Le parole più chaviste per il Venezuela

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Con Hugo Chavez in Venezuela sono successe cose incredibili, cose che non dimenticheremo mai e che non permetteremo mai di lasciare nel passato. La nascita di una speranza nel corso dei secoli covata, sognata, repressa, vista in delirio, risorta. Una costituzione finalmente discussa e costruita da tutto il popolo. Gli umili che arrivano in massa alle università. Le nonne e i nonni che hanno finalmente accesso allo studio.

La cultura, non più un privilegio per le élite, che ritorna dalla gabbia dorata alla sua casa: il popolo. Il gioioso crollo dei miti del potere e una reinvenzione della vera storia del Venezuela, fatta da tutti e che si costruisce sempre dal basso. Mille errori e inciampi, inevitabili in ogni percorso umano, ma soprattutto l’amore che si viveva nelle strade e nei cuori. E la cosa più bella del chavismo: il risveglio delle persone; milioni e milioni di esclusi, anonimi, invisibili, che per la prima volta hanno sentito che questo Paese è anche il loro, che non solo adesso sono presi in considerazione ma che da ora e per sempre saranno assolutamente i protagonisti della loro storia. Tanti, che hanno sentito la gioia e l’orgoglio di essere venezuelani.

Ricordo che Chávez incoraggiava il suo popolo a leggere, a interrogare, a pensare in modo critico, a essere solidale e generoso. Ricordo l’intero Paese come un pollaio buttato all’aria, dove in migliaia di quartieri la gente umile si organizzava, studiando, imparando e discutendo i destini della patria. Non dimenticheremo mai i fiumi rossi di questo popolo libero e sovrano che scendeva dalle colline per porre fine al tentativo di colpo di stato contro il suo governo e poi con lacrime di gioia in attesa che l’amato Chávez ritornasse sano e salvo in elicottero al palazzo Miraflores. Ricordo anche due nonne che ho conosciuto a Puerto Ordaz, che nelle prime ore del colpo di stato del 12 aprile 2002 rubarono un camion per andare a Caracas a salvare Chavez. Ricordo anche i contadini evangelici di Merida con i quali condivisi, nella loro cooperativa, alcuni giorni e notti indimenticabili, che mi raccontavano i profondi cambiamenti del paese e della loro vita con le parole “Grazie a Dio e a Chávez”…

Né dimenticheremo come la maggior parte dei funzionari delle ambasciate venezuelane nel mondo, compresi quelli cileni, appoggiarono il colpo di stato contro il loro governo e come, insieme alla brava gente del Cile – tra cui lo scrittore Luis Sepúlveda – trascorremmo due notti con le candele davanti all’ambasciata venezuelana a Santiago sperando in un miracolo. Lì imparammo che i miracoli esistono e sono fatti dalle persone. Dopo il miracolo i diplomatici traditori dovettero tornare a casa e l’unico rimasto fedele al governo e che era stato con noi in quelle notti tornò a lavorare all’ambasciata, a quel punto come ambasciatore. Si chiama Víctor Delgado, ex pilota militare, e durante il suo mandato l’ambasciata venezuelana in Cile divenne un vero e proprio territorio del popolo, aperto a tutti i tipi di riunioni, incontri, prove musicali, presentazioni teatrali. I miei amici stravaganti, comunisti, umanisti, ecologisti e tutti i tipi di artisti marginali ebbero lì il loro asilo e rifugio. Poco tempo dopo il nostro caro compagno e grande essere umano Victor Delgado lasciò il Cile, espulso dal miglior alleato dei socialisti cileni, lo stesso che tramava contro Allende: la democrazia cristiana cilena al potere. Víctor fu sostituito da una signora, una buona diplomatica che sapeva come evitare i problemi politici in Cile e le cui priorità, a quanto pare, si trovavano nelle boutique dell’Argentina.

Lo dico per sottolineare il nostro punto di vista, che è e sarà di questo Venezuela bolivariano, che difenderemo sempre.

