di Geraldina Colotti
Il Venezuela ha detto basta alle ingerenze dell’Unione Europea. Così, Isabel Brilhante Pedrosa, ambasciatrice dell’UE a Caracas, ha avuto 72 ore per andarsene. Lo ha annunciato il presidente Nicolas Maduro durante la consegna del premio nazionale di giornalismo Simon Bolivar.
Una risposta alla decisione del Consiglio europeo che ha aggiunto altri 11 funzionari venezuelani all’elenco delle persone “soggette a misure restrittive” per il presunto ruolo “in atti e decisioni che minano la democrazia e lo stato di diritto in Venezuela”.
Questa volta sono stati sanzionati anche personaggi dell’opposizione moderata. Tra questi, Luis Parra, attuale presidente dell’Assemblea nazionale (An), e i due vicepresidenti, Franklyn Leonardo Duarte e José Noriega, anche loro di opposizione. Incluse nelle misure anche la prima e la seconda vicepresidente dell’Assemblea Nazionale Costituente, Tania Diaz e Gladys Requena.
Parra è stato eletto dai parlamentari di opposizione alla scadenza del mandato di Juan Guaidó, il deputato di Voluntad Popular che si era autoproclamato “presidente a interim” forte di quel ruolo e, soprattutto, dell’appoggio di Donald Trump e di quasi tutti i paesi della UE.
Nel 2019, era toccata a Guaidó la presidenza di turno del Parlamento, già da tempo considerato in stato di oltraggio dal Tribunal Supremo de Justicia (TSJ) per aver incorporato deputati fraudolenti dopo le parlamentari del 2015. Subito è iniziato un crescendo di attacchi destabilizzanti alle istituzioni bolivariane, dentro e fuori il paese. L’opposizione golpista si è giocata tutte le cartucce, con la doppia finalità di intascare quanto più denaro possibile e di rubare i beni esistenti all’estero per conto del padrone nordamericano.
La bagarre che sempre si scatena in queste aree per la spartizione del bottino ha scoperchiato una pentola di complotti e malaffare, che non ha però inquietato i governi della “vecchia Europa”: sempre pronti a dare lezioni etica e democrazia, salvo, poi, coprire con i propri apparati di controllo le nefandezze locali. La parola “democrazia” è d’altronde un involucro e un pretesto buono per tutte le aggressioni, basta ammantarla di quella emotività falsificata che muove la propaganda nelle società “complesse”.
Altrimenti, come spiegare l’immarcescibile persistenza di personaggi come l’ex presidente spagnolo Felipe Gonzalez? Il mese scorso, il giornale La Razón ha diffuso documenti desecretati dalla Cia nel 2011 e redatti nel 1984 nel quale si spiega come Gonzalez, ex segretario generale del Partito Socialista Spagnolo (PSOE) avesse creato un “gruppo di mercenari” controllato dall’esercito per eliminare i militanti dell’ETA.
Si tratta del tristemente famoso GAL, che ha agito indisturbato contro i baschi anche in territorio francese. Nell’82 si praticava la tortura di Stato anche in Italia, per ordine degli USA, in Inghilterra non si faceva da meno con i militanti dell’IRA, e la Germania aveva già “suicidato” in carcere i dirigenti della guerriglia RAF.
Il doppio binario delle democrazie borghesi, a cui sempre cala la maschera quando sono messe in questione dalla lotta di classe, viene peraltro ammesso anche dalla stessa stampa nordamericana. Avviene così per quanto riguarda gli attacchi al Venezuela. Dopo aver pervicacemente negato la verità dei fatti, i media statunitensi presentano tardivamente quelle stesse prove subito prodotte dopo ogni attacco dal governo bolivariano.
Sia i documenti desecretati, sia gli “scoop” a cose fatte, sono altrettante modalità con le quali il sistema si assolve, come in un film hollywoodiano. È stato così per il tentativo di strage con i droni del 4 agosto del 2018, e poi con l’aggressione alle frontiere venezuelane mascherato da aiuto umanitario, e ancora con il recente attacco mercenario via mare, organizzato nell’ambasciata di Spagna a Caracas, gestito in Colombia e messo nero su bianco con un contratto milionario stipulato dalla banda “autoproclamata” con l’impresa per la sicurezza privata Silvercop.
