Miguel Barnet http://www.granma.cu
Il cosiddetto embargo più che una legge criminale verso un piccolo paese sovrano, è stato il riflesso della volontà storica di voler appropriarsi d’un frutto lungamente ambito.
Questi sono stati giorni luminosi, anche di sentimenti trovati. Da una parte sperimentiamo la gioia di avere finalmente tra noi Gerardo, Ramón, Fernando, Tony e Rene; dall’altra, l’annuncio del ripristino delle relazioni diplomatiche con gli USA che provoca molte domande.
Ormai noi cubani sappiamo che questa Rivoluzione mai abbasserà le bandiere e che i principi su cui è stata costruita la patria di Céspedes, Martí e Maceo non sono negoziabili. Ricordiamo solo la protesta di Baraguá. Ma c’è un cammino di luce, o almeno uno spiraglio attraverso il quale si prospetta la speranza di vivere in pace. La spada di Damocle non deve più pendere sulle nostre teste. Sarà così, veramente, o è solo un’illusione poetica? Chi lo sa! Con loro sempre prevarrebbe la diffidenza . Ricordiamo anche Playa Girón. Ma siamo per una volta ottimisti. La grande potenza imperiale non può continuare dando le spalle al continente in cui viviamo. La correlazione di forze è cambiata. Pensiamo che in realtà si sono convinti che Cuba è un bastione morale invulnerabile. E che non è sola. Se no come interpretare la claudicazione ad una pretensione testarda di sottomissione ed umiliazione.
Il cosiddetto embargo più che una legge criminale verso un piccolo paese sovrano, è stato riflesso della volontà storica di voler appropriarsi, attraverso vincoli oppressivi, d’un frutto lungamente ambito. Chi può dimenticare la teoria della frutta matura?
Allora, che senso avrebbe negoziare la normalizzazione delle relazioni diplomatiche senza risolvere alcune questioni vitali?
Risulta essenziale eliminare alcune misure che per assurde e contradittorie muoverebbero al sarcasmo se non fosse per le loro crudeli ed ingiuste conseguenze, come ad esempio la Legge di Aggiustamento Cubano, che concede, in poco tempo, la residenza ai cubani che arrivano in terra USA con i piedi asciutti.
E il resto degli immigrati che si buttano in mare, allora? E ‘che noi abbiamo un privilegio divino sui nostri fratelli latinoamericani e dei Caraibi? Siamo forse superiori a loro? Niente di tutto questo. Con la Legge di Aggiustamento Cubano si criminalizza un popolo e si punisce la Rivoluzione.
Che siamo un paese che promuove il terrorismo? Non ci credono neanche loro. E’ solo un altro modo per punirci con una fallacia provocatoria. Siamo stati, quello sì, vittime dei più crudeli atti di terrorismo di stato. E i responsabili si aggirano liberi.
Molti ostacoli appariranno sulla strada perché non bisogna sottovalutare la burocrazia USA né tanto meno il conservatorismo repubblicano che si mordono la coda. Infine, che come ha detto Papa Francesco tutto sarà “passo dopo passo”.
Chi aspetta il molto aspetta anche il poco. Anche se Cuba ha atteso pazientemente e stoicamente troppo, senza levar le ancore.
Cosa abbiamo a favore? La forza del tessuto spirituale del popolo cubano, la coscienza acquisita attraverso il sangue ed il fuoco e l’eredità storica dei nostri antenati, anche essi padri fondatori della nazione.
La gloria che abbiamo vissuto ha raggiunto il suo scopo. E Fidel, come timoniere ideologico in acque tempestose, il protagonista.
E in questo racconto non potremo mai dimenticare la stampa cubana, che non sarà la migliore al mondo, ma neanche la peggiore.
I nostri insegnanti e i nostre giornalisti hanno esercitato un compito enorme nella difesa dei principi della Rivoluzione e nel sostegno ad una politica educativa e culturale coerente, integra e democratica.
I poteri mediatici sono stati forse la leva principale per far ripartire il motore della Storia.
Dobbiamo ancora lottare contro molti demoni. Tra di loro il relativismo chiamato postmoderno e il vale tutto.
Il nostro dovere di intellettuali e artisti è quello di contribuire con energia – quell’ antidoto contro l’immobilità e la burocrazia – allo stabilimento delle gerarchie e alla decantazione del gusto estetico.
