La formula del golpe contro il Venezuela si esaurisce

gli USA in un vicolo cieco

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Quando l’amministrazione di Donald Trump ha assunto il cambio di regime in Venezuela come una priorità della politica estera USA, ha prodotto una strategia che, pensava, poteva raggiungere il suo scopo in pochi mesi. La realtà ha polverizzato quel piano, essendo il “progetto Guaidó” un grave fallimento per la Casa Bianca e che sta dando i suoi frutti nell’attualità venezuelana.

Detta “strategia” consisteva nell’applicazione di misure coercitive unilaterali, mal chiamate sanzioni, come meccanismo per fare pressione sul governo di Nicolás Maduro e sulla popolazione venezuelana attraverso il furto ed il congelamento di risorse finanziarie, economiche, commerciali e di beni nell’arena internazionale.

Insieme a ciò, si pretendeva far leva sulla figura di Juan Guaidó come governante ufficiale del Venezuela al di sopra dell’attuale governo, sotto una trama narrativa ed acrobatica che cade da solo di fronte alla Costituzione della Repubblica Bolivariana. Il tutto con l’obiettivo di usare il “governo ad interim” come punta di diamante per il sequestro e la persecuzione dei beni all’estero e cercare di eliminare uno scenario politico e di stabilità in cui gli USA si sentono più a loro agio per manovrare a proprio favore.

Non è un caso che il “progetto Guaidó” e la politica sanzionatoria della Casa Bianca sono criticate non solo dalle vittime del Venezuela ma anche da altri fattori che reclamano un posto nel centro politico USA, in esplicito dal Partito Democratico. Le imminenti elezioni presidenziali nel Nord sono lo scenario ideale affinché alcuni settori dell’establishment di quel paese puntino le loro batterie argomentative contro il magnate presidente Trump.

I democratici nel mezzo

Mentre la politica estera di Trump sul Venezuela si vede esaurita dalle attuali circostanze, il Partito Democratico approfitta della situazione per minare tutti gli argomenti che il Partito Repubblicano potrebbe impugnare riguardo alla strategia golpista.

Il 4 agosto la postura discorsiva del senatore democratico Chris Murphy, davanti alla Commissione per le Relazioni Estere del Senato, è stata molto acclamata, nella quale ha qualificato come “negligenza diplomatica” la posizione pratica del Dipartimento di Stato e del governo repubblicano. Durante l’udienza, Murphy ha caratterizzato il “progetto Guaidó” e lo ha criticato, al punto che ha accettato che, l’anno scorso, gli USA abbiano tentato di promuovere un golpe militare contro Maduro che è risultato una “debacle” per la strategia USA.

Il senatore del Connecticut ha chiarito che i progetti di Elliot Abrams, John Bolton, Mike Pompeo, Marco Rubio e Donald Trump sul Venezuela sono culminati in un “disastro totale”, con il governo di Nicolás Maduro ancora in piedi e con una crisi indotto dal blocco e dall’embargo dell’economia e delle finanze venezuelane da parte di Washington.

La scorsa settimana, Argus Media ha pubblicato una bozza del documento ufficiale sulle promesse del Partito Democratico in merito al Venezuela se Joe Biden, il candidato scelto dall’establishment del partito, riuscisse a sconfiggere elettoralmente Donald Trump.

I democratici promettono di “abbandonare la politica del presidente Donald Trump sul Venezuela e concentrarsi sull’affrontare i bisogni umanitari del popolo venezuelano”, afferma il documento che sarà presentato alla convention virtuale del partito questo agosto.

Un aspetto importante della bozza è che non specifica se gli USA, sotto la guida di Biden, “riconsidererebbero il loro riconoscimento della pretesa di potere del leader dell’opposizione venezuelana, Juan Guaidó”, un argomento che non può essere ignorato se si tiene conto che all’inizio di quest’anno il deputato, ora ex Voluntad Popular, è stato applaudito da democratici e repubblicani durante la sua visita al Congresso.

