Intervista a Sergio Requena dell’esercito produttivo operaio (EPO)

di Geraldina Colotti

L’incontro tra chi scrive e l’esperienza dell’”esercito produttivo operaio” (EPO), il gruppo di lavoratori e lavoratrici che recupera le imprese paralizzate o in difficoltà con una tecnica di controllo operaio che potremmo definire di mutuo soccorso rivoluzionario, ha avuto vari momenti.

Ne avevamo già sentito parlare alla Hojilla, la trasmissione di Mario Silva che scava nelle viscere della politica venezuelana. Ne abbiamo avuto conoscenza diretta durante una riunione a Castillete, storico luogo a Caracas dove ogni settimana gli ex guerriglieri che hanno combattuto le democrazie borghesi della Quarta Repubblica si riuniscono con i giovani del quartiere, per rinnovare quegli ideali nel presente della rivoluzione bolivariana.

Poi abbiamo incontrato una prima volta Sergio Requena, co-fondatore dell’Epo, durante il congresso mondiale dei lavoratori e delle lavoratrici, che si è svolto a Caracas nel 2019. Da allora siamo rimasti in contatto, con l’idea di una visita diretta alle realtà in cui l’Epo sta operando, a partire dallo stato di Bolivar, ma lo scoppio della pandemia ha rimandato ogni progetto.

Intanto, il lavoro dell’Epo è proseguito soprattutto nello Stato di Bolivar: in dialettica con il Consiglio Produttivo dei lavoratori e delle lavoratrici (CPT), organizzazione politica del Partito Socialista Unito del Venezuela che agisce “per lo sviluppo dell’economia sovrana e indipendente”; e nello spirito della “costituente operaia” che lavora per “aumentare la produzione in tutto il paese”. Un obiettivo che il presidente Nicolas Maduro, coadiuvato dal ministro del lavoro Eduardo Piñate rende visibile al paese durante le giornate specifiche dedicate a ogni settore nel corso di questa pandemia. In questa chiave, abbiamo nuovamente conversato al telefono con Sergio Requena, chiedendogli di raccontare l’impegno dell’Epo in tempi di pandemia.

“La nostra – ci ha spiegato – è una proposta che esiste da alcuni anni. Accompagna la riattivazione produttiva di alcune imprese recuperate dallo Stato o autogestite, paralizzate o semi paralizzate, mediante il protagonismo operaio e la ricerca di soluzioni comuni”.

Un movimento di volontari e volontarie che conta circa 2.270 persone: donne, uomini, anziani e giovani dell’organizzazione Chamba Juvenil, alla quale il presidente ha specificamente affidato il compito di reinserire, nel lavoro e nello studio, i migranti che tornano dalle frontiere limitrofe.  Come funziona l’Epo?

“Il nostro obiettivo è quello di riattivare gli elementi più avanzati di socialismo stimolando il protagonismo produttivo della classe operaia. Quando una unità produttiva ci chiama, andiamo sul posto e viviamo lì per un breve periodo, per condividere dall’interno i problemi tecnici o di gestione. Poi ripariamo se c’è da riparare, cercando soluzioni all’interno di strutture analoghe, che di solito sono molto più alla portata di quanto non si pensi. Più che di riparare le macchine, il nostro obiettivo è quello di riattivare la coscienza di classe, il riconoscimento mutuo della nostra appartenenza di classe”.

In sette mesi (nel momento in cui Requena aveva una responsabilità nazionale nel precedente ministero dell’Industria), l’EPO ha così rimesso in attivo “8 fabbriche operative” in diversi stati del paese, iniziando da tre imprese occupate e recuperate a Ciudad Guayana, nello Stato di Bolivar: Calderys, Equipetrol e Indorca, particolarmente colpite dalla guerra economica.

Imprese che funzionano in base all’articolo 149 della Legge Organica del lavoro che consente ai lavoratori di continuare ad amministrare un’impresa quando il proprietario decide di andarsene e chiude la fabbrica. “Se vuoi vedere un soviet – dice Sergio – vieni a Indorca. Tutti guadagnano lo stesso salario, la gestione è in mano a un consiglio dei lavoratori, i conti sono visibili a tutti e le decisioni si prendono insieme. Una fabbrica metalmeccanica recuperata e occupata da 40 lavoratori e lavoratrici che produce pezzi per le imprese basiche dell’industria petrolifera”.