Ora lo ha ammesso anche l’ultraconservatore Wall Street Journal. Secondo il quotidiano statunitense, il capo di Voluntad Popular, Leopoldo López, rifugiato nell’ambasciata spagnola a Caracas dopo la fuga dal carcere e la comparsata nel tentativo di golpe dell’aprile 2019, ha coordinato l’Operacion Gedeon proprio dalla sede diplomatica.
Un’operazione che, proprio mentre gli USA tacciavano il governo bolivariano di essere “narcotrafficante”, si avvaleva del supporto di grandi trafficanti di droga, al soldo della DEA. “Il governo spagnolo è d’accordo con il fatto che nella sua sede si siano svolte queste riunioni per pianificare azioni contro uno stato legittimo, con la partecipazione di noti narcotrafficanti?”, ha chiesto Maduro.
Un interrogativo tante volte posto al governo colombiano, gendarme degli USA in America Latina, e sempre rimasto senza risposta. O meglio. La risposta continua a essere la stessa: organizzare la destabilizzazione mercenaria alla frontiera con il Venezuela. Un confine lungo quasi 2.500 km, che impegna il governo bolivariano in una strenua battaglia per la sicurezza interna e ora anche per quella sanitaria.
Trafficanti senza scrupoli fanno entrare per i tanti passaggi illegali anche migranti che cercano di rientrare nel paese senza passare per i posti di controllo nei quali il governo bolivariano effettua gratuitamente i test e la quarantena per il coronavirus. Tanto che la maggioranza degli infettati dal Covid-19, in Venezuela, si è data per questa ragione.
Freddy Bernal, protettore dello stato frontaliero del Tachira, ha recentemente filmato una rudimentale funivia, con la quale i trafficanti facevano passare i venezuelani di ritorno, previo pagamento di 100-150 dollari.
Altre immagini mostrano folle di persone che, marciando per chilometri o attraversando il fiume su gommoni, cercano a tutti i costi di rientrare nel proprio paese, che avevano abbandonato in cerca dell’”eldorado” capitalista. Immagini che, di certo, non vedremo qui in Europa, dove i media hanno condizionato l’opinione pubblica con il presunto “esodo” dei migranti venezuelani.
E adesso, con la solita, studiata, operazione di rovesciamento tesa a trasformare in vittima gli aggressori, i media titolano: “Maduro attacca l’Unione Europea”, e si uniscono al coro dei governi che già pensano a “azioni di risposta in base al principio di reciprocità”. La portavoce della Commissione Europea per gli Affari Esteri, Virginie Battu, ha detto di aver convocato “l’ambasciatore del regime di Nicolas Maduro al Servizio Europeo per l’Azione Esterna, Claudia Salerno”. Ma per espellere l’ambasciatrice venezuelana, dichiarandola “persona non grata”, la UE non può procedere senza una decisione unanime del Consiglio UE, e a procedere materialmente dev’essere lo Stato belga.
La “reciprocità” di cui parla il capo della diplomazia europea, Josep Borrell è evidentemente una reciprocità asimmetrica, visto che a essere aggredita è la Repubblica bolivariana del Venezuela. Ma di certo non si può chiedere al colonizzatore di aver empatia per il colonizzato, nei cui occhi sempre vedrà riflesso il suo sguardo da padrone e non quello del dominato.
L’odio per il “pericolo rosso” fa perdere il controllo a personaggi compassati che scapperebbero al primo schiocco di frusta dello schiavo libero che gliel’ha presa. Lo si vede con il rumoroso tramestìo dell’eurodeputato di simpatie monarchiche, Antonio Tajani. Anni fa, Tajani aveva insultato il deputato chavista Dario Vivas all’aeroporto e, dopo la montatura diffusa da ABC circa presunti finanziamenti di Chavez al movimento 5Stelle, si è spinto fin sotto l’ambasciata del Venezuela in Italia per gridare contro il “dittatore” Maduro.
Contro il Venezuela bolivariano si ravviva l’antica paura delle classi dominanti provata con la vittoria di Carabobo, con la rivoluzione russa del 1917, con quella maoista del 1949 in Cina, del 1959 a Cuba, con la sconfitta subita in Vietnam e per tutte le sconfitte che il socialismo bolivariano ha loro inflitto innalzando la bandiera della dignità.
