Augusto Márquez https://medium.com/@misionverdad2012
Nei giorni scorsi si è appreso che una delegazione diplomatica del Regno di Norvegia è giunta in Venezuela per esplorare la sua situazione politica e sanitaria.
L’informazione è stata confermata in prima persona dall’esperto diplomatico e mediatore del paese nordico, Dag Halvor Nylander, attraverso il suo account Twitter.
Nylander era responsabile della mediazione della Norvegia al tavolo dei negoziati tra il governo venezuelano e l’opposizione, lo scorso anno, con sede nell’isola di Barbados ed Oslo, un solido sforzo diplomatico abortito dopo l’imposizione di un embargo petrolifero da parte dell’amministrazione Trump contro il Venezuela, il 5 agosto 2019.
Come sempre accade quando emerge il “fantasma del dialogo”, la corrente anti-chavista, riunita attorno al deputato Juan Guaidó, ha indicato, in modo affrettato, che non c’è nulla da dire al riguardo su un nuovo ciclo di negoziati.
I diplomatici norvegesi devono star chiedendosi per quale motivo questa dichiarazione, quando la loro missione, per quanto hanno dichiarato, è esplorativa e senza obiettivi definiti, per ora.
Guaidó ha dovuto uscire per calmare le gradinate di Twitter che gli hanno chiesto di rifiutare qualsiasi tentativo di negoziazione che potesse star considerando. Per evitare un nuovo linciaggio, l’incerto deputato ha affermato con la sua posizione che il percorso del settore che rappresenta è l’astensione dalle elezioni parlamentari, eseguendo gli ordini emanati da Washington.
Ma la dichiarazione di Guaidó non dimostra fermezza né forza, ma tutto il contrario.
Ci sono due eventi che segnano la linea di vita del deputato uscente: la pandemia di Covid-19 ed i movimenti di Trump. Entrambi i fattori tracciano un bivio che si restringe nella misura in cui avanza il clima politico verso le parlamentari.
Cominciamo con la pandemia.
L’emergenza sanitaria causata dal Covid-19 in Venezuela ha portato all’erosione della sua figura. Ma questa erosione, che si è andata intensificando dall’inizio dell’anno, non è simile a quella che si genera quando sono falliti, successivamente, i tentativi di colpo di stato contro Maduro.
Questa volta è molto più profonda e decisiva.
Prima della pandemia, Guaidó almeno poteva mantenere alcuni degli elementi che configuravano il suo simulacro come presidente fittizio: piccoli raduni a Caracas, viaggi all’estero per ottenere supporto diplomatico che lo facessero uscire dalla stagnazione ed altre azioni simili volte a dimostrare forza. Ma con la pandemia questa possibilità di simulare, con un fine in sé, è stata rovinata. È rimasto confinato alle dichiarazioni ed alle giocate di poca efficacia del suo computer, il che ha contribuito alla sua esclusione dalla mappa politica e mediatica.
D’altra parte, il Covid-19 ha ribaltato la situazione politica: le leve del potere, messe in discussione dall’avventura golpista guidata da Guaidó, si sono riubicate nel loro luogo di origine.
L’emergenza della pandemia ha richiesto un immenso dispiegamento a livello sanitario di tutte le istituzioni dello stato venezuelano, l’implementazione di un dispositivo di gestione territoriale e l’applicazione di una serie di protocolli straordinari per l’attenzione al Covid-19.
Guaidó aveva messo in dubbio il dispiegamento di questa autorità e la pandemia è giunta a spezzare il mito del suo “governo provvisorio”.
Il Covid-19 lo ha messo da parte, in quarantena politica e con credibilità asintomatica.
La disillusione si intensifica nei suoi seguaci, e ora deve amministrare quella poca benzina che gli rimane nel serbatoio per combattere contro i settori dell’opposizione che si strofinano le mani in attesa della sua caduta definitiva.
Di fronte alla cosiddetta “comunità internazionale”, il nome d’arte che ha preso, dal 2019, il sistema di vassallaggio internazionale di Washington, Guaidó è rimasto in una situazione pessima: mentre Maduro prende decisioni strategiche, guida la creazione di ospedali di emergenza, dirige i ritmi della quarantena e monopolizza l’informazione della pandemia che è riconosciuta all’esterno, il deputato si è andato convertendo in un altro utente youtub o Twitter dell’opposizione, senza alcuna capacità organica di decidere praticamente null’altro che non sia la gestione utilitaristica delle risorse rubate al paese.
L’altro fattore è Trump.
Qualche settimana fa ha affermato, in Florida, nel contesto delle cerimonie della sua campagna, che “Guaidó stava perdendo potere” e che loro (il governo) avrebbero sostenuto chiunque avesse il sostegno della gente. In semplice linguaggio politico, questa dichiarazione implica una stoccata per il deputato.