Sono stato in Venezuela solo una volta, poco più di un mese tra luglio e agosto 2008, sempre con Chávez, in uno di quei viaggi folli senza un programma preciso, per cercare di vedere, sentire e capire il più possibile. La stampa mondiale infuriava sul Venezuela con le sue storie dell’orrore e io arrivavo via terra dalla Colombia, paese dissanguato dalla guerra di Uribe e ammutolito dalla paura, dove Chavez, a livello mediatico, era una specie di diavolo comunista, ma con alcune aggravanti. A quei tempi la maggior parte dei venezuelani viveva molto meglio dei colombiani, il salario minimo in Venezuela era di circa 500 dollari al mese e più mi avvicinavo al confine venezuelano, meno stupide erano le cose che si sentivano dire su Chavez dai colombiani. Era il periodo in cui molte persone di Cucuta e della zona di confine cercavano lavoro in Venezuela e sapevano che parlare bene del governo vicino era pericoloso.

Credo che i tre problemi peggiori che il governo bolivariano ha ereditato dai precedenti siano la cultura della violenza, della criminalità e della corruzione, che schematicamente possono essere visti come una sola bestia con tre teste. Sembra impossibile combatterle separatamente, poiché una diventa facilmente l’altra e viceversa. Nel suo pensiero umanista Chavez supponeva che, man mano che si fosse data soluzione ai gravi problemi sociali e che tutti i cittadini avessero ricevuto più giustizia e istruzione, la gente sarebbe stata sempre più consapevole e il problema della criminalità sarebbe ovviamente diminuito. A differenza di tutti i governi precedenti, il governo Chávez ha sempre evitato di reprimere i quartieri poveri, che storicamente erano sempre stati terreno fertile per la piccola criminalità.

Nel frattempo l’opposizione politica, sempre più vicina al fascismo e meglio finanziata dall’estero, non solo si è occupata di generare e mantenere sacche di violenza in tutto il Paese, ma ha anche portato i paramilitari colombiani sul territorio, distribuendo armi e droga nelle periferie delle città per generare il caos e destabilizzare il governo. Fin dai miei primi giorni in Venezuela, ho capito che purtroppo i racconti dell’altissimo tasso di criminalità non erano solo storie.

Con la corruzione è andata anche peggio. La “Rivoluzione Bolivariana” era stata concepita considerando l’apparato statale quale espressione della logica capitalista, pensato proprio per evitare ogni possibilità di un cambiamento sostanziale. Con l’arrivo al potere di Chávez l’intera base sociale entrò in movimento, cercando di riconfigurare il rapporto tra cittadini e Stato, e si scontrò immediatamente con la burocrazia bolivariana, interessata, come ogni burocrazia del mondo, a mantenere lo status quo, il suo potere e i suoi privilegi per non condividerli con chi stava sotto. Di fronte al nuovo potere rappresentato da Chávez, al suo enorme sostegno da parte del popolo, all’appoggio decisivo delle forze armate – apparentemente molto meno romantico e più interessato di quanto sembrava all’inizio – e ai vantaggi offerti dalla vicinanza al potere, la vecchia burocrazia statale cambiò immediatamente colore e, pur disprezzando profondamente l’ideologia chavista e la folla entusiasta della rivoluzione, occupò tutti gli spazi di potere all’interno del governo.

Ho l’impressione che queste persone, portatrici di corruzione come parte della loro cultura, fin dall’inizio del processo fossero la stragrande maggioranza dei funzionari statali, camaleonti e opportunisti senza principi, in fondo molto contrari a qualsiasi cambiamento sociale. Tale cosa divenne evidente con la reazione delle ambasciate venezuelane al tentativo di colpo di Stato a Caracas nel 2002, quando si affrettarono a riconoscere il regime golpista che durò solo poche ore.

Con il passare degli anni mi è venuto il sospetto che né Chavez, né i funzionari onesti del suo governo e tanto meno il popolo, siano mai riusciti ad avere il benché minimo controllo sullo Stato, che più di ogni altra cosa si è dedicato a generare nuove e sempre più creative formule di saccheggio. Era un’atmosfera piena di caos e di fervore rivoluzionario, di mancanza di competenza e professionalità dei nuovi quadri, di una brutale pressione internazionale, con mille calunnie mediatiche e un blocco statunitense sempre sull’orlo di un’invasione. A questo possiamo aggiungere altri due fattori: il primo, l’altissima corruzione nelle alte cariche dell’esercito, che ottennero troppo potere dal governo, probabilmente perché fosse garantita la loro lealtà. E il secondo e forse il più grande errore: parlando del socialismo del XXI secolo all’interno di un modello ancora assolutamente capitalista, Chávez replicò la peggiore lezione del socialismo del secolo scorso creando il Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV) come partito di governo, una struttura pesante e inorganica che schiacciò la ricca diversità delle forze rivoluzionarie autentiche e divenne una calamita per gli opportunisti che aspiravano al potere.

