone della caffetteria qui sotto giocava ieri, mi dicono i miei amici arrivando. Oggi andiamo a casa di un’anziana di 83 anni, diabetica che à stata dimessa la scorsa settimana dopo il ricovero per la COVID – 19 nel nostro ospedale.
Mateo dice che la zona è cara, per la sua ubicazione; ma l’appartamento dell’anziana è piccolo: una saletta con un divano letto dove dorme qualcuno, un bagno da un breve corridoio, una stanza grande e una cucina-sala da pranzo che termina in un balcone che si affaccia nella parte posteriore dell’edificio. Lei vive con il marito Il dottor Maurio González Hernández la ausculta, le misura la pressione, la interroga. Rispondono e si rettificano, indistintamente. La coppia chiede dei medicinali, ma Maurio insiste: la principale medicina è la dieta, e chiede quello che mangiano ogni giorno.
Il marito riferisce: a colazione caffè e pane tostato; a pranzo, 60-70 grammi di pasta e frutta; a cena una piccola bistecca e verdure.
Maurio indica di mangiare frutta alle merende; un frutto alle dieci di mattina e un altro alle quattro del pomeriggio. Poi spiega con molta pazienza come ingerire o iniettare i medicinali.
Le chiede di farsi da sola la glicemia capillare e la orienta nel processo. Guarda il risultato: normale.
Io percorro con gli occhi l’appartamento. Si dice che nessuno conosce un paese sino a che non è entrato nelle case dei suoi cittadini. Ma nemmeno entrando in una casa così di passaggio lo si conosce già.
La casa di questi anziani è molto umile. Le foto familiari sono sistemate in cornici improvvisate. Non ci sono oggetti decorativi. Il televisore, piccolo, è degli anni ‘80. C’è la foto di un matrimonio, in bianco e nero.
«Ci siamo sposati nel 1961», ci specifica lui». In un’altra cornice, al disopra, appaiono le fotografie del figlio e del nipote.
Stiamo già andando via e lei ci dice che è stata 56 giorni nell’ospedale senza vedere il marito.
«Il medico cubano è stato molto affetuoso, sonostat curata molto bene d aun punto di vista umano e professionale. Mi sono sentita molto curata e voglio ringraziare. L’anziana non riconosce il volto del dottor Maurio, ora coperto solo dalla mascherina, perché lo aveva sempre visto portando la protezione speciale.
Il dottor Julio le dice: «Lui è stato il suo medico, quello che la curava là», lei sorride incredula.
IL «MARINE» ITALIANO
«Io ho partecipato al blocco navale a Cuba con le forze della NATO», sostiene con ingenuo orgoglio un paziente di nome Antonino. Ha 77 anni e la pressione scompensata. Non so a quale episodio si riferisce… sono state tante le aggressioni e le azioni d’intimidazione alla nostra Isola che la sua affermazione risulta verosimile.
È seduto in una sedia a rotelle a lato del suo letto nella zona rossa.
Lo assiste il dottor Abel Tobías.
Nel 1962? Gli chiedo . «No, no, nel 1966». Non so se la sua memoria ubica l’ anno con esattezza. Dice che la sua nave era una lanciamissili della Armata italiana, e che lui lavorava alla macchine. Non è mai stato a Cuba neanche nella base usurpata dagli statunitensi . «Lì non ci lasciavano andare», dice.
(Alcune ore dopo ricorro a Google, sfiduciato, ma risulta che la guerra degli Stati Uniti contro la Rivoluzione cubana apporta più di un avvenimento per anno dal 1959). È un uomo malato di 77 anni , un essare umano che necessita aiuto. Al suo fianco, sollecito e attento, come smpre c’è il dottore cubano Abel Tobías.
Prima di proseguire mi presentano un altro paziente. Si chiama Juan Ramón Paucarchuco, un peruviano di 64 anni. I suoi occhi si strizzano e cerca di scoprirmi dietro il costume da «cosmonauta» che ho addosso. L’inseparabile elemento che portiamo, le mascherine, hanno propiziato un fatto che si deve ringraziare. Infine ci guardiamo negli occhi, sempre. Abbiamo imparato a scoprire in loro i sintomi dell’intelligenza, il sorriso, la perspicacia, l’emozione o l‘indifferenza. Ora conosciamo le persone per il loro sguardo.
«Il mio è un nome difficile, del Perú antico», dice provocatore, cosciente che i suoi conoscenti abituali in Italia conoscono la storia antica di questo paese.
Vive a Torino con sua moglie da 17 anni.
«Abbiamo lavorato tanto», aggiunge quasi sussurrando.
Negli ultimi dieci giorni ha lavorato come operatore sanitario ai servizi in un ospedale. Lì si è contagiato e ha trasmesso il virus a sua moglie.
«I medici cubani mi fanno pensare tanto nell’umanesimo che abbiamo perso …
Mi hanno detto che ci sono più di 20 brigate come questa nel mondo. È vero? Abbiamo tralasciato gli aiuti umanitari in tutti i paesi».
Parla con proprietà: «I paesi più sviluppati devono cambiare il loro modo d’agire. Ci troviamo di fronte a grandi sfide e invece di spendere denaro per le armi devono spendere per un esercito della sanità».
-Va spesso in Perù», gli chiedo.
«No, sono dieci anni che non ci vado».
-Sapeva che una brigata medica cubana è appena andata in Perù?
«Sì. Il mio paese è in emergenza e mi rallegra molto sapere che una brigata cubana è andata là».
Quando gli domando se ha nostalgia, resta un attimo in silenzio: «Sì –dice alla fine–, sì, si ha nostalgia della cultura, degli amici, del cibo, di tante cose…».
Come tutti, spogliandomi della tuta di protezione con la guida di Renè, ci scopriamo fradici di sudore. L’impegno quotidiano dei nostri medici e delle infermiere nella zona rossa è molto faticoso , stressante.
René mi avverte: «Non tralasciare di scrivere oggi, per favore, che la brigata cubana di Torino e soprattutto i suoi epidemiologi felicitano il dottor Durán per il suo compleanno».
-Non me lo dimentico, gli dico. Sono tre i festeggiati del giorno precedente: Raúl, Durán e Gerardo. Tre generazioni di eroi cubani.