Trump, noto per la sua “arte della negoziazione”, (art of the deal), sembra aver fatto due passi indietro con l’obiettivo di mettere un nuovo elemento sullo scenario: il “progetto Guaidó” non è di marca presidenziale e si ascoltano delle nuove.
Trump ha ridotto, con tale dichiarazione, l’impegno pubblico del suo governo nei confronti di Guaidó. E la ragione per sostenerlo risiede nella sua figura pseudo-legale con cui Washington può gestire i beni venezuelani all’estero come meccanismo d’arricchimento illecito e pressione politica.
In questo contesto, a Guaidó non è rimasta altra scelta che porsi intransigente. E questo è dimostrato dalla sua rigida dichiarazione davanti ai mediatori norvegesi. È tornato a salire il tono di fronte ad un Trump che non si fida della sua credibilità.
Gioca alla posizione minacciosa per vedere se ciò contribuisce a recuperare la fiducia persa nel capo della Casa Bianca.
Il fallimento dell’Operazione Gedeon ha spezzato la fiducia e la convinzione nel “progetto Guaidó”.
Ma la verità è che è già troppo tardi ed a Washington non sanno bene come invertire la situazione che debilitano l’economia e le forniture del paese sono le uniche carte sul tavolo in assenza di un coerente piano a medio termine.
Guaidó sta lottando per rimanere a galla e dalla Casa Bianca, con il suo allontanamento, sono abbastanza chiari con il messaggio: o dai il colpo con gli strumenti a portata di mano e che potremmo fornirti o ci sarà un cambio di piani. Non può ripetersi quanto occorso con l’Operazione Gedeon.
La lotta di Guaidó è contro il tempo.
La cosa pericolosa è che in tale disperazione si architettano sempre le peggiori opzioni ed è forse ciò che, in ultima istanza, gioca Washington.
Da lì che il presidente Nicolás Maduro ha avvertito che, dalla Colombia, si addestrano cecchini per assassinarlo. Ci sono 15 milioni di $ sul tavolo e l’assassinio presidenziale è già stato istituzionalizzato dalla ricompensa offerta dal Dipartimento di Stato.
E Juan Guaidó sta facendo un’eccessiva promozione delle sue alleanze con il governo del Duque. Le opzioni criminali molto probabilmente si testano come un modo per reinterpretare questo momento di crisi nel progetto di cambio di regime.
Perché l’unica cosa che abbiamo di sicura è che a Guaidò, per salvare la sua pellaccia e rispettare gli impegni presi con gli USA, non importa firmare un documento e spendere risorse milionarie per rendere praticabili gli omicidi politici e condurre il paese ad una guerra. Ed il suo fallimento ha solo raddoppiato quella disperazione.
Sappiamo anche che non ha nulla da cercare nelle elezioni parlamentari.
La encrucijada final de Juan Guaidó y sus peligros
Por Augusto Márquez
En los últimos días se conoció que una delegación diplomática del Reino de Noruega llegó a Venezuela para explorar su situación política y sanitaria.
La información fue confirmada de primera mano por el experimentado diplomático y mediador del país nórdico, Dag Halvor Nylander, a través de su cuenta Twitter.
Nylander estuvo a cargo de la mediación de Noruega en la mesa de negociación entablada entre el gobierno venezolano y la oposición el año pasado, con sedes en isla de Barbados y Oslo, un sólido esfuerzo diplomático abortado luego de la imposición de un embargo petrolero por parte de la Administración Trump contra Venezuela el 5 de agosto de 2019.
Como ocurre siempre que emerge el “fantasma del diálogo”, la corriente antichavista nucleada alrededor del diputado Juan Guaidó ha indicado, de forma apresurada, que no hay nada que hablar con respecto a un nuevo ciclo de negociaciones.
Los diplomáticos noruegos deben estar preguntándose a qué viene esa declaración, cuando su misión, según han declarado, es exploratoria y sin objetivos definidos por ahora.
Guaidó tuvo que salir a calmar las gradas de Twitter que le pedían negarse a cualquier intento de negociación que pudiera estar planteando. Para evitar un nuevo linchamiento, el desdibujado diputado afirmó con su postura que el camino del sector que representa es la abstención de cara a las parlamentarias, cumpliendo con las órdenes emanadas desde Washington.
Pero la declaración de Guaidó no demuestra firmeza ni contundencia, sino todo lo contrario.
Hay dos eventos que marcan la línea de vida del diputado saliente: la pandemia de Covid-19 y los movimientos de Trump. Ambos factores dibujan una encrucijada que se achica a medida que avanza el clima político hacia las parlamentarias.
Empecemos por la pandemia.
La emergencia sanitaria provocada por el Covid-19 en Venezuela ha derivado en la erosión de su figura. Pero esta erosión, que ha ido en escalada desde principios de año, no es similar a la que se genera cuando han fallado sucesivamente los intentos de golpe de estado contra Maduro.
Esta vez es mucho más profunda y decisiva.