Inoltre, il sabotaggio da parte delle forze reazionarie e fasciste, che era reale, fu anche una scusa perfetta per l’inefficienza e l’inerzia delle autorità a diversi livelli. Secondo la stessa logica, ogni critica veniva presentata come calunnia o come “lavoro per il nemico”. È incredibile come la vera aggressione imperialista e le azioni burocratiche di un presunto stato rivoluzionario, che si aggrappa al potere evocando ogni tipo di slogan e sempre in nome del popolo, si completino a vicenda nella distruzione del processo rivoluzionario. È abbastanza ovvio che qualsiasi rivoluzione anti-capitalista sia impensabile senza un profondo cambiamento del sistema di valori. La corruzione ruota sempre intorno al valore principale del capitalismo che è il denaro. Quindi non è solo un ostacolo o un problema lungo il percorso, ma un elemento di enorme potere distruttivo che intossica e annulla completamente il senso più profondo del cambiamento a cui si mira. La rivoluzione e la corruzione sono antagoniste e incompatibili quanto l’umanesimo e il fascismo. A quanto pare, la poca determinazione o le limitate capacità nella lotta alla corruzione, dall’inizio del processo bolivariano, hanno avuto un ruolo fatale nel suo sviluppo.

In quel viaggio attraverso il Venezuela mi sono successe diverse cose che, più che segnali di avvertimento, mi sembravano presagi di ciò che stava per accadere. Gravi, inevitabili e forse senza rimedio.

Avevo un incarico a Caracas da parte di un grande amico, il direttore di un grande gruppo folcloristico cileno, che da tempo voleva venire con un tour musicale in Venezuela per sostenere e conoscere il processo bolivariano. Mi aveva passato il contatto di un collega e compagno venezuelano, membro di un gruppo musicale rivoluzionario – loro si erano conosciuti in Venezuela decenni addietro in un atto di solidarietà con il Cile – e sapevamo che ora questo gruppo accompagnava le delegazioni di Chávez in diversi viaggi nel Paese e all’estero. All’inizio rimasi molto colpito dall’auto del “musicista del popolo”: in Cile questo tipo di auto è di proprietà di grandi imprenditori o trafficanti. Lui espresse la sua sorpresa riguardo al mio albergo a Caracas, che non aveva la quantità di stelle di quelli che frequentava di solito, e io rimasi impressionato anche dalle spesse catene d’oro ai polsi e al collo e dal suo aspetto generale. Mentre bevevamo un caffè e consideravamo le possibilità per il tour del gruppo cileno, quando mi rivolse la classica domanda su cosa pensassi del Venezuela, fui così sciocco da rispondere che ero preoccupato per i livelli di corruzione che vedevo. “Tutte bugie del nemico” mi disse, e mi sentii piuttosto stupido. Inutile dire che il tour non si concretizzò mai.

Nella città di Carora, nel comune di Lara, incontrai un incredibile leader sociale, amato da tutti i vicini, un grande attivista per il cambiamento fin dai tempi in cui nessuno in Venezuela conosceva ancora Chavez. Prima delle elezioni amministrative, il PSUV appena creato praticamente lo costrinse a rinunciare alla sua candidatura per far posto a uno sconosciuto, ma scelto dei ranghi del partito.

Se votavi per i loro candidati, i funzionari del partito ti offrivano cose a tariffe preferenziali. A Barquisimeto, un compagno, un vecchio attivista sociale che conosceva tutte le carceri del Paese e che, giorno e notte, sempre per convinzione e in modo del tutto volontario, lavorava per sostenere le iniziative del governo, mi mostrò un messaggio che gli era arrivato sul cellulare da un’autorità regionale: “Per l’evento X del partito abbiamo bisogno di 10.000 persone allo stadio. Quanto costa?”

