Coraggiosi: oggi volontari contro il COVID-19, domani diplomatici

Dinella García Acosta  www.cubadebate.cu

Qualche settimana fa, una persona ricoverata in una delle sale per sospetti (COVID ndt) dell’ospedale Salvador Allende ha chiesto a Laura, una delle volontarie che pulivano la sala, di prestarle il telefono per chiamare un famigliare. L’istinto glielo fece prestare senza esitazioni e poi l’ha disinfettato. Il paziente sarebbe risultato positivo al nuovo coronavirus la mattina successiva.

Per quasi quattro mesi migliaia di persone come Laura Martínez Chacón si sono offerte volontarie per aiutare a combattere il COVID-19 a Cuba, assumendosi rischi e rinunciando a rimanere a casa. Tra queste ci sono più di 80 studenti dell’Istituto Superiore di Relazioni Internazionali (ISRI) e giovani funzionari del Ministero degli Esteri (MINREX), e diversi gruppi hanno già lavorato in centri di isolamento e nel Covadonga. “Devi essere dove bisogna essere e fare quello che bisogna fare”, dice Mirthia Brossard dopo aver vinto la battaglia.

Dall’11 al 25 maggio, un gruppo del MINREX ha lavorato nella zona rossa dell’ospedale Salvador Allende insieme a giovani dell’Università Tecnologica José Antonio Echeverría (CUJAE), lavoratori del Ministero del Turismo (MINTUR) e professori generali integrali.

Di propria iniziativa e in riferimento al novembre 1971, quando Fidel Castro visitò il Cile di Salvador Allende, chiamarono la brigata “11/71”. Durante la sua permanenza in ospedale si sono registrati 15 casi positivi al Sars-Cov-2, mentre pulivano, trasferivano farmaci e facevano guardie notturne.

“Se tutti abbiamo la possibilità di aiutare e contribuire as affrontare la pandemia, dobbiamo farlo nella trincea dove è il nostro posto. Fu la Sierra che ci è toccato in questo momento, il Moncada che ci è toccato. Semplicemente dovevamo essere lì”, dice Brossard.

Il colpo è stato forte fin dall’inizio. Il primo gruppo che è entrato in ospedale addirittura prima di indossare le tute ha incontrato un paziente positivo che era stato trasferito. “Qui evidentemente non stiamo giocando, nemmeno parlando di ipotesi e che forse hai o meno positivi nella sala. Qui c’è un’alta probabilità di avere un contatto con malati”, si sono detti l’un l’altro.

Alcuni genitori hanno dubitato , altri hanno voluto andare con i loro figli, ci sono genitori che non l’hanno mai scoperto ed altri che l’hanno scoperto sulle reti sociali. Dire ai tuoi genitori che rinunci alla loro protezione e che ti tuffi a capofitto nella piscina quasi senza acqua, è comprensibile solo quando sei convinto che salvare, salva.

Senza precedenti esperienze nel settore della medicina, questi giovani hanno affrontato ogni tipo di situazione. C’erano quelli che hanno pulito, chi ha distribuito i pasti e persino chi ha informato i pazienti che un familiare era morto. C’è stato anche il caso di un’infermiera che distribuiva i medicinali che si era contagiata pochi giorni prima della fine del periodo di lavoro di 14 giorni. Ciò ha comportato l’esecuzione di un PCR di urgenza all’intero gruppo e l’attesa con ansia. “Ma non potevamo arrenderci. I cubani non si arrendono mai”, ti dicono oggi, sapendo che sarebbero entrati di nuovo. In effetti, alcuni l’hanno già ripetuto.

Sono tutti d’accordo sulla complicità e sulla famiglia che hanno creato. Essere uniti ha permesso loro di battere, ogni giorno, il COVID-19. Anche l’umorismo ed il sorriso sono stati indispensabili tra le cuccette e le stanze che li hanno accolti da quasi un mese.

“Il grido della dispensa”, per esempio, era il nome con cui hanno battezzato una dei compiti dei ragazzi incaricati di distribuire i pasti. Tra “grida”, battute ed imitazione di un proclama passavano incoraggiando persone sole, accompagnate, di tre o 70 anni. L’umorismo è servito come balsamo contro l’incertezza.

Ma di notte, quando il lavoro era finito, tornavano ad essere di nuovo solo giovani, che hanno dimostrato che si può giocare a Pictionary nel proprio salotto con gli amici di una vita, e anche alle 12 di notte, con una mascherina, stanco, dopo aver pulito ogni angolo possibile e sentito l’odore del cloro anche nei sogni. Che si può parlare attraverso i muri per minimizzare il contatto, ballare e cantare persino quando sei sfinito, che si può essere felice ed aver paura.

Da tutti gli angoli

 

Da tutti gli angoli e talvolta anche senza spostarsi dallo stesso quartiere, anche i giovani che studiano per diventare diplomatici si sono uniti per portare cibo e medicine a zone in quarantena o agli anziani. Arrivare alle code per comprare contemporaneamente decine di pani o raccogliere diverse ricette della farmacia è stata la mattina di molti di loro.