Essendo Guaidó un prodotto fabbricato ai fini della strategia armata dal Consiglio di Sicurezza Nazionale di Trump, un ipotetico riconoscimento democratico alla sua figura (con Biden vincere le elezioni) significherebbe ammettere nuovamente la strategia che stanno criticando come “disastrosa”.

La pretesa di cambiare la politica estera USA sul Venezuela, da parte degli antagonisti dell’attuale amministrazione avrebbe, sempre secondo quanto pubblicato da Argus Media, una svolta di 260 gradi.

“I democratici credono che la migliore opportunità per salvare la democrazia del Venezuela sia attraverso una pressione intelligente ed una diplomazia efficace, non minacce vuote e bellicose senza legami a scopi politici realistici e motivati da obiettivi partitici nazionali”, afferma il documento del partito.

È probabile che, riferendosi ad una “diplomazia efficace”, un possibile governo Biden cerchi di mettere in comunione una pressione internazionale ancora più pesante sui meccanismi che sono stati attivati ​​per creare uno scenario politico alla crisi istituzionale che il Venezuela sta vivendo, sia il dialogo mediato dal governo norvegese (e alcuni fattori del dell’Unione Europea) o l’iniziativa lanciata dall’Uruguay e Messico lo scorso anno.

In un evento dell’8 luglio, i Democratici hanno presentato la “Visione dell’ex vicepresidente per il Venezuela ed i venezuelani negli USA”, in cui si è appreso che gli unici due temi su cui differiscono entrambi i candidati alla presidenza sul destino dei venezuelani sono:

-Il TPS o status di protezione temporaneo. Biden sostiene un disegno di legge per proteggere i migranti venezuelani dalla deportazione che è stato bloccato da Donald Trump.

-Il muro di confine con il Messico. Biden ha promesso che la sua costruzione avrebbe smesso di essere finanziata con i 601 milioni di dollari saccheggiati al Venezuela via Guaidó.

Altri gruppi spingono per un cambiamento strategico

Esistono altre fazioni che, formalmente indipendenti dall’establishment bipartitista, hanno interesse a che il chavismo smetta di governare in Venezuela.

Sono organizzazioni non governative, fondazioni e think tank con sede negli USA che mantengono una costante copertura del conflitto venezuelano e propongono un’altra roadmap, diversa da quella adottata dall’amministrazione Trump. Sempre con l’obiettivo di sostenere una “transizione democratica”, altro nome per il cambio di regime.

Il capitolo Venezuela dell’Ufficio a Washington per gli Affari Latinoamericani (WOLA) ha tre ricercatori ed analisti che, insieme ad altri attori che partecipano ai dibattiti sul paese come Francisco Rodríguez e Michael Penfold, hanno preso una posizione contraria alla strategia delle misure coercitive unilaterali.

Sebbene siano attori legati al campo politico, i membri di WOLA Venezuela non appartengono alla classe politica USA; piuttosto, lo scopo della loro organizzazione è influenzare le decisioni del governo USA.

Sul suo sito web, chiarisce: “WOLA promuove una soluzione pacifica e democratica della crisi, sostiene politiche che affrontino le imminenti necessità umanitarie del popolo venezuelano e promuove la creazione di maggiori protezioni per i migranti ed i rifugiati venezuelani”.

Sia la proposta di WOLA che la promessa del Partito Democratico sul Venezuela condividono alcuni paradigmi discorsivi: il tema umanitario e l’agenda migratoria, specialmente nel territorio USA.

Ciò che divide la strategia dell’amministrazione Trump e la “visione” di Biden di WOLA e Francisco Rodríguez è l’uso delle “sanzioni”, la cui capacità distruttiva sulla società è già ben nota dalle relazioni e rapporti ufficiali all’ONU ed altri organismi non governativi.

L’istituzione con sede a Washington propone, in ugual forma, una “transizione negoziata”, sostenuta dalla presa anti-chavista del “campo democratico”, e che deve essere sostenuta dal una “diplomazia attiva”. Questi sono altri punti che possiamo riconoscere nel programma democratico pre-elettorale.

