Figli di un popolo eroico

Enrique Ubieta Gómez  www.granma.cu

Non siamo una ONG, siamo un paese. Non siamo un gruppo di matti, siamo un paese di matti.

Quando l’aereo è atterrato a L’Avana ed ha spento i motori, sapevamo che il popolo ci stava aspettando. Il popolo non è una parola astratta, è la nostra famiglia, sono i nostri vicini, i nostri colleghi di lavoro, sono le sue persone semplici e laboriose.

Eravamo nervosi, felici, in attesa. I ragazzi si sono sistemati i loro camici bianchi, simbolo di solidarietà, e si sono annodati goffamente le loro cravatte, come fidanzati per l’incontro finale. La porta si è aperta. I restanti passeggeri, cubani bloccati in Italia per mesi, hanno applaudito. Solo una signora, incapace di capire, ha osato dire: “chiedete che vi aumentino il salario”. Penso che abbia sentito la risposta nei nostri occhi.

Pochi minuti dopo calpestiamo la terra sacra dei nostri amori. Non siamo alieni, siamo figli di questa terra, della sua storia, dei suoi valori. Non siamo eroi -ci riempe di orgoglio, sì, ma ci spaventa la parola- perché l’eroismo comporta una certa esclusività; siamo i figli di un popolo eroico. Ecco perché, sebbene ad altre latitudini sembri strano o esagerato, il nostro Presidente ci ha dato il benvenuto. E le mogli, madri e figli di questi dottori ed infermieri, in un video precedentemente preparato, hanno issato una frase enigmatica per il sistema che compra e vende: “Siamo orgogliosi di voi”.

Durante il viaggio verso il luogo in cui passeremo la quarantena, ho pensato a quella fotografa italiana che voleva accompagnarci per catturare con la sua macchina e forse, chissà, per capire lei stessa, come era possibile, dov’era il segreto, la magia di quell’accoglienza , in pieno XXI secolo, a semplici mortali che non avevano appena vinto un campionato di calcio, né avevano messo piede sulla Luna. Avevano solo rischiato le loro vite, per salvare la vita di altri.

La risposta, spontanea, l’ho vista per strada. Per tratti non appariva gente, ho anche visto passare uno o due indifferenti, che non erano motivati ​​a salutare. Ma negli umili quartieri in cui è entrata la piccola carovana, la gente si precipitava fuori, ad acclamare i nuovi arrivati; dalle finestre delle loro case, o riuniti in fretta nei portali, intere famiglie, dal più piccolo membro al più vecchio, applaudivano con frenesia. In aree molto popolate, decine di vicini hanno aspettato ore per vederci passare. Come potrei dimenticare quelle scene? come potrei ignorare l’impegno che hanno implicato? Non sapevo, lo confesso, se prendere la macchina fotografica ed agire come giornalista, dalla posizione privilegiata del passeggero estraneo ai fatti, o lasciare che le emozioni riempissero i miei occhi, i miei sensi, ogni volta che un vecchio od un giovane, dopo aver applaudito si toccava ripetutamente il petto con la mano, offrendoci il suo cuore.

Mi chiedo se quella fotografa, un’eccellente professionista, sarebbe stata in grado di scattare le sue foto senza versare una lacrima. Che grande è il mio popolo! Quanta furia prova l’impero a non poter comprare quegli applausi. Vogliamo una vita decorosa e prospera, in corrispondenza del nostro lavoro e della nostra dedizione, in una qualsiasi delle professioni. Per questo, e poiché è lesivo per la nostra dignità, condanniamo il blocco.

Ma quegli applausi infondono paura agli egoisti, perché parlano di un mondo possibile, reale. I medici e gli infermieri cubani sono l’avanguardia di quel mondo.


Hijos de un pueblo heroico

 

No somos una ONG, somos un país. No somos un grupo de locos, somos un país de locos.

Cuando el avión aterrizó en La Habana, y detuvo sus motores, sabíamos que el pueblo nos esperaba. El pueblo no es una palabra abstracta, es nuestra familia, son nuestros vecinos, nuestros compañeros de trabajo, son su gente sencilla y trabajadora.

Estábamos nerviosos, contentos, expectantes. Los muchachos se arreglaron la bata blanca, símbolo de la solidaridad y se anudaron con torpeza la corbata, como novios para la cita definitiva. La puerta se abrió. Los restantes pasajeros, cubanos varados en Italia durante meses, aplaudieron. Solo una señora, incapaz de comprender, se atrevió a decir: “pidan que les suban el salario”. Creo que escuchó la respuesta en nuestros ojos.

Minutos más tarde pisamos la tierra sagrada de nuestros amores. No somos extraterrestres, somos los hijos de esta tierra, de su historia, de sus valores. No somos héroes –nos llena de orgullo, sí, pero nos asusta la palabra–, porque el heroísmo entraña cierta exclusividad; somos los hijos de un pueblo heroico. Por eso, aunque en otras latitudes parezca extraño, o exagerado, nuestro Presidente nos dio la bienvenida. Y las esposas, madres e hijos de estos médicos y enfermeros, en un video previamente elaborado, enarbolaron una frase enigmática para el sistema que compra y vende: ‘estamos orgullosos de ustedes’.

Durante el recorrido hasta el lugar donde pasaremos la cuarentena, pensé en aquella fotógrafa italiana que deseaba acompañarnos para captar con su lente, y quizás, quién sabe, para entender ella misma, cómo era posible, dónde estaba el secreto, la magia de aquel recibimiento, en pleno siglo XXI, a unos simples mortales que no acababan de ganar un campeonato de fútbol, ni habían pisado la Luna. Ellos solo habían arriesgado sus vidas, para salvar la de otros.

La respuesta, espontánea, la vi en la calle. Por tramos no aparecía gente, incluso vi pasar a uno o dos indiferentes, que no se sintieron motivados a saludar. Pero en los barrios humildes por donde la pequeña caravana se adentró, la gente se apresuraba a salir, a vitorear a los recién llegados; desde las ventanas de sus casas, o reunidos con premura en los portales, familias enteras, desde el integrante más pequeño hasta el más anciano, aplaudían con frenesí. En zonas muy pobladas, decenas de vecinos esperaron durante horas para vernos pasar. ¿Cómo podría olvidar esas escenas?, ¿cómo ignorar el compromiso que implicaban? No sabía, lo confieso, si tomar la cámara y actuar como reportero, desde la privilegiada posición del pasajero ajeno a los hechos, o dejar que las emociones colmaran mis ojos, mis sentidos, cada vez que un anciano o un joven, después de aplaudir, se tocaba repetidamente el pecho con su mano, ofreciéndonos el corazón.

Me pregunto si aquella fotógrafa, excelente profesional, hubiese sido capaz de hacer sus fotos sin derramar una lágrima. ¡Qué grande es mi pueblo! Cuánta furia siente el imperio al no poder comprar esos aplausos. Queremos una vida decorosa, próspera, en correspondencia con nuestro trabajo y nuestra entrega, en cualquiera de las profesiones. Por eso, y porque es lesivo a nuestra dignidad, condenamos el bloqueo.

Pero esos aplausos infunden miedo a los egoístas, porque hablan de un mundo posible, real. Los médicos y enfermeros cubanos son la vanguardia de ese mundo.

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