Anche i sabato agricoli hanno fatto parte degli ultimi giorni, oltre a realizzare mascherine di protezione per il personale medico ed i volontari. Hanno anche donato sangue, etichettato pacchetti di alimenti, confezionato ipoclorito, svolto indagini virtuali, organizzato code, allestito il centro di isolamento dell’Università di Informatica (UCI).I giovani dell’ISRI si sono stabiliti per comune e non hanno riposato per più di tre mesi.

“All’inizio avevo una certa paura di essere nella zona rossa, ma abbiamo imparato in fretta. La prima cosa che mi ha impressionato è stato il contatto con un posto ed un paziente con sospetto del virus, ma nella mia mente ho detto a me stesso che è qualcosa che deve essere fatto e avanti”, afferma Daniel Fernández, uno studente del quarto anno e volontario presso il centro di isolamento UCI.

Sino a metà giugno, oltre la metà degli studenti dell’istituto era stata collegata a compiti di contrasto con il COVID-19 e buona parte, in particolare, a compiti produttivi. Molti sono sorpresi di aver partecipato a diverse missioni. Fermarsi non è mai stata un’opzione, anche per coloro le cui tesi li attendono a casa.

Sono stati tempi diversi e la studentessa del terzo anno Amalia Rodríguez lo sa. Abituata a sfilare con i suoi genitori ogni 1o di maggio, questo lo ha trascorso in un centro di isolamento con possibili casi di malattia altamente contagiosa.

“Ma si sente, allo steso modo, corretto. Stiamo lavorando per porre fine alla pandemia, in modo che non dobbiamo occuparci di altri pazienti, in modo che non debbano finire qui, in modo che i medici non collassino, in modo che possano rivedere la loro famiglia, per poter abbracciare mia madre. Essere qui è quello che bisogna fare. Non potrei vivere tranquilla vedendo che potrei contribuire e stare a casa mia”.

Secondo il Ministero dell’Istruzione Superiore, oltre 7000 studenti universitari e 52000 studenti di scienze mediche hanno contribuito alla lotta contro il nuovo coronavirus. “La cosa più bella è aver avuto un’esperienza che, per la mia professione, mai avrei avuto; stare dalla parte dei medici ed infermieri, vedere cosa si prova a salvare una vita”, dice uno dei giovani diplomatici.

Oggi hanno vesciche ai piedi, mani rovinate dal cloro, allergie, gruppi di WhatsApp, foto e video. Domani, quando rappresenteranno Cuba in una missione, potranno raccontare loro stessi di come una piccola isola ha dato una lezione di solidarietà al mondo, dentro e fuori i suoi confini.


VALIENTES: Hoy voluntarios contra la COVID-19, mañana diplomáticos

Por: Dinella García Acosta

Hace unas semanas, una persona ingresada en una de las salas para sospechosos del hospital Salvador Allende le pidió a Laura, una de las voluntarias que limpiaban la sala, que le prestara el teléfono para llamar a un familiar. A ella el instinto le hizo prestarlo sin dudar e ir a desinfectarlo después. Ese paciente daría positivo al nuevo coronavirus a la mañana siguiente.

Durante casi cuatro meses miles de personas como Laura Martínez Chacón se han presentado voluntarias para ayudar a combatir la COVID-19 en Cuba, asumiendo riesgos y renunciado a quedarse en casa. Entre estas hay más de 80 estudiantes del Instituto Superior de Relaciones Internacionales (ISRI) y jóvenes funcionarios del Ministerio de Relaciones Exteriores (MINREX), y ya son varios grupos los que han trabajado en centros de aislamiento y en la Covadonga. “Hay que estar donde hay que estar y hacer lo que hay que hacer”, dice Mirthia Brossard después de haber ganado la pelea.

Del 11 al 25 de mayo un grupo del MINREX trabajó en la zona roja del hospital Salvador Allende junto a jóvenes de la Universidad Tecnológica José Antonio Echeverría (CUJAE), trabajadores del Ministerio del Turismo (MINTUR) y profesores generales integrales.

Por iniciativa propia y en alusión a noviembre de 1971, cuando Fidel Castro visitó el Chile de Salvador Allende, nombraron a la brigada “11/71”. Durante su estancia en el hospital se reportaron 15 casos positivos al Sars-Cov-2, mientras limpiaban, trasladaban medicamentos y hacían guardias nocturnas.

“Si todos tenemos el chance de ayudar y aportar para poder enfrentar la pandemia, tenemos que hacerlo en la trinchera donde nos toque. Fue la Sierra que nos tocó en este momento, el Moncada que nos tocó. Sencillamente había que estar”, dice Brossard.

El golpe fue fuerte desde el principio. El primer grupo que entró en el hospital incluso antes de ponerse los pijamas se encontró con un paciente positivo siendo trasladado. “Aquí evidentemente no estamos jugando, ni hablando de suposiciones y de que a lo mejor tienes o no tienes positivos en la sala. Aquí hay una alta probabilidad de tener contacto con enfermos”, se dijeron unos a otros.