Antes de la pandemia, Guaidó al menos podía mantener algunos de los elementos que configuraban su simulacro como presidente ficticio: pequeñas concentraciones en Caracas, viajes al extranjero para conseguir respaldo diplomático que lo sacaran del estancamiento y otras actuaciones similares orientadas a demostrar fuerza. Pero con la pandemia esta posibilidad de simular como un fin en sí mismo se ha ido al traste. Ha quedado confinado a declaraciones y jugadas de poca efectividad desde su computadora, lo que ha contribuido a su exclusión del mapa político y mediático.
Por otro lado, el Covid-19 le ha dado un giro a la situación política: las palancas del poder, cuestionadas por la aventura golpista encabezada por Guaidó, se han reubicado en su lugar de origen.
La emergencia de la pandemia ha requerido un inmenso despliegue a nivel sanitario de todas las instituciones del estado venezolano, la puesta en marcha de un dispositivo de gestión territorial y la aplicación de un conjunto de protocolos extraordinarios para la atención del Covid-19.
Guaidó había cuestionado el despliegue de esta autoridad y la pandemia ha venido a romper el mito de su “gobierno interino”.
El Covid-19 lo ha dejado a un lado, en cuarentena política y con una credibilidad asintomática.
En sus seguidores se intensifica la desilusión, y ahora debe administrar la poca gasolina que le queda en el tanque para pelear contra los sectores opositores que se soban las manos esperando su caída definitiva.
Frente a la denominada “comunidad internacional”, el nombre artístico que ha tomado desde el año 2019 el sistema de vasallaje internacional de Washington, Guaidó ha quedado en una situación pésima: mientras Maduro toma decisiones estratégicas, orienta la creación de hospitales de emergencia, dirige los ritmos de la cuarentena y monopoliza la información de la pandemia que es reconocida puertas afuera, el diputado se ha ido convirtiendo en un youtuber o tuitero más de la oposición, sin capacidad orgánica de decidir sobre prácticamente nada que no sea la gestión utilitaria de los recursos robados al país.
El otro factor es Trump.
Hace unas semanas dijo en Florida, en el marco de sus actos de campaña, que “Guaidó estaba perdiendo poder” y que ellos (el gobierno) apoyarían a quien tuviese el respaldo de la gente. En lenguaje político simple, esa declaración implica una estocada para el diputado.
Trump, conocido por su “arte de la negociación” (art of the deal), parece que dio dos pasos para atrás con el objetivo de poner un nuevo elemento sobre el escenario: el “proyecto Guaidó” no es de autoría presidencial y se escuchan nuevas.
Trump redujo con esa declaración el compromiso público de su gobierno con respecto a Guaidó. Y la razón para sostenerlo radica en su figura pseudolegal con la que Washington puede gestionar los activos venezolanos en el extranjero como mecanismo de enriquecimiento ilícito y presión política.
En este marco, a Guaidó no le ha quedado de otra que ponerse intransigente. Y esto lo demuestra su acartonada declaración frente a los mediadores noruegos. Ha vuelto a subir el tono frente a un Trump que desconfía de su credibilidad.
Juega a la postura amenazante para ver si ello contribuye a recuperar la confianza perdida en el mandamás de la Casa Blanca.
El fracaso de la Operación Gedeón ha fracturado la confianza y el convencimiento en el “proyecto Guaidó”.
Pero lo cierto es que ya es demasiado tarde y en Washington no saben muy bien cómo darle la vuelta a la situación. Las sanciones que debilitan la economía y los suministros del país son las únicas cartas sobre la mesa a falta de un plan coherente al mediano plazo.
Guaidó lucha por mantenerse a flote y desde la Casa Blanca, con su alejamiento, están siendo bastante claros con el mensaje: o das el golpe con los instrumentos que tienes a la mano y que podríamos proveerte o habrá un cambio de planes. No puede repetirse lo de la Operación Gedeón.
La pelea de Guaidó es contra el tiempo.
Lo peligroso es que en ese desespero siempre se fraguan las peores opciones y es quizás a lo que juega Washington en última instancia.
De ahí que el presidente Nicolás Maduro advirtiera que desde Colombia se entrenan francotiradores para asesinarlo. Hay 15 millones de dólares sobre la mesa y el magnicidio presidencial ya ha sido institucionalizado por la recompensa ofrecida por el Departamento de Estado.
Y Juan Guaidó está haciendo una promoción excesiva de sus alianzas con el gobierno de Duque. Las opciones criminales muy seguramente se tantean como una forma de reinterpretar este momento de crisis en el proyecto de cambio de régimen.
Porque lo único que tenemos por seguro es que a Guaidó, para salvar su pellejo y cumplir los compromisos adquiridos con Estados Unidos, no le importa firmar un documento y erogar recursos millonarios para viabilizar asesinatos políticos y llevar al país a una guerra. Y su fracaso solo ha duplicado esa desesperación.
También sabemos que no tiene nada que buscar en unas elecciones parlamentarias.