Ma il vento della dignità non sembra spirare tra i banchi del governo di Guyana, tanto screditato quanto conservatore e subalterno agli USA, da vendersi per un ricavo di miseria alle petroliere nordamericane come la Exxon Mobil, che perfora illegalmente le acque dell’Esequibo, storicamente contese con il Venezuela. Ignorando il diritto internazionale, il governo Grangé si è ora rivolto alla Corte Penale Internazionale, senza il consenso dell’altra parte in causa.
D’altro canto, già l’anno scorso, un audio filtrato dall’ambasciata inglese mostrava come Guaidó, sulla questione dell’Esequibo, avesse promesso di agire per sostenere gli interessi della Gran Bretagna, potenza coloniale a cui è stata sottomessa la Guyana fino all’indipendenza. E, come ha rivelato il libro del falco Bolton, con la Gran Bretagna è stato concordato il furto dell’oro venezuelano, depositato in una banca londinese, e che ora l’autoproclamato vorrebbe intascare per conto del suo padrino Trump.
Come sempre a sprezzo del ridicolo, l’autoproclamato ha dichiarato che “Maduro non ha alcun diritto di espellere l’ambasciatrice UE perché l’Europa non lo riconosce”. Come se tutte le sedi diplomatiche europee fossero rimaste in Venezuela per gentile concessione del suo governo di Narnia…
Ma d’altro canto le “motivazioni” addotte dalla UE per “sanzionare” i deputati venezuelani sono altrettanto grottesche, visto che si ergono a difesa non solo dei falchi del Pentagono, che di “democratico” hanno ben poco, ma perché hanno il coraggio di definire “democratico” un truffatore golpista, considerato un asino zoppo persino dal suo finanziatore principale, Donald Trump.
Per la UE, i deputati sono responsabili di aver consentito un funzionamento antidemocratico del Parlamento e di aver facilitato l’estromissione di Guaidó, quel campione di democrazia che voleva restare in carica contro le regole stabilite dal suo stesso campo. Sapendo di non avere i numeri, e soprattutto insofferente anche di quella parvenza di dialettica democratica, Guaidó aveva inscenato un altro capitolo del suo teatro.
Insieme al litigioso manipolo di golpisti che gli resta intorno, aveva deciso di autoproclamare anche un mini parlamento virtuale, trasferito nel salone del suo condominio, ma sempre con la benedizione di Trump e dei suoi vassalli. E come vassalla di Trump si sta comportando anche questa volta la UE, decidendo di assumere in toto il punto di vista dell’autoproclamato, e ignorando le decisioni della maggioranza dell’opposizione che, a seguito di diversi colloqui con il governo, ha accettato le regole costituzionali, impegnandosi per lo svolgimento delle prossime elezioni parlamentari, a dicembre.
In virtù di questi colloqui, il chavismo era tornato a partecipare alle sedute del Parlamento, dove, tra l’altro, è stata votata l’apertura di una commissione d’inchiesta per stabilire dove siano finiti i finanziamenti di Trump e le “donazioni” raccolte in occasione del mega concerto milionario realizzato alla frontiera con la Colombia durante il tentativo in invasione armata del Venezuela, mascherato da aiuto umanitario.
“In Venezuela si svolgeranno elezioni parlamentari libere, trasparenti e con la partecipazione di migliaia di candidati e candidate”, ha detto Maduro, mentre il nuovo CNE ha comunicato le regole che ampliano il numero di deputati eleggibili e le giornate di discussione avute con tutti i partiti e i movimenti che si postulano per l’elezione di dicembre.
Il deputato Luis Parra ha per parte sua rivendicato la necessità di ripristinare una dialettica democratica nel paese, riportando i conflitti, anche aspri, nell’alveo istituzionale. “Se una parte estremista dell’opposizione non l’accetta, che se ne vada a combattere apertamente con le armi”, ha detto intervenendo nella trasmissione Dando y Dando, condotta dalla vicepresidente dell’Assemblea Nazionale Costituente, Tania Diaz, e dal ministro per l’Educazione, Aristobulo Isturiz.
L’UE ha iniziato a emettere “sanzioni” contro il Venezuela nel 2017. “Che peccato – ha detto Maduro -, che 27 paesi, un continente dal grande potere economico, militare, politico, si inginocchi davanti a Trump e alle sue politiche di aggressione, e riconosca un fantoccio come Guaidó”.