Allo stesso modo, il Wilson Center, per mano di Michael Penfold come “fellow” (membro selezionato ndt), mantiene una linea simile, promuove una “uscita negoziata” del governo di Nicolás Maduro, accompagnata da una critica al blocco economico-finanziario-commerciale come politica estera USA.

In una recente intervista, Penfold, esperto di politiche pubbliche e pianificazione strategica, dichiara che il “progetto Guaidó” si conclude in Venezuela con le prossime elezioni parlamentari, indette in base agli accordi raggiunti al Tavolo di Dialogo Nazionale.

L’anche professore dell’IESA ritiene che il dialogo sia l’opzione per sbloccare il “problema istituzionale” nello stato venezuelano, e le elezioni devono essere tenute, tuttavia la divisione nell’opposizione è un punto chiave che, a suo avviso, provocherebbe un mancato riconoscimento delle elezioni davanti alla scena internazionale.

Affinché un tale dialogo possa concretizzarsi, accetta Penfold, deve esserci una prerogativa che è stata sollevata dal presidente Maduro: la revoca delle misure coercitive unilaterali USA. Solo all’interno di quel quadro, dice, può avvenire una “transizione”.

È possibile che alcuni decisori a Washington prendano atto di alcuni suggerimenti strategici, ma al di là di un cambio di posizione, che il Partito Repubblicano non è disposto ad ammettere per i costi politici in un contesto elettorale, non c’è una svolta che garantisca una certa stabilità alla Repubblica Bolivariana ed alla sua popolazione, poiché nel mirino è sempre il cambio di regime, in una forma o nell’altra, anche quando si celebrino elezioni nel quadro della Costituzione della Repubblica Bolivariana.

A questo punto, una svolta nella politica estera USA è possibile solo con un cambio di amministrazione alla Casa Bianca, tuttavia i Democratici non concedono varie sfumature alla strategia venezuelana, al di là d’invocare una “diplomazia” gringa che, di sicuro, alla luce delle leggi internazionali manca di una coerente rappresentanza con Mike “Abbiamo rubato, ingannato, mentito” Pompeo a capo, in un vicolo cieco.

Ma noi venezuelani/e non possiamo essere indotti in inganno.


La fórmula del golpe contra Venezuela se agota: EEUU en un callejón sin salida

Cuando la administración de Donald Trump asumió el cambio de régimen en Venezuela como una prioridad de la política exterior estadounidense, produjo una estrategia que, pensó, podía lograr su cometido en tan solo unos meses. La realidad ha vapuleado ese plan, siendo el “proyecto Guaidó” un fracaso mayor para la Casa Blanca y que cobra sus frutos en la actualidad venezolana.

Dicha “estrategia” consistió en la aplicación de medidas coercitivas unilaterales, mal llamadas sanciones, como mecanismo para presionar al gobierno de Nicolás Maduro y a la población venezolana mediante el robo y congelación de recursos financieros, económicos, comerciales y de bienes en la arena internacional.

Junto a esto se pretendía apalancar la figura de Juan Guaidó como el gobernante oficial de Venezuela por sobre el gobierno actual, bajo una trama narrativa y acrobática que se cae por sí sola ante la Constitución de la República Bolivariana. Todo con el objetivo de usar al “gobierno interino” como una punta de lanza para el secuestro y persecución de activos en el exterior e intentar eliminar un escenario político y de estabilidad donde Estados Unidos se siente más cómodo para maniobrar a su favor.

No es una casualidad que el “proyecto Guaidó” y la política sancionatoria de la Casa Blanca esté siendo criticada no solo por las víctimas de Venezuela sino por otros factores que reclaman un lugar en el centro político estadounidense, en específico desde el Partido Demócrata. Las venideras elecciones presidenciales en el Norte son el escenario ideal para que ciertos sectores del establishment de ese país apunten sus baterías argumentativas contra el magnate presidente Trump.