Per questo bisogna educare, educare ed educare. Ma in modo critico e affinché coloro che ricevono il messaggio lo condividano con la comunità e con i progetti creativi che questa genera.
Senza un rapporto organico con quel mondo tanto trascurato dai poteri egemoni non è possibile avanzare, perché è colui che ha legittimato la piattaforma del nostro sistema sociale.
Una definizione del concetto d’identità così controverso e volto mille volte a definire, solo può spiegarsi a Cuba, con le lotte che il popolo ha condotto nella sua storia contro il colonialismo culturale che spesso ci hanno cercato di imporre. Identità che soltanto si compie con un dialogo aperto verso il passato fondatore e con l’animo di memoria condivisa nel presente. Per questo, un’opera come quello di Fernando Ortiz, per esempio, può interpretarsi in modo approfondito su questi precetti d’oggi.
Davanti a quest’opera si è potuto riconoscere isolatamente tra onesti uomini di pensiero, nei forum accademici o in tribune specializzati. Ma la più ampia comprensione di essa ha raggiunto il suo senso più pieno nella fusione dei valori più legittimi del popolo e della politica culturale che ostentiamo, oggi, con orgoglio.
Ecco un potente meccanismo d’integrazione nazionale. E io direi di più, di vera unità. Il riscatto del più puro del corpus identitario della nazione è compito primario della sfera sociale e politica.
L’impegno per la salvaguardia del patrimonio culturale tradizionale e il lavoro comunitario contribuiscono alla interazione delle popolazione con i loro valori, e fomentano nel loro lavoro quotidiano la qualità della vita, l’autostima e l’etica.
Essi sono un ostacolo impenetrabile contro le minacce di colonialismo e di annessionismo.
Il lavoro comunitario non è solo un obiettivo prioritario dell’UNEAC per la sua incidenza sociale ma perché lo animano principi inviolabili del socialismo. Difendere ciò che è nostro non è ancorarci in un vetusto passato, ma proiettarci verso l’universalità. Ciò che è straniero, non è necessariamente sempre moderno. A volte è solo l’effimero. Identificare il moderno con il capitalismo consumista è un errore contro la cultura.
Fernando Ortiz ha rivelato nella sua immensa opera scientifica la presenza di elementi ispanici, africani o asiatici che hanno dato al nostro paese quella diversità che ci rende universali. E lo ha fatto con una visione antropologica e una vocazione vendicativa.
E’ stata un’impresa di giustizia sociale e un atto di estrema responsabilità intellettuale. E non ha mai avuto il sostegno dello Stato, né si è potuto solidarizzare con una giusta politica culturale. In quegli anni della repubblica, la maggior parte dei temi che trattò erano disprezzati o si schiantavano contro schemi colonialisti.
Solo quando il popolo è stato protagonista e ha espresso liberamente le sue espressioni artistiche è stata consumata l’autentica fusione tra lo Stato e le sue più legittime aspirazioni.
Oggi più che mai siamo obbligati ad essere attenti custodi di questo prezioso bastione. L’unico modo per costruire un modello che soddisfi queste aspirazioni contro lo strapotere del capitalismo neoliberale è quello di formare cittadini consapevoli della loro storia, padroni della propria immaginazione e impegnati con il progetto di trasformazione sociale.
Per questo è necessario agire nel presente con una visione critica del passato e con la convinzione che affronteremo il futuro con maggiore lucidità e base intellettuale. Lottare contro la mediocrità mentale e la perdita dei valori autoctoni dovrà essere il nostro obiettivo.
Per questo, ripeto, dobbiamo indagare sulla base della nostra cultura e delle nostre tradizioni, conoscere ed apprezzare i nostri simboli nazionali, in tutta la sua ricchezza e diversità, e non trascurare la storia che ci ha dato il volto che mostriamo al mondo.
Di fronte alle sfide che si presentano oggi nel panorama sociale e politico del paese, noi, intellettuali e artisti, siamo nel dovere di puntare in alto come avanguardia nella difesa dei nostri valori.
Non farlo sarebbe rischiare di camminare sulle macerie o affondare nel pantano della dipendenza coloniale e della mediocrità.