Durante i primi minuti della mia passeggiata lungo il famoso viale Sabana Grande nel cuore di Caracas, fui aggredito dalla polizia che dava la caccia ai turisti stranieri per estorcere denaro. Inventando le accuse più assurde e minacciando di farmi finire in galera o di deportarmi, alla fine mi chiesero “cento dollari per sistemare tutto in amicizia”. Venivo dalle zone non turistiche della Colombia, piccole città del Chocó sotto controllo paramilitare, e arrivare in Venezuela per me significava passare dal territorio nemico al “nostro”. Così, di fronte a questa offerta di “amicizia”, persi il controllo, finendo per insultare i criminali in uniforme, mentii spacciandomi per un importante giornalista internazionale invitato dai miei grandi amici del governo e affermando che, se non mi avessero subito lasciato in pace, i loro nomi e quelli dei loro capi sarebbero apparsi l’indomani sulle prime pagine della stampa mondiale, come traditori della patria e complici dell’impero. Il mio delirio ebbe effetto, fui lasciato andare, ma quel giorno non ebbi più voglia di andare in giro.

Dagli aneddoti di quel viaggio è passata molta acqua sotto i ponti. La morte di Chavez, l’elezione di Maduro, che in quella strana e fatidica notte del lungo conteggio dei voti sembrava non credere al suo trionfo e le cui parole di vittoria suonavano come una sconfitta. La sua promessa irresponsabile e non mantenuta di indagare sulle cause del cancro di Chavez, “instillato” dal nemico. Il più sdolcinato dei suoi discorsi sull’uccellino “che avrebbe potuto essere il nostro Comandante Chavez”. La sua gestione chiaramente maldestra e improvvisata della crisi economica e politica che ha continuato a peggiorare…

Lasciamo da parte il discorso classista di alcuni su”l’autista al governo”, teniamo conto della brutale pressione internazionale con il furto di beni statali venezuelani negli Stati Uniti e in Europa e le incursioni armate di mercenari provenienti dalla Colombia, manteniamo il beneficio del dubbio, pensando che la politica sia l’arte del possibile in un contesto così caotico, manipolato e complesso come quello venezuelano… Prendendo rispettosamente le distanze, ho sempre considerato il compito del governo di Maduro come qualcosa di estremamente difficile, e soprattutto, per il mio grande rispetto verso gli uomini e le donne che nonostante tutto si battono per il sogno bolivariano, ho sentito che qualsiasi opinione critica, mossa dalla mia comoda lontananza, semplicemente non aveva ragion d’essere.

Ma le notizie che stanno arrivando ultimamente mi hanno fatto cambiare idea.

Non si tratta di rapporti dell’ONU, manipolati dalle potenze mondiali e prodotti da personaggi privi di credibilità. Non si tratta nemmeno delle interpretazioni della stampa: sappiamo bene cosa cercano i grandi media quando parlano di Venezuela. Per i loro proprietari è fondamentale dimostrare che tutti i tentativi di uscire dal capitalismo portano inevitabilmente ai gulag, a Chernobyl, alle torture e alle esecuzioni.

Per questo possiamo permetterci di ignorarli.

Purtroppo si tratta di informazioni che provengono dal Venezuela, dalle persone e dalle organizzazioni che sono vicine a noi.

Per me, il punto di non ritorno per il governo di Nicolás Maduro inizia con la creazione, nell’aprile 2016, del comando della Polizia Nazionale Bolivariana, denominato Forze di Azione Speciale (FAES). Il suo obiettivo era quello di combattere la criminalità organizzata, che ormai si era praticamente impadronita delle strade e dei quartieri del Paese. Sembrava una misura drastica e disperata, che sostituiva l’umanesimo ingenuo di Chávez con il terrore esercitato contro le bande che fino ad allora avevano agito con grande impunità. Il logo delle FAES, che è un teschio deformato, riflette molto bene lo scopo del corpo speciale. Ho l’impressione che gran parte della popolazione venezuelana – Chavisti e non Chavisti, tutti molto stanchi dell’estrema criminalità quotidiana – abbia preso bene questa notizia, guidata dalla paura.