Poi, nel 2015, l’EPO si è recato alla Gaviota, la prima grande impresa produttiva a livello nazionale, rimettendo in funzione reparti importanti: cercando soluzioni “complementari” con altre fabbriche recuperate per evitare lungaggini burocratiche. Si potrebbe dire che l’EPO unisce comunicazione, motivazione e autogestione per combattere “una guerra non convenzionale scatenata dall’imperialismo contro il Venezuela con armi non convenzionali”.

La “battaglia produttiva” inizia dopo una prima analisi collettiva dei punti di criticità che paralizzano la fabbrica. Una volta individuati, si sceglie la squadra adatta per agire tra i gruppi di volontari dell’EPO, e in base a criteri di vicinanza con l’impresa in questione. Se, come avviene nella maggioranza dei casi, i volontari sono a loro volta lavoratori, chiederanno un distaccamento alla loro impresa per recarsi nell’impresa da risanare, altrimenti chiederanno useranno permessi o giorni di vacanza, o i fine settimana. Il tempo di permanenza va, infatti da cinque a sette giorni, magari a più riprese.

“Ci accampiamo nell’unità produttiva con mezzi di fortuna – spiega Sergio -, mangiamo e dormiamo lì, dividendoci i compiti e stabilendo quel che compete a ognuno nella soluzione del problema, fino al risultato finale, che è ovviamente un risultato collettivo”. Dal 2016, l’EPO è intervenuto il 14 battaglie produttive, sempre riportando la produzione al 100%, riparando oltre 320 macchine o strumenti di lavoro. Tutto senza finanziamenti, e dovendo schivare indolenza e burocrazia. Anzi, portando anche il materiale mancante senza chiedere nulla in cambio.

Così – racconta Sergio – si è fatto nel 2016 nella fabbrica di farina da pesca e di sardine in scatola UPSA La Gaviota, un’impresa statale che era paralizzata per un’avaria del forno da circa due anni e mezzo. I lavoratori andavano in fabbrica dal mattino alla sera, ma erano demotivati, anche perché “aveva acquistato potere una sorta di sindacato che paralizzava le decisioni”. In ogni caso – cosa inconcepibile nei paesi capitalisti – dallo Stato bolivariano ricevevano comunque uno stipendio.

Sergio ricorda che, all’inizio, gli operai di Gaviota guardavano anche con sospetto i compagni dell’EPO, chiamati da alcuni lavoratori attivi nella costituente operaia voluta da Maduro. Ma poi, si sono rimessi all’opera, riportando la produzione al 100%.

Una politica – precisa Sergio – in linea con quella lanciata da Chavez nei momenti più alti della rivoluzione bolivariana e contenuti nel Golpe de Timón. Una linea basata sullo sviluppo delle comunas, del controllo operaio e sulla continuazione della lotta per la democratizzazione della terra, che Maduro cerca di mettere al diapason con la necessità di provvedere in fretta alle esigenze produttive del paese, fortemente messe in questione dal blocco economico-finanziario dell’imperialismo.

“Come ulteriore impulso e supporto all’attività del CPT – dice ancora Requena – abbiamo proposto la creazione della Gran Mision di Mantenimento sovrano nei settori produttivi per costruire lo Stato socialista operaio contadino e comunale. Chavez ci ha lasciato una formidabile architettura economica, sociale e prospettica. Sta a noi sviluppare gli elementi di socialismo in una logica diversa da quella del capitalismo, per vincere la guerra economica aumentando la capacità produttiva. La pandemia – aggiunge Sergio – ci ha indotto a cambiare forma di lavoro, in questi mesi di quarantena abbiamo anche lavorato da casa, creando legami e sviluppando la comunicazione anche a livello internazionale”.

Salute, lavoro e fucile, ha detto Maduro alla classe operaia. Cosa significa per l’EPO? “In vista delle elezioni parlamentari – risponde Sergio -, occorre stabilizzare la situazione politica del paese: contrastando le mire dell’imperialismo e al contempo moltiplicando gli sforzi per la produzione nazionale. Ora e nella post-pandemia, alla classe operaia unita spetta il compito di essere forza dissuasiva per l’imperialismo, ma al contempo costruire un’alternativa radicale al capitalismo”.

 

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