Fernando Ortiz ha scritto: “Tutto il popolo che si rifiuta a se stesso è sull’orlo del suicidio”.
Lo dice un proverbio afro-cubano: “Capra che rompe tamburo paga con la sua pelle”. Salviamoci.
Chivo que rompe tambó con su pellejo paga
El llamado embargo más que una ley criminal a un pequeño país soberano, ha sido el reflejo de la voluntad histórica de apoderarse de una fruta largamente codiciada,
Estos han sido días luminosos, aunque de sentimientos encontrados. Por una parte experimentamos la alegría de que estén finalmente entre nosotros Gerardo, Ramón, Fernando, Tony y René; por la otra, el anuncio del restablecimiento de las relaciones diplomáticas con los Estados Unidos que provoca múltiples interrogantes. Ya sabemos los cubanos que esta Revolución no bajará nunca las banderas y que los principios en que se fraguó la patria de Céspedes, Martí y Maceo no son negociables. Recordemos solo la Protesta de Baraguá. Pero hay un camino de luz, o al menos un resquicio por donde se vislumbra la esperanza de vivir en paz. La espada de Damocles ya no debe pender más sobre nuestras cabezas. ¿Será así, verdaderamente, o es solo una ilusión poética? ¡Quién sabe! Con ellos siempre primaría la desconfianza. Recordemos también Playa Girón. Pero seamos por una vez optimistas. La gran potencia imperial no puede seguir dándole la espalda al continente en que vivimos. La correlación de fuerzas ha cambiado. Pensemos que de veras se han convencido de que Cuba es un bastión moral invulnerable. Y que no está sola. Si no cómo interpretar la claudicación a una pretensión tozuda de sometimiento y humillación.
El llamado embargo más que una ley criminal a un pequeño país soberano, ha sido el reflejo de la voluntad histórica de apoderarse, mediante coyundas opresivas, de una fruta largamente codiciada. ¿Quién puede olvidar la teoría de la fruta madura?
Entonces, ¿qué sentido tendría negociar la normalización de relaciones diplomáticas sin resolver algunas cuestiones vitales?
Resulta indispensable eliminar algunas medidas que por absurdas y contradictorias moverían a la sorna de no ser por sus crueles e injustas consecuencias, como por ejemplo, la Ley de Ajuste Cubano que otorga en poco tiempo la residencia a los cubanos que llegan a tierras de Estados Unidos con los pies secos.
¿Y el resto de los inmigrantes que se lanzan al mar, qué? ¿Es que nosotros tenemos un privilegio divino por sobre nuestros hermanos latinoamericanos o caribeños? ¿Somos acaso superiores a ellos? Nada de eso. Con la Ley de Ajuste Cubano se criminaliza a un pueblo y se castiga a la Revolución.
¿Qué somos un país que promueve el terrorismo? No se lo creen ni ellos mismos. Es solo otra manera de castigarnos con una provocadora falacia. Hemos sido, eso sí, víctimas de los más crueles actos de terrorismo de estado. Y los victimarios andan sueltos.
Muchos obstáculos aparecerán en el camino porque no hay que subestimar a la burocracia norteamericana ni al conservadurismo republicano que se muerden la cola. En fin, que como dijo el Papa Francisco todo será “paso a paso”.
Quien espera lo mucho espera lo poco. Aunque Cuba ha esperado paciente y estoicamente demasiado sin levar anclas.
¿Qué tenemos a favor? La fortaleza del tejido espiritual del pueblo cubano, la conciencia adquirida a sangre y fuego y el legado histórico de nuestros próceres, también padres fundadores de la nación.
La gloria que hemos vivido ha cumplido su papel. Y Fidel, como timonel ideológico en aguas procelosas, el principal.
Y en este recuento no podremos nunca olvidar a la prensa cubana, que no será la mejor del mundo, pero tampoco la peor.
Nuestros educadores y nuestros periodistas han desplegado una labor ingente en la defensa de los principios de la Revolución y en el apoyo a una política educativa y cultural coherente, integral y democrática.
Los poderes mediáticos han sido quizá la palanca principal para echar a andar el motor de la Historia.
Tenemos que luchar aún contra muchos demonios. Entre ellos el relativismo llamado postmoderno y el vale todo.