Los demócratas en el medio

Mientras que la política exterior de Trump sobre Venezuela se ve agotada por las actuales circunstancias, el Partido Demócrata aprovecha la coyuntura para minar todos los argumentos que el Partido Republicano pudiera esgrimir en torno a la estrategia golpista.

Fue muy aclamada la postura discursiva del senador demócrata Chris Murphy ante el Comité de Relaciones Exteriores del Senado el 4 de agosto, en la que calificó de “negligencia diplomática” la postura práctica del Departamento del Estado y del gobierno republicano.

Durante la audiencia, Murphy hizo una caracterización del “proyecto Guaidó” y lo criticó, al punto de que aceptó que el año pasado Estados Unidos intentó impulsar un golpe militar contra Maduro que resultó en una “debacle” para la estrategia estadounidense.

El senador por Connecticut dejó muy en claro que los designios de Elliot Abrams, John Bolton, Mike Pompeo, Marco Rubio y Donald Trump sobre Venezuela han culminado en un “desastre total”, con el gobierno de Nicolás Maduro aún en pie y con una crisis inducida por el bloqueo y embargo de la economía y finanzas venezolana por parte de Washington.

La semana pasada, Argus Media publicó un borrador del documento oficial sobre las promesas del Partido Demócrata en torno a Venezuela si Joe Biden, el candidato elegido por el establishment del partido, logra derrotar electoralmente a Donald Trump.

Los demócratas prometen “abandonar la política de Venezuela del presidente Donald Trump y centrarse en abordar las necesidades humanitarias del pueblo venezolano”, dice el documento que será presentado en la convención virtual del partido este mes de agosto.

Un aspecto importante del borrador es que no especifica si Estados Unidos, bajo el liderazgo de Biden, “reconsideraría su reconocimiento del reclamo al poder del líder de la oposición venezolana, Juan Guaidó”, un tópico que no se puede ignorar si tomamos en cuenta que a principios de este año el diputado, ahora ex Voluntad Popular, fue aplaudido por demócratas y republicanos en su visita al Congreso.

Siendo Guaidó un producto fabricado para los fines de la estrategia armada por el Consejo de Seguridad Nacional de Trump, un hipotético reconocimiento demócrata a su figura (de Biden ganar las elecciones) significaría admitir de nuevo la estrategia que están criticando por “desastrosa”.

La pretensión de cambiar la política exterior estadounidense sobre Venezuela por parte de los antagonistas de la actual administración tendría, siempre según lo publicado por Argus Media, una vuelta de tuerca de 260 grados.

“Los demócratas creen que la mejor oportunidad para rescatar la democracia de Venezuela es a través de una presión inteligente y una diplomacia efectiva, no amenazas vacías y belicosas sin ataduras a metas políticas realistas y motivadas por objetivos partidistas nacionales”, dice el documento del partido.

Es probable que, al referirse a “diplomacia efectiva”, un posible gobierno de Biden busque comulgar una presión internacional aún más agravada sobre los mecanismos que han sido activados para aterrizar un escenario político a la crisis institucional que experimenta Venezuela, sea el diálogo mediado por el gobierno de Noruega (y algunos factores de la de la Unión Europea) o la iniciativa lanzada por Uruguay y México el año pasado.

En un evento del 8 de julio, los demócratas presentaron la “Visión del ex vicepresidente para Venezuela y los venezolanos en los Estados Unidos”, en el que se pudo conocer que los dos únicos temas en los que difieren ambos candidatos presidenciales sobre el destino de los venezolanos son:

El TPS o estatus de protección temporal. Biden apoya un proyecto de ley para proteger de la deportación a migrantes venezolanos que está siendo bloqueado por Donald Trump.

El muro fronterizo con México. Biden prometió que su construcción dejaría de ser financiada con los 601 millones de dólares saqueados a Venezuela vía Guaidó.

Otros grupos pujan por el cambio estratégico

Existen otras facciones que, formalmente independientes del establishment bipartidista, tienen interés en que el chavismo deje de gobernar en Venezuela.