Così, il governo, che si dichiara bolivariano e rivoluzionario, sceglie uno strumento di terrore, senza dubbio abbastanza efficiente e ampiamente utilizzato dalla maggior parte dei governi di destra del continente contro la criminalità dei poveri. All’interno delle istituzioni corrotte di un governo corrotto, le FAES entrano nei quartieri popolari e cominciano a funzionare praticamente in modo autonomo, con un potere quasi illimitato e con la logica degli squadroni della morte dei paesi vicini: attaccando e uccidendo tutti i criminali e i sospetti, praticando esecuzioni sommarie e montature poliziesche, seminando ovunque l’orrore. E poiché l’attività delle FAES è riuscita a ridurre la delinquenza di quartiere in breve tempo, da principio la loro modalità fuorilegge riguarda solo poche persone. Psicologicamente in Venezuela si ripetono gli scenari della Colombia di Uribe o del Brasile di Bolsonaro, dove un elettorato che si sente indifeso e stanco della debolezza dello Stato di fronte alla criminalità, scommette sulla mano forte, nonostante gli “eccessi”.

Ma qui il problema non riguarda solo gli “eccessi”. All’interno di un sistema di potere totalmente corrotto e a ogni costo interessato a non mollare, qualsiasi guerra contro il crimine diventa inevitabilmente una guerra contro il popolo. Se Chávez scommetteva sempre sulla più ampia partecipazione popolare, libera e senza paura, chi oggi parla dall’alto in nome del Chavismo e del popolo, scommette sulla paura e sul silenzio. Mentre alcuni mercenari, come Guaidó, rimangono liberi e impuniti e altri sono graziati dall’esecutivo, all’interno delle sue incomprensibili e intricate tattiche politiche, diversi critici del governo che provengono dalla parte del Chavismo sono intimiditi, imprigionati o uccisi dalle agenzie di uno Stato che si dichiara rivoluzionario.

La burocrazia corrotta che ha dirottato la rivoluzione capisce che l’unico vero pericolo per il suo potere non viene dal suo dichiarato avversario politico – la destra fascista che è ormai diventata suo socio in molti affari – ma dai rivoluzionari coerenti, che mettono in discussione le azioni del governo dal punto di vista dell’etica del Chavismo.

E se le vittime delle FAES fossero solo gli oppositori politici? E se anche fossero solo ladri e rapinatori quelli che vengono portati via dalle loro case e uccisi senza processo? Torturare i cattivi per il bene di tutti i buoni fa parte della nuova moralità rivoluzionaria? Rimarremmo in silenzio? Con quale morale parleremo da oggi in poi del paramilitarismo in Colombia, passando sotto silenzio le esecuzioni sommarie in Venezuela?

I difensori del governo parleranno sicuramente (e come al solito) di interferenze esterne e dell’impossibilità di controllare tutto ciò che accade in un contesto così complesso. Forse non si rendono conto che questo discorso coincide quasi completamente con quello dei regimi di estrema destra, che giustificano i brutali crimini delle loro forze di sicurezza con l’”aggressione del comunismo internazionale” e la “sovversione interna”. Più che i crimini delle sue agenzie di sicurezza, colpisce la chiara indifferenza del governo venezuelano nei confronti della questione. Non ho altra lettura di questa indifferenza che la complicità. Possiamo anche aggiungere a questo il discorso che “ora dobbiamo prima difenderci dalle aggressioni esterne e risolveremo la questione della corruzione e degli abusi di potere in seguito”, come posizione ideale per difendere gli interessi dei corrotti.

Ogni governo, indipendentemente dal suo colore politico, è il primo responsabile delle azioni delle sue forze dell’ordine. Posso capire un progetto rivoluzionario anticapitalista solo come qualcosa che è basato su una profonda sensibilità umanista. Credo che partendo da questa sensibilità non sia tollerabile un solo caso di tortura nelle carceri e nemmeno una sola esecuzione sommaria. Un solo caso dovrebbe bastare al più alto livello di governo per offrire al popolo (Chavista e non Chavista) prima le più sincere scuse pubbliche e poi un “mai più”. Non reagire o reagire in ritardo e in modo poco convinto significa essere complici.

