René González Sehwerert www.cubadebate.cu
Il 13 agosto 2000 era una domenica. Coincidenze, sarebbe stato il mio compleanno e l’ultima visita di Olguita in prigione. Sebbene io non lo sapessi per certo, avevo le mie ragioni per intuirlo. E’ stato per questo che l’ho avvertita.
Giorni prima i pubblici ministeri erano ricorsi a quella che consideravano la loro ultima carta per farmi uscire dal processo.
In un losco foglio affinché mi dichiarassi colpevole, terminavano minacciandomi di espellere mia moglie se non avessi collaborato e uscivo dal processo. Forse la stoccata finale; avranno supposto dalla loro incapacità di capirci. Come tante altre volte prima o dopo, sarebbero rimasti con il pugnale nel fodero di fronte alla risposta di ciascuno dei Cinque. Come direbbe un filosofo, la stoccata se la sono messa … beh, lasciamolo lì.
Sono andato da Gerardo con il foglio in mano e gli ho chiesto di fare una firma per me. Con il suo talento per la caricatura ha disegnato un pugno con un dito medio alzato, virile e provocatorio. Ho restituito il foglio al mio avvocato sapendo, ovviamente, che mai sarebbe arrivato, con una firma del genere, ai pubblici ministeri. O almeno credo. Era solo un modo di sfogarmi, divertirmi un po’ e fare una dichiarazione di principi.
Ho raccontato tutto questo ad Olguita durante quella visita, il 13 agosto 2000. Abbiamo deciso che si preparasse al peggio e ci siamo salutati. Abbiamo parlato per telefono lunedì 14 e martedì 15 mattina, come al solito, quando l’ho chiamata per sapere se andava tutto bene dopo aver terminato la sua giornata lavorativa alle 11 di ogni sera.
Oggi si compiono i 20 anni di quella chiamata, del 16 agosto, a cui non è mai stata data risposta. Anche se avevo il sospetto che potesse accadere, quando mi sono trovato di fronte al fatto mi è costata fatica assimilarlo. Ho passato l’intera mattinata cercando di comunicare con la mia famiglia in Florida senza che loro sapessero nulla di Olguita fino a quando, finalmente, verso mezzogiorno, mia nonna Teté mi ha detto che l’aveva chiamata al telefono. La chiamava dal carcere per dirle che era stata detenuta dall’immigrazione e che sarebbe stata sottoposta ad un processo di espulsione. Nonostante l’impatto della notizia, incredibilmente sapere che era al sicuro e che non avevo sofferto alcun incidente peggiore mi ha riempito di sollievo.
Poco dopo, sono venuti a cercarmi al piano. Scortato da agenti dell’FBI, ho attraversato i familiari labirinti che collegavano il Centro Federale di Detenzione con l’edificio in cui si trovavano gli uffici della procura, fino a raggiungere una doppia porta che dava su una stanza. Quello che ho visto quando le doppie porte si sono aperte mi ha riempito di indignazione.
Alla sinistra, sulle gradinate dove si siede il gran giurì per ricevere le testimonianze, c’erano circa una dozzina di funzionari governativi nelle due file superiori. Aspettanti, curiosi, attenti…non so. Nella fila inferiore, sola, in una tuta arancione intenzionalmente arruffata e macchiata di pittura, spiccava, per contrasto, la figura di Olguita.
“Un’altra stoccata”, mi attraversò la mente come un fulmine. Nei pochi secondi che mi ci sono voluti per coprire i quasi otto metri che ci separavano, ho trovato la migliore risposta che potessi pensare. Alzando la sua mano sopra la testa ho fatto ruotare mia moglie un paio di volte dicendole con tutta la gioia che sono stato capace di rappresentare: -L’arancio ti sta bene!!
Abbiamo riso, ci siamo fusi in un abbraccio e ci siamo baciati. In soli dieci minuti, abbiamo potuto darci sufficiente animo, l’un l’altro, e riaffermarci la mutua decisione di resistere, prima che ci separassero per non vederci più per anni.
Il mio avvocato, Philip Horowitz, non conteneva la sua indignazione. Il giorno dopo è andato a trovare Olguita in carcere con Julio Melo, cubano, ex poliziotto, ed ora suo investigatore privato. Entrambi sono venuti a trovarmi dopo averla visitata:
– Ciò non si fa! – insisteva Melo – Nemmeno ai miei tempi, quando ero un poliziotto sono stato coinvolto con la famiglia di un delinquente.
– È più sfidante di te – ha aggiunto Philip – Dice che se prima non hai ceduto ora tanto meno –
– Questa è mia moglie – gli ho detto sorridendo, a cui ha immediatamente risposto:
– Nooo!! TU sei suo marito!
Per tre mesi Olguita è rimasta incarcerata, in condizioni anche peggiori di quelle che abbiamo sofferto noi nel buco. Ha ricevuto lettere dai Cinque fino all’ultimo giorno, ma l’accusa si è assicurata che noi non ricevessimo mai le sue risposte. Infine, è stata espulsa a Cuba, il 22 novembre, cinque giorni prima dell’inizio del processo.
Il resto è storia: anni di resistenza, di lotta tenace, di rivendicazione di un popolo in cerca di giustizia che ci è stata negata per anni fino a quando non è stata ottenuta la vittoria del nostro ritorno in patria.
