Bolivia, storia di un golpe

di Lorenzo Poli  www.ilperiodista.it

Tra rinvii e proteste, la Bolivia si avvia verso le elezioni. Ma dietro la rimozione di Evo Morales e l’insediamento del governo provvisorio c’è un golpe che viene da lontano. Dal socialismo indigeno e il boom economico agli appetiti delle multinazionali sui minerali boliviani. Fino alle violenze dell’estrema destra, che ha rovesciato senza legittimità il presidente eletto, con la complicità dei principali media. E ora?

Il governo di Evo Morales in Bolivia

Prima che il Mas (Movimiento al Socialismo) andasse al governo nel 2006, il 35% della popolazione boliviana viveva sotto la soglia di povertà.

L’accesso alle cure sanitarie era limitato e vigevano forti disuguaglianze sociali.

L’ascesa di Evo Morales, vincitore delle presidenziali il 18 dicembre 2005, ha inaugurato una stagione di riforme sociali e infrastrutturali, con la costruzione di ospedali e altre opere al servizio della popolazione.

La messa a nuovo di reti stradali è diventato il pilastro fondamentale dell’economia della Bolivia, priva di sbocchi sul mare: il commercio infatti passa esclusivamente su gomma.

Negli anni del socialismo indigeno, durato fino all’ottobre 2019, la povertà è stata sensibilmente ridotta (dal 35% al 18%) e sono iniziati i processi di nazionalizzazione di gas, idrocarburi e giacimenti naturali.

Le attività estrattive iniziate dal governo di Morales hanno consentito al Paese di investire e di essere uno dei primi costruttori di auto elettriche sotto controllo pubblico, con l’obiettivo di redistribuire le ricchezze derivanti dalla loro produzione.

Nel Paese c’è stato un boom economico: il PIL è cresciuto del 5%, la disoccupazione scesa al 3%, l’inflazione al 4,5%.

Il salario minimo nazionale, in 13 anni, è stato rivalutato del 400%.

Per cinque anni consecutivi, fino al 2019, la Bolivia ha registrato la più alta crescita economica in America Latina, con un aumento della produzione di energia rinnovabile per sostituire l’uso di gas.

Un golpe per i minerali? Gli appetiti delle multinazionali e il ruolo di Luis Fernando Camacho

Dietro il golpe del 2019 si celano anche gli interessi del capitalismo globale sui minerali boliviani: litio, gas, cobalto, uranio e oro, solo per citarne alcuni.

Gli interessi delle grandi corporations industriali e finanziarie – internazionali e boliviane – non sono stati certo al centro dell’azione di governo di Morales. Anzi.

La nazionalizzazione del gas e la conseguente centralizzazione produttiva nella Compañía Yacimientos Petrolíferos Fiscales Bolivianos hanno decisamente scontentato i privati.

Tra i più colpiti dalla nuova strategia economica, il gruppo Sergas, che monopolizzava la vendita del gas a Santa Cruz prima del decreto di nazionalizzazione. Caso vuole che questo gruppo, meglio conosciuto come Compañia Camacho, fosse di proprietà del padre di Luis Fernando Camacho, che dal 2005 pianificava progetti di sovversione paramilitari: insieme alla setta Los Caballeros del Oriente, Camacho è stato tra i fautori delle Milicias nella provincia di Santa Cruz (dei gruppi paramilitari addestrati per scatenare la guerriglia separatista).

Nel 2016, con la Estrategia Nacional de Industrialización, il governo socialista aveva previsto grandi progetti industriali per minerali come il litio o il cloruro di potassio, oltre all’estrazione di nuovi minerali come cobalto e uranio. Questo avrebbe permesso di approvare nel 2025 il Programa Civil de Energia Nuclear: due miliardi di dollari per costruire due centrali nucleari, preparando possibili accordi di cooperazione con Argentina, Russia, Francia e Iran.

Il governo avrebbe reinvestito nel sociale gli immensi guadagni ottenuti con la vendita e l’industrializzazione dei minerali strategici, senza la presenza delle multinazionali statunitensi.

Ma i principali media boliviani avevano abituato da dieci anni la popolazione a un possibile golpe, attraverso una dura campagna anti-Morales. Interamente privati, schierati a destra e dichiaratamente contro il Mas, i media non hanno mai dato la notizia degli incontri riservati tra Camacho e rappresentanti di varie multinazionali minerarie statunitensi, come Alcoa, Asarco, Newmont Mining Corporation, Southern Copper e Anaconda Copper, durante le elezioni di ottobre.

I giorni del golpe

Ottobre 2019: già prima delle elezioni, le Milicias paramilitari di Camacho, finanziate dal Comité Civico de Santa Cruz, danno vita ad azioni terroristiche machiste e anti-indigeniste con il fine di generare una forte situazione d’instabilità. Gli attacchi si espandono nelle principali città della Bolivia subito dopo l’annuncio della vittoria del Mas.