Algunos padres dudaron, otros quisieron ir con sus hijos, hay padres que nunca se enteraron y otros lo descubrieron por redes sociales. Decirle a tus padres que renuncias a su protección y que te lanzas de cabeza a la piscina casi sin agua, solo es comprensible cuando estás convencido de que salvar, salva.

Sin experiencia previa en la rama de la Medicina, estos jóvenes se enfrentaron a todo tipo de situaciones. Hubo quien limpió, quien repartió comidas y hasta quien informó a pacientes que un familiar había fallecido. También se dio el caso de una enfermera que repartía los medicamentos quien se contagió pocos días antes de culminar el periodo de 14 días de trabajo. Ello implicó hacer un PCR de urgencia a todo el grupo y esperar ansiosos. “Pero no podíamos rendirnos. Los cubanos nunca se rinden”, te dicen hoy, sabiendo que volverían a entrar. De hecho, algunos ya han repetido.

Todos coinciden en la complicidad y la familia que crearon. El estar unidos les permitió cada día vencer a la COVID-19. También el humor y la sonrisa fueron indispensables entre las literas y cuartos que los acogieron casi por un mes.

“El grito de pantry”, por ejemplo, fue el nombre con que bautizaron a una de las ocurrencias de los muchachos encargados de repartir las comidas. Entre “gritos”, bromas e imitando un pregón pasaban animando a personas solas, acompañadas, de tres o 70 años. El humor les servía de bálsamo contra la incertidumbre.

Pero de noche, cuando terminaban las labores, volvían a ser solo jóvenes que demostraron que se puede jugar al Pictionary en la sala de tu casa con los amigos de toda la vida, y también a las 12 de la noche, con mascarilla, cansado, después de limpiar cada rincón posible y sentir el olor a cloro hasta en sueños. Que se puede hablar a través de las paredes para minimizar el contacto, bailar y cantar incluso cuando estás exhausto, que se puede ser feliz y tener miedo.

Desde todos los rincones

Desde todos los rincones y a veces hasta sin moverse de su mismo barrio, los jóvenes que estudian para ser diplomáticos también se sumaron a llevar comidas y medicinas a consejos en cuarentena o a personas mayores. Llegar a las colas para comprar de una vez decenas de panes o recoger varios tarjetones de farmacia fue la mañana de muchos de ellos.

Los sábados agrícolas también han formado parte de las últimas jornadas, así como confeccionar caretas de protección para el personal médico y los voluntarios. También donaron sangre, etiquetaron paquetes de alimentos, envasaron hipoclorito, hicieron pesquisas virtuales, organizaron colas, acondicionaron el centro de aislamiento de la Universidad de las Ciencias Informáticas (UCI) y trabajaron en él. Los jóvenes del ISRI se han establecido por municipios y no han tenido descanso en más de tres meses.

“Al principio sentí cierto temor al estar en zona roja, pero aprendimos rápido. Lo primero que me impresionó fue tener contacto con un lugar y un paciente con sospecha del virus, pero en mi mente me dije esto es algo que hay que hacer y pa´ lante”, dice Daniel Fernández, estudiante de cuarto año y voluntario en el centro de aislamiento de la UCI.

Hasta mitad de junio más de la mitad de los estudiantes del instituto se habían vinculado a tareas de enfrentamiento a la COVID-19 y una buena parte específicamente a labores productivas. Muchos sorprenden por haber participado en varias de las misiones. Detenerse nunca ha sido una opción, incluso para aquellos cuyas tesis los esperan en casa.

Han sido tiempos distintos y la estudiante de tercer año Amalia Rodríguez lo sabe. Acostumbrada a desfilar con sus padres cada Primero de Mayo, este lo pasó en un centro de aislamiento con posibles casos de una enfermedad altamente contagiosa.

“Pero se siente igual de correcto. Estamos trabajando para acabar con la pandemia, para que no tengamos que atender más pacientes, para que no tengan que terminar aquí, para que los médicos no colapsen, para que puedan volver a ver a su familia, para poder abrazar a mi mamá. Estar aquí es lo que toca. Yo no podría estar tranquila viendo que podía aportar y estar en mi casa”.

Según el Ministerio de Educación Superior más de 7 000 universitarios y 52 000 alumnos de Ciencias Médicas ayudaron en la lucha contra el nuevo coronavirus. “Lo más bonito fue tener una experiencia que por mi profesión nunca tendría, estar del lado de los médicos y enfermeros, ver lo que se siente cuando se salva una vida”, dice una de las jóvenes diplomáticas.

Hoy les quedan ampollas en los pies, manos desgastadas por el cloro, alergias, grupos de WhatsApp, fotos y videos. Mañana, cuando estén representando a Cuba en una misión, podrán contar ellos mismos de cómo una pequeña isla le dio una lección de solidaridad al mundo, dentro y fuera de sus fronteras.

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