Caracas: la lotta contro il coronavirus è comunitaria

Marco Teruggi – Pagina|12 –  www.lantidiplomatico.it

Il gruppo di medici sale per le strade della collina del quartiere Lídice, a La Pastora, Caracas. La maggior parte di loro sono cubani, lavorano nel Centro de Diagnóstico Integral situato più in basso. Insieme a loro ci sono membri della Comuna Socialista Altos de Lídice. Passano in rassegna le case con possibili casi di covid-19, parlano con i vicini, disinfettano cancelli, finestre, porte, pareti.

Gran parte della Comuna è impegnata nella lotta contro la pandemia: test, percorsi, pedagogia dell’assistenza, accompagnamento delle famiglie, articolazione del sistema pubblico ai suoi diversi livelli, lavoro con il municipio. È un dispiegamento quotidiano che si interseca con tutti gli altri fronti. Dietro ogni porta ci sono esigenze, in particolare più in alto sulla collina, lì dove i veicoli non arrivano, le scale si restringono e pian piano il quartiere diventa una montagna.

“Abbiamo messo in marcia il sistema sanitario comunitario per affrontare la situazione, prenderci cura della popolazione, accompagnare le famiglie con casi positivi e anche fermare il contagio”, spiega Jesús García, uno dei principali portavoce della Comune.

Cinquemila abitanti vivono nel territorio della Comune. Ci sono già 9 casi positivi di covid-19, in un momento dove la curva sta crescendo a livello nazionale. I picchi di contagio si sono verificati giovedì, venerdì e sabato: rispettivamente 449, 650, 666, per un totale di 14.929 casi e 138 morti. La situazione è preoccupante: la velocità del contagio, si sa, può aumentare rapidamente.

L’aumento dei casi richiede un’espansione della logistica per far fronte alla situazione. Nella Comune, come in altri luoghi, quando si verifica un caso positivo, viene trasferito per essere messo in isolamento, se è asintomatico o per ricovero, se presenta sintomi e complicanze. La stragrande maggioranza dei ricoverati si trova nel sistema sanitario pubblico, sia negli ospedali sentinella, cioè quelli appositamente preparati per il covid-19, sia, in misura minore, in Centros de Diagnóstico Integral.

Le spese sono a carico dello Stato: test, trasferimento, isolamento per tutti i test rapidi positivi, ricovero, cibo. L’aumento dei casi mette sotto pressione un sistema sanitario che ha indietreggiato negli ultimi anni ed è stato rafforzato di fronte a questa emergenza con forniture provenienti da Cina, Russia e Cuba. Inoltre mette sotto pressione le capacità dello Stato di ospitare le persone infette, il che porta a cercare modi per rimodulare gli spazi per far fronte all’aumento delle infezioni e al loro conseguente isolamento.

La situazione in Venezuela presenta, inoltre, uno scenario più complesso: i confini e il ritorno via terra di migliaia di venezuelani. Quasi centomila sono entrati nel paese dall’inizio della pandemia, arrivando, soprattutto dalla Colombia, dall’Ecuador e dal Perù, tornando in molti casi con pochi effetti personali e avendo vissuto situazioni traumatiche. Fanno parte della massiccia emigrazione avvenuta negli ultimi anni che, di fronte alle avversità nei paesi di arrivo investiti dal coronavirus e alle recessioni economiche, hanno deciso o non hanno avuto altra scelta che tornare.

Questa migrazione ha comportato la necessità di installare dispositivi di attenzione alla frontiera da parte dello Stato, di eseguire gli esami, garantire la quarantena, il cibo e quindi tornare ai rispettivi Stati di origine. Questa politica ha incontrato due situazioni complesse: la maggiore domanda di fondi rispetto alla capacità di accoglienza giornaliera e i passaggi illegali, noti come trochas.

I ritorni hanno fatto parte dei fattori che aumentano la curva di contagio, sebbene la stragrande maggioranza dei casi sia attualmente dovuta a trasmissione comunitaria. Questo aumento si verifica dopo che il paese è stato in quarantena per più di quattro mesi, dopo aver dato un relativo allentamento in alcune parti, ma, nella capitale, dopo un tentativo e in vista dell’aumento delle infezioni, è stata reintrodotta la cosiddetta quarantena radicale.

Questo scenario si presenta nel contesto di persistenti difficoltà economiche, dove, secondo la Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi (CEPAL), la caduta del PIL venezuelano nel 2020 sarà del 26%, il settimo anno consecutivo di contrazione.

La scommessa del governo degli Stati Uniti è stata, in questo contesto, approfondire le misure di blocco sull’economia. Le sanzioni si sono concentrate negli ultimi mesi e settimane sull’impedire tutti gli scambi nel settore petrolifero venezuelano, colpendo compagnie petrolifere, compagnie di navigazione, navi, capitani, assicurazioni, per cercare di impedire a chiunque di toccare porti venezuelani o carburanti per paralizzare il paese e le entrate.

Tuttavia, come scritto in un recente del Washington Post: “L’amministrazione Trump sta ancora cercando di soffocare le esportazioni di petrolio del Venezuela e le importazioni di benzina, ma non ha più una coerente strategia di regime change”. Questa possibile mancanza di strategia visibile si verifica a pochi mesi dalle le elezioni statunitensi, con sondaggi che segnano una crescente preferenza per Joe Biden rispetto a Donald Trump.

Sembra certo, quindi, che, come annunciato da Elliot Abrams, il blocco continuerà ad aumentare e che nuove operazioni possano aver luogo in vari modi, come ad esempio la provocazione che si è verificata con l’ingresso furtivo di una nave militare del Comando Sud nelle acque territoriali venezuelane il 16 luglio, come denunciato dal ministero degli Esteri.

All’orizzonte ci sono le elezioni legislative del 6 dicembre, che saranno un punto centrale nel conflitto politico con le sue implicazioni nazionali e internazionali. Nel frattempo, nella Comune di Altos de Lídice continua il lavoro per affrontare il coronavirus e la serie di problemi esistenti. Non accade solo lì: il tessuto organizzativo nazionale costruito durante gli anni dal chavismo è schierato per combattere la pandemia.

Traduzione de l’AntiDiplomatico

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