Son organizaciones no gubernamentales, fundaciones y tanques de pensamiento radicados en Estados Unidos que mantienen una cobertura constante del conflicto venezolano y proponen otra hoja de ruta diferente a la tomada por la Administración Trump. Siempre con el objetivo de apoyar una “transición democrática”, otro nombre para el cambio de régimen.

El capítulo Venezuela de la Oficina en Washington para Asuntos Latinoamericanos (WOLA, sus siglas en inglés) cuenta con tres investigadores y analistas que, junto a otros actores que participan en los debates referidos al país como Francisco Rodríguez y Michael Penfold, han posicionado una postura contraria a la estrategia de medidas coercitivas unilaterales.

Aunque son actores relacionados con el campo político, los miembros de WOLA Venezuela no pertenecen a la clase política estadounidense; más bien, el fin de su organización es la de influir en las decisiones del gobierno de Estados Unidos.

En su web, aclara: “WOLA promueve una solución pacífica y de­mocrática de la crisis, apoya las políticas que abordan las inminentes necesidades humanitarias del pueblo venezolano, y promueve la creación de mayores protecciones para los migrantes y refugiados venezolanos”.

Tanto la propuesta de WOLA como la promesa del Partido Demócrata sobre Venezuela comparten algunos paradigmas discursivos: el tema humanitario y la agenda migratoria, sobre todo en el territorio estadounidense.

Lo que escinde la estrategia de la administración Trump y la “visión” de Biden de WOLA y Francisco Rodríguez es el uso de las “sanciones”, cuya capacidad destructiva sobre la sociedad es ya harto conocida por informes y reportes oficiales ante las Naciones Unidas y otros organismos no gubernamentales.

La institución radicada en Washington plantea, de igual forma, una “transición negociada”, apuntalada por la toma antichavista del “campo democrático”, y que debe ser apoyada por una “diplomacia activa”. Estos son otros puntos que podemos reconocer en el programa demócrata pre-electoral.

De igual forma el Centro Wilson, de la mano de Michael Penfold como “fellow”, mantiene una línea similar, promueve una “salida negociada” del gobierno de Nicolás Maduro, acompañado de una crítica al bloqueo económico-financiero-comercial como política exterior estadounidense.

En entrevista reciente, Penfold, un experto en políticas públicas y planificación estratégica, declara que el “proyecto Guaidó” llega a su término Venezuela adentro con las venideras elecciones parlamentarias, convocadas bajo los acuerdos llegados en la Mesa de Diálogo Nacional.

El también profesor del IESA opina que el diálogo es la opción para destrabar el “problema institucional” en el estado venezolano, y las elecciones deben hacerse, sin embargo la división en la oposición es un punto clave que, a su juicio, provocaría un no reconocimiento de los comicios ante la escena internacional.

Para que dicho diálogo pueda concretarse, acepta Penfold, debe haber una prerrogativa que ha sido enarbolada por el presidente Maduro: el levantamiento de las medidas coercitivas unilaterales de Estados Unidos. Solo en ese marco, dice, puede darse una “transición”.

Es posible que algunos decisores en Washington tomen nota de algunas sugerencias estratégicas, pero más allá de un cambio de postura, que el Partido Republicano no está dispuesto a admitir por los costos políticos en un contexto electoral, no existe un giro que garantice cierta estabilidad a la República Bolivariana y a su población, puesto que en la mira siempre está el cambio de régimen, bajo una u otra modalidad, aun cuando se celebren elecciones en el marco de la Constitución de la República Bolivariana.

A estas alturas, un viraje de la política exterior estadounidense solo es posible con un cambio de administración en la Casa Blanca, sin embargo los demócratas no conceden diversos matices a la estrategia venezolana, más allá de llamar a una “diplomacia” gringa que, es cierto, a la luz de las leyes internacionales carece de representación coherente con Mike “Robamos, Engañamos, Mentimos” Pompeo al frente, en un callejón sin salida.

Pero las venezolanas y los venezolanos no podemos llamarnos a engaño.

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