Il golpe viene realizzato il 10 novembre 2019, sebbene il presidente Evo Morales avesse annunciato nuove elezioni prima del 22 gennaio 2020, proprio come avevano richiesto Luis Almagro, segretario dell’Oea, e Federica Mogherini, alto rappresentante dell’UE per gli Esteri.

Tra i molti partecipanti al colpo di stato, il comandante in capo delle Fuerzas Armadas de Bolivia, generale Williams Kaliman, insieme al comandante generale della polizia Vladimir Yuri Calderón. Il tutto armonizzato da Carlos Mesa, presidente della Bolivia dall’ottobre 2003 – dopo le dimissioni e la fuga negli Usa dell’ex presidente Gonzalo Sánchez de Lozada – al giugno 2005.

Era stato Carlos Mesa, in qualità di vice di Sánchez de Lozada, a negoziare le privatizzazioni con le multinazionali, autorizzando l’aumento delle tariffe del gas.

La sua presidenza si è distinta per aver represso nel sangue i manifestanti che protestavano contro gli aumenti dei prezzi del gas dopo le privatizzazioni.

Disordini che hanno provocato 80 morti e 523 feriti.

Una narrazione (quasi) a senso unico: i media contro gli studiosi

I media internazionali hanno sostenuto apertamente i golpisti. Per Bbc, Vox, Voice of America, Abc News, Cbs News, New York Times, Fox News e Miami Herald all’unisono, Evo Morales «si è dimesso» a causa di proteste della popolazione, indignata per la «frode elettorale» e per il tentativo di instaurare un «colpo di stato» attraverso «brogli elettorali».

Una narrazione fondata acriticamente sulle dichiarazioni dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), di base a Washington, nonostante la mancanza di prove a sostegno dei brogli elettorali attribuiti al Mas. Dopo le elezioni in Bolivia, inoltre, i media statunitensi non hanno dato notizia del rapporto del Center for Economic and Policy Research (Cepr), anch’esso con sede a Washington, secondo il quale i risultati delle elezioni erano «coerenti» con i dati generali.

Ma di studi indipendenti che negano la fondatezza delle accuse di broglio, mosse dall’Osa nei confronti del Mas (e che hanno portato al dilagare delle violenze sfociate nel golpe) ce ne sono anche altri: su tutti quello rilanciato dal New York Times lo scorso giugno e quello di tre mesi prima condotto per il Mit di Boston, rilanciato dal Washington Post.

Eppure, sulla base delle accuse formulate dall’Osa, si sono taciuti per mesi violenze, torture, rapimenti di deputati, saccheggi (tra cui la casa di Morales) e incendi di edifici pubblici.

La presidente autoproclamata, tra Bibbia e repressione

Jeanine Añez, senatrice dei Democràtas, partito conservatore che ha conquistato quattro seggi in Parlamento alle elezioni del 2019, si è autoproclamata presidente ad interim, mentre in Occidente veniva spacciata come «volto nuovo della politica boliviana».

Nei giorni successivi il comandante Williams Kaliman, insieme alla policia nacional ha offerto il suo appoggio a Jeanine Añez per «controllare le orde dei masistas», cioè i militanti del Movimento al Socialismo di Morales, che chiedevano il rispetto del voto elettorale. Il suo ruolo è stato quello di instaurare la ricetta neoliberista, fondata su Dio, patria, famiglia e affari.

Non a caso durante il suo insediamento, avvenuto il 12 novembre 2019, Añez ha giurato sulla Bibbia, affermando che il cristianesimo dovesse tornare al governo e che le popolazioni andine dovessero essere «esorcizzate» con riti ecclesiastici in quanto veneratrici di Pachamama, il tradizionale culto indigeno di Madre Terra.

Affermazioni cui è seguita la repressione delle proteste per opera di un settore delle forze armate, della polizia e dell’estrema destra.

Añez, non paga, ha fatto chiudere emittenti radio e tv come TeleSur Bolivia, la cui presenza era una spina nel fianco per i golpisti, spianando la strada alla monopolizzazione del litio e di altri minerali da parte delle corporations.

Verso le elezioni (governo permettendo)

Fissate inizialmente per il 3 maggio 2020, le elezioni che sanciranno il nuovo presidente della Bolivia sono state rinviate una prima volta per il coronavirus, che nel Paese sudamericano ha colpito anche la presidente ad interim Añez.

La nuova data, però, individuata nel 6 settembre, è stata anch’essa sconfessata: il Tribunale supremo elettorale ha rinviato una seconda volta le presidenziali, questa volta al 18 ottobre, con eventuale ballottaggio previsto per il 29 novembre.

Una decisione fortemente contestata in Bolivia, dove i lavoratori hanno indetto uno sciopero per protestare contro il rinvio, accusando il governo provvisorio di ritardare artificialmente l’esercizio democratico per timore di perdere il potere.

Secondo i sondaggi, infatti, a guidare le intenzioni di voto è il Mas, che candida alla presidenza Luis Arce, ministro dell’Economia nel governo di Morales.

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