L’8 agosto di quest’anno, Carlos Lanz, esperto di guerre non convenzionali, uno degli intellettuali rivoluzionari più coerenti e lucidi del Paese, scompare in modo molto strano dalla sua casa di Maracay. Il governo, che si vanta di avere servizi di intelligence in grado di infiltrarsi in organizzazioni terroristiche negli Stati Uniti e in Colombia, che negli ultimi mesi ha dato la caccia con successo a mercenari in tutto il territorio venezuelano, reagisce con un chiaro ritardo, e ora, un mese e mezzo dopo il rapimento politico di Carlos Lanz, non può presentare alcun risultato della sua ricerca. Non possiamo accusare nessuno in questo momento, ma la debole e tardiva reazione del governo non è chiaramente ciò che Carlos Lanz meritava. E la sua ricerca attuale, più che una priorità urgente del governo, sta diventando sempre più un compito delegato alla sua famiglia, agli amici, agli attivisti e alle organizzazioni sociali che hanno poco o niente a che fare con le strutture di potere.

Il 22 agosto, Andrés Eloy Nieves Zacarías e Víctor Torres, due giovani giornalisti venezuelani del canale televisivo Guacamaya nello stato di Zulia, entrambi chavisti, sono stati assassinati in un’operazione delle FAES. Le FAES li hanno presentati come “criminali uccisi in uno scontro”. Grazie alla rapida e tempestiva reazione della comunità è stata dimostrata la montatura della polizia, il movente del crimine è stato apparentemente il furto dell’attrezzatura televisiva, e nove agenti delle FAES sono agli arresti.

Altri due giovani chavisti, ingegneri che lavoravano al PDVSA, Aryenis Torrealba e Alfredo Chirinos, sono stati arrestati dalla Direzione Generale del Controspionaggio Militare (DGCIM) il 28 febbraio 2020 dopo aver denunciato gli scandalosi atti di corruzione dei loro capi. Il ministro dell’Interno Néstor Reverol si era detto certo che fossero traditori del Paese e che stessero trasmettendo informazioni ai servizi segreti statunitensi. Sono stati torturati. Diversi movimenti sociali venezuelani hanno chiesto, finora senza successo, la loro liberazione. Qualche giorno fa, dopo una grande pressione pubblica, sono state ritirate le accuse di tradimento.

Un importante rivoluzionario della città di Guiria nello stato di Sucre, il professor José Carmelo Bislick Acosta, che aveva denunciato ripetutamente il traffico di benzina e la corruzione delle autorità, è stato rapito dalla sua casa il 17 agosto 2020 da diverse persone mascherate e successivamente ucciso dopo una brutale tortura. Finora non è stato fatto nulla per far luce sul crimine.

Pochi giorni fa, il 17 settembre di quest’anno, nello stato di Apure, le FAES hanno fatto irruzione nelle proprietà del Partito Comunista Venezuelano e rivale del PSUV, per intimidire Franklin González, il candidato dell’Alternativa Popolare Rivoluzionaria per le prossime elezioni. Questo, insieme a diversi attacchi, provocazioni, pestaggi e minacce nei giorni scorsi contro i leader comunisti da parte di agenti statali e gruppi filogovernativi a Caracas, Valencia, Bolivar, Miranda e in altre parti del paese. Oltre al Partito Comunista, altre organizzazioni della sinistra venezuelana sono state attaccate e minacciate dal governo e dalle sue forze di sicurezza.

Il tutto è accompagnato dagli appelli a “non dividere il Chavismo” e a “mantenere l’unità rivoluzionaria”. Forse il discorso più onesto dei potenti dovrebbe suonare più o meno come “Sostienici, perché se ci sconfiggono, quelli che verranno dopo ti daranno la caccia e ti uccideranno molto più di noi”.

Ripetendo il noto paradigma razzista latino e nordamericano, le FAES, come i loro colleghi brasiliani, colombiani o honduregni, uccidono soprattutto i meticci, i neri e i poveri; i più indifesi economicamente e legalmente sempre sospettati di essere criminali.

Quel bel pollaio messo a soqquadro da Chávez, dove i quartieri più poveri si sentivano finalmente degni e importanti, e dove fino a qualche anno fa le persone erano disposte a morire per difendere il proprio governo, è ormai un ricordo del passato. Gli uomini mascherati con il teschio come insegna, in nome di un governo che sostiene di essere Chavista, le riportano a forza indietro al loro posto di sempre.