Nuestro deber como intelectuales y artistas es contribuir con energía —ese antídoto contra el inmovilismo y la burocracia— al establecimiento de las jerarquías y a la decantación del gusto estético.
Para ello hay que educar, educar y educar. Pero críticamente y con el fin de que los que reciben el mensaje lo compartan con la comunidad y con los proyectos creativos que ella genera.
Sin una relación orgánica con ese mundo tan relegado por los poderes hegemónicos no es posible avanzar, porque él es el que ha legitimado la plataforma de nuestro sistema social.
Una definición del concepto de identidad tan controvertido y vuelto mil veces a definir solo se explica en Cuba por las luchas que el pueblo ha llevado a cabo en su historia frente al colonialismo cultural que tantas veces se nos ha tratado de imponer. Identidad que solo se cumple con un diálogo abierto hacia el pasado fundador y con el ánimo de una memoria compartida en el presente. Por eso una obra como la de Fernando Ortiz, por ejemplo, puede interpretarse en profundidad sobre estos preceptos de hoy.
Antes esa obra se pudo reconocer aisladamente entre honestos hombres de pensamiento, en foros académicos o en tribunas especializadas. Pero la comprensión más amplia de ella logró su sentido más pleno en la fusión de los más legítimos valores del pueblo y la política cultural que ostentamos hoy con orgullo.
He ahí un poderoso mecanismo de integración nacional. Y yo diría más, de verdadera unidad. El rescate de lo más puro del corpus identitario de la nación es tarea prioritaria de la esfera social y política.
El empeño por la salvaguarda del acervo cultural tradicional y el trabajo comunitario contribuyen a la interacción de la población con sus valores, y fomentan en su quehacer cotidiano la calidad de vida, la autoestima y la ética.
Ellos son un valladar infranqueable frente a los amagos de colonialismo y anexionismo.
El trabajo comunitario no solo es un objetivo prioritario de la Uneac por su incidencia social sino porque lo animan principios inviolables del socialismo. Defender lo nuestro no es anclarnos en un pasado vetusto, sino proyectarnos hacia la universalidad. Lo foráneo no necesariamente es siempre lo moderno. A veces es solo lo pasajero. Identificar lo moderno con el capitalismo consumista es un error de lesa cultura.
Fernando Ortiz reveló en su inmensa obra científica la presencia de elementos hispanos, africanos o asiáticos que le dieron a nuestro país esa diversidad que hace que seamos universales. Y lo hizo con una visión antropológica y una vocación vindicativa.
Fue una hazaña de justicia social y un acto de extrema responsabilidad intelectual. Y jamás tuvo el apoyo del Estado, ni se pudo solidarizar con una política cultural justa. En aquellos años de la república, la mayor parte de los temas que abordó eran menospreciados o chocaban contra esquemas colonialistas.
Solo cuando el pueblo fue protagónico y expresó con libertad sus expresiones artísticas se consumó la auténtica fusión entre el estado y sus más legítimas aspiraciones.
Hoy más que nunca estamos en la obligación de ser atentos custodios de ese baluarte precioso. El único modo de construir un modelo que responda a esas aspiraciones frente al poder avasallador del capitalismo neoliberal es formando ciudadanos conscientes de su historia, dueños de su propio imaginario y comprometidos con el proyecto de transformación social.
Para ello es necesario actuar en el presente con una óptica crítica del pasado y con la convicción de que vamos a encarar el futuro con mayor lucidez y base intelectual. Luchar contra el adocenamiento mental y la pérdida de valores autóctonos deberá ser nuestra meta.
Por eso, repito, debemos indagar en la base de nuestra cultura y nuestras tradiciones, conocer y apreciar nuestros símbolos patrios, en toda su riqueza y diversidad, y no desdeñar la historia que nos ha dado el rostro que exhibimos al mundo.
Ante los desafíos que hoy se presentan en el panorama social y político del país, nosotros, intelectuales y artistas, estamos en el deber de erguirnos como vanguardia en la defensa de nuestros valores.
No hacerlo sería correr el riesgo de caminar sobre escombros o hundirnos en el pantano de la dependencia colonial y la mediocridad.
Fernando Ortiz escribió: “Todo pueblo que se niega a sí mismo está en trance de suicidio”.
Lo dice un proverbio afrocubano: “Chivo que rompe tambó con su pellejo paga”. Salvémonos.