Ma già prima, pietra dopo pietra, erano state gettate le basi di quella vittoriosa battaglia. Una di quelle pietre è stata posta 20 anni fa, oggi, quando la malvagità dell’imperialismo ha deciso di dare una stoccata al cuore di una cubana e si è schiantata contro l’armatura della sua dignità, onore e patriottismo.
A veinte años de un burdo y fracasado chantaje
Por: René González Sehwerert
El 13 de agosto de 2000 fue en domingo. Coincidencias, que sería mi cumpleaños y la última visita de Olguita a la cárcel. Aunque yo no lo sabía a ciencia cierta tenía mis razones para intuirlo. Fue por eso que le advertí.
Días atrás los fiscales habían acudido a lo que consideraban su última carta para sacarme del juicio.
En un turbio pliego para que me declarara culpable, terminaban amenazándome con deportar a mi esposa si no cooperaba y me salía del proceso. Quizá la estocada final; supondrían desde su incapacidad para entendernos. Como tantas otras veces antes o después, se quedarían con la daga enfundada ante la respuesta de cada uno de los Cinco. Como diría algún filósofo, la estocada se la metie….bueno, dejémoslo ahí.
Fui a ver a Gerardo con el pliego en la mano y le pedí que dibujara una firma por mí. Con su habilidad para la caricatura dibujó un puño con el dedo medio levantado, viril y desafiante. Devolví el pliego a mi abogado sabiendo, por supuesto, que nunca llegaría con tal firma a los fiscales. O al menos eso creo. Era sólo una manera de desahogarme, divertirme un poco y hacer una declaración de principios.
Todo eso le conté a Olguita en aquella visita del 13 de agosto del 2000. Quedamos en que se prepararía para lo peor y nos despedimos. Hablamos por teléfono el lunes 14 y el martes 15 en la mañana, como de costumbre, cuando yo la llamaba para saber si todo estaba bien luego de terminar su jornada de trabajo a las 11 de cada noche.
Hoy se cumplen 20 años de aquella llamada del 16 de agosto, que nunca fue respondida. Aún cuando tenía la sospecha de que podía suceder, cuando me enfrenté al hecho me costó trabajo asimilarlo. Pasé toda la mañana tratando de comunicarme con mi familia en la Florida sin que supieran nada de Olguita hasta que finalmente, alrededor del mediodía, mi abuela Teté me dijo que le había llamado por teléfono. La llamaba desde la cárcel para decirle que había sido detenida por inmigración y que sería sometida a un proceso de deportación. A pesar del impacto de la noticia, increíblemente saber que estaba a salvo y no había sufrido peor percance me llenó de alivio.
Poco después vinieron a buscarme al piso. Escoltado por agentes del FBI recorrí los familiares laberintos que unían al Centro Federal de Detención con el edificio donde radicaban las dependencias de la fiscalía, hasta llegar a una doble puerta que conducía a un salón. Lo que vi al abrirse la doble puerta me llenó de indignación.
A la izquierda, en las gradas donde se sienta el gran jurado para recibir testimonio, había cerca de una docena de oficiales del gobierno en las dos filas superiores. Expectantes, curiosos, atentos, …yo qué sé. En la fila inferior, sola, con un overol naranja intencionalmente desaliñado y manchado de pintura, destacaba por contraste la figura de Olguita.
“Otra estocada”, me atravesó el pensamiento como un rayo. En los breves segundos que me tomó cubrir los cerca de ocho metros que nos separaban encontré la mejor respuesta que se me ocurrió. Levantando su mano por encima de su cabeza hice a mi esposa rotar un par de veces mientras le decía con toda la alegría que fui capaz de representar: – ¡¡Qué bien te queda el anaranjado!!
Nos reímos, nos fundimos en un abrazo y nos besamos. En sólo diez minutos pudimos darnos el suficiente ánimo el uno al otro y reafirmarnos en la mutua decisión de resistir, antes de que se nos separara para no vernos más por años.
Mi abogado, Philip Horowitz, no cabía de su indignación. Al otro día fue a ver a Olguita a la cárcel junto a Julio Melo, cubano, ex policía, y ahora su investigador privado. Ambos fueron a verme luego de visitarla:
– ¡Eso no se hace! – insistía Melo- Ni en mis tiempos de policía me metía yo con la familia de un delincuente.
– Está más desafiante que tú -añadió Philip- Dice que se antes no te partiste ahora menos.
– Esa es mi mujer -le dije sonriendo, a lo que de inmediato replicó:
– ¡¡Nooo!!. ¡TÚ eres su marido!
Durante tres meses Olguita permaneció encarcelada, en condiciones aún peores que las que habíamos sufrido nosotros en el hueco. Estuvo recibiendo cartas de los Cinco hasta el último día, pero la fiscalía se aseguró de que nosotros nunca recibiéramos sus respuestas. Finalmente, fue deportada a Cuba el 22 de noviembre, a cinco días del comienzo del juicio.
El resto es historia: Años de resistencia, de lucha tenaz, del reclamo de un pueblo en busca de la justicia que se nos negó por años hasta que se obtuvo la victoria de nuestro regreso a la patria.
Pero ya desde antes, piedra a piedra, se habían puesto los cimientos de esa victoriosa batalla. Una de esas piedras fue puesta hace hoy 20 años, cuando la saña del imperialismo decidió lanzar una estocada al corazón de una cubana, y se estrelló contra la coraza de su dignidad, su honor y su patriotismo.