Potranno dirci che tutti i processi rivoluzionari hanno il loro logorio e le loro battute d’arresto. Questo può essere vero, e aggiungiamo che possono anche avere i loro punti di non ritorno. Nel caso della bella rivoluzione nicaraguense questo accadde quando i leader sandinisti, dopo aver perso un’elezione, distribuirono attraverso la famosa “pignatta” le proprietà della dittatura di Somoza, già espropriate dopo la rivoluzione per il popolo. E sotto lo stesso vessillo del mille volte eroico Fronte di Liberazione Nazionale Sandinista, hanno cominciato a stringere nuove alleanze con la destra e a perseguitare i loro ex compagni che li accusavano di tradimento e corruzione.

Perché la rivoluzione cubana, che è molto più antica di quella nicaraguense o venezuelana ed è molto più vicina all’impero, che forse ha sempre avuto più problemi di qualsiasi altra rivoluzione dell’emisfero, dopo aver commesso tutti gli errori del mondo è riuscita a evitare gli orrori e non ha ancora visto una sola esecuzione extragiudiziale, una scomparsa o una tortura? Non sarà forse questo il vero segreto della sua lunga vita e della sua infinita capacità di resistenza?

Ai tempi di Stalin in Unione Sovietica c’era un detto: “Quando tagliano la foresta, le schegge volano via”. Se non si capisce, la foresta, secondo la visione stalinista, erano i “nemici del popolo” e le schegge erano le vittime innocenti.

Ho sempre voluto pensare che, parlando delle rivoluzioni anticapitaliste di questo nuovo secolo, tutti noi potessimo partire da qualche insegnamento del passato.

La cosa più difficile della fine del XX secolo è stata la caduta di quasi tutti i “socialismi reali” che evidentemente non hanno superato la prova della storia. Al di là delle operazioni segrete della CIA e di altre organizzazioni nemiche, al di là delle eterne pressioni, provocazioni e intrusioni dei governi imperialisti mondiali – eventi assolutamente reali che sono una costante e anche un dato di fatto -, c’è qualcosa che ha indebolito queste società alternative al capitalismo dall’interno. Qualcosa che è stata la causa principale della loro caduta. Penso che sia stata la mancanza di potere reale del popolo e l’eccesso di potere delle burocrazie che tendono sempre a parassitare il corpo dello Stato fino alla fame mentre ci parlano sempre a nome del popolo. Nessun vero potere popolare parlerà mai del popolo come di “schegge” o vedrà le masse di persone come materiale da costruzione. Penso che la nostra principale lezione del passato sia che i fini e i mezzi sono sempre gli stessi.

Ecco perché oggi mi vergogno tanto della posizione di tante forze di sinistra, che non fanno altro che giustificare i loro silenzi e le loro omissioni con ragioni “congiunturali” e “di convenienza”. In Unione Sovietica ci è stato insegnato a non criticare il governo per “non dare argomenti al nemico”. È così che abbiamo imparato ad essere ipocriti. E in questo modo abbiamo anche perso un Paese meraviglioso dove un governo sempre più distante dal suo popolo e dalla sua realtà, nel suo discorso trionfalista e demagogico, non ha mai saputo scoprire e occuparsi per tempo dei veri problemi della sua gente. Proprio per questo ora abbiamo, al posto delle 15 repubbliche socialiste sovietiche, i 15 Stati semicoloniali, lacerati da guerre e dittature, in competizione tra loro nel loro livello di anticomunismo e nella costruzione dei loro capitalismi da terzo mondo.

E rispetto alla convenienza e alle congiunture, capisco che forse l’unica cosa che differenzia radicalmente i rivoluzionari dagli altri, è il loro rifiuto di cercare o seguire le prudenze, le congiunture o le convenienze, e la loro capacità di costruire insieme agli altri, nei momenti più folli e inopportuni della storia, le nuove realtà che imporranno al mondo altre congiunture, più interessanti e con più possibilità per tutti.

E se gli Stati Uniti invadono il Venezuela e l’ala di ultra destra venezuelana realizza il suo decennale sogno di scatenare un bagno di sangue, come ci sentiremo? Di certo molto male, ma non ci sentiremo complici di chi ha dirottato il sogno più bello che il popolo abbia mai avuto.

Traduzione dallo spagnolo di Silvia Nocera. Revisione: Manuela Donati.

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