La presenza!

di Yeilén Delgado Calvo

Guevara abbaglia perché fa rabbrividire e, soprattutto, sfida con la sua capacità di demolire i sensi comuni accomodanti. Non ha chiesto di fare nulla che non fosse in grado di fare e lo ha fatto. Sconfigge così il tempo e allerta gli ignari, rinascendo fino alla vittoria, sempre.

Ci sono morti che non sono vere. Ci sono quelli che escono da quel vuoto per sempre, più vivi. Basta guardare l’ultima foto del Che, quella del corpo allo stesso tempo rigido e vibrante, per confermare ai suoi occhi il mistero di un’essenza tra noi.

“È un viso sereno, grave e bello, incorniciato dai capelli e dalla barba abbondanti con cui erano rappresentati profeti e santi, quello di quell’eroe d’America, del mondo, che giace lì. Sembra che, anche morto, quella presenza abbagliante li bruci“, ha descritto così la scena Roberto Fernández Retamar, che ammirava Guevara con la lucidità di un poeta e rivoluzionario.

Le sue parole registrano la resurrezione della guerriglia, impensabile per gli assassini; uccidendolo hanno promosso una leggenda con radici così reali che ancora oggi lo temono.

Quell’eroe sarebbe in grado di scuotere la Terra. Persino i nemici si inchinavano a tanta grandezza. Anche il cuore duro e il temperato sentivano che le lacrime rimanevano nelle loro anime. Se alcuni non sono stati in grado, anche allora, di vedere e capire, è perché non saranno mai in grado di vedere o capire. Si sono trasformate in statue di sale e la storia spietata le sbriciola come polvere.

Così cammina, con lo scudo sul braccio, Che, Guevara, San Ernesto de la Higuera …, in pose fatiscenti per la sopravvivenza. A giudizio del loro pensiero acuto, di valutazioni sobrie e clamorose, conformisti o simulatori non possono sfuggire. L’utopia che serve a continuare a camminare si avvicina pericolosamente se lo incoraggia.

Il Che lascia perplessi i servi del denaro, che nonostante tanti tentativi non riescono ad addolcire il suo nome o a trasformarlo in una semplice metafora della ribellione giovanile che l’età guarisce, in un souvenir sbiadito dalle implicazioni comuniste.

Haydée Santamaría, convinta che “un proiettile non può finire all’infinito”, ha spiegato come pochi altri questo fenomeno di eternità che non impallidisce, in una lettera all’amico morto e presente:

«Questo grande popolo non sapeva quali diplomi ti avrebbe dato Fidel. Li ha messi: artista. Pensavo che tutte le lauree fossero poche, ragazzi, e Fidel, come sempre, ha trovato quelle vere: tutto quello che hai creato era perfetto, ma hai fatto una creazione unica, hai fatto te stesso, hai dimostrato come è possibile quell’uomo nuovo, avremmo visto tutti così che quell’uomo nuovo è una realtà, perché esiste, sei tu».

www.granma.cu


IL FARO DELL’ESEMPIO

 

La vita del Che è stata sostenuta dalla coerenza tra il suo pensiero e la sua azione. Questa è la più grande eredità e l’impegno eterno di ciascuna delle generazioni che vedono nella sua figura il paradigma di un rivoluzionario.
Non posso trovare un’immagine più tremendamente rappresentativa della trasparenza e dell’esempio, della nobiltà e del coraggio, di quella in cui appare con il petto scoperto e gli occhi fissi sulla meta, come se nulla fosse in grado di allontanarlo dal sentiero, mentre spinge una carriola nel mezzo del primo volontariato dove contadini, operai, giovani… si uniscono a lui per costruire il futuro dei ragazzi della Sierra Maestra sotto forma di scuola.
Questa, per me, è la definizione più accurata di ciò che un leader rivoluzionario dovrebbe essere: sporco di fango fino alle ginocchia se deve seminare; con una suola rossa di terra se la fabbrica deve produrre più nichel; pranzare in una mensa per operai se vuole davvero sapere di cosa ha bisogno il minatore, cosa pensa la sarta, cosa manca al dottore, l’angoscia e i sogni del contadino… insomma, la vita che vive questa massa pensante che è la gente, e che ha bisogno di sapere che chi glielo chiede e glielo promette è prima capace di sentire e di fare.
Perché, come ha detto nel suo discorso in occasione dell’assegnazione dei premi agli operai di spicco da parte del Ministero delle Industrie il 30 aprile 1962, “coloro che fanno la storia, coloro che la fanno giorno per giorno attraverso il lavoro e la lotta quotidiana, coloro che la firmano e la realizzano nei grandi momenti, sono la classe operaia, sono gli operai, sono i contadini, siete voi, compagni, i creatori di questa Rivoluzione, i creatori e i sostenitori di tutto ciò che c’è di buono in essa”.
L’uomo che ha parlato così ai suoi coetanei è il faro che cerco quando la notte non è abbastanza luminosa e servono decisioni, quando appare un bivio e bisogna scegliere tra comodità, piacere, convenienza e dovere; ma è anche la “verga” con cui misuro chi chiama, chi chiede, chi chiede sacrifici. Questo è, per me, l’esempio del Che: un misuratore di forza morale, un rivelatore di integrità rivoluzionaria, una guida all’onestà.
Dobbiamo stare attenti a non idealizzare il Che, perché si trova su piedistalli irraggiungibili, dove il suo esempio ci rende piccoli di fronte alla grandezza della sua intrepidezza, dove non ci mobilita a ripensare le cose, dove non è lui il motore delle nostre lotte o l’interrogante delle nostre realtà, Ci sarà un guerrigliero di marmo o di bronzo, ma non l’eroe di tutti i giorni che portava consapevolmente il peso della propria etica, che consisteva nelle sue azioni che riflettevano la sua parola, e la sua guerra, la difesa della giustizia e dei diseredati.
Per seguire la strada tracciata dal Che, non basta mostrare la sua immagine su una maglietta o recitare due o tre delle sue frasi popolari, ma “considerare tutto ciò che non si capisce; discutere e chiedere chiarimenti su ciò che non è chiaro; dichiarare guerra al formalismo, a tutti i tipi di formalismi”. Essere sempre aperti a nuove esperienze”. Questo è stato il suggerimento che ha dato alla gioventù comunista del suo tempo e che, alla fine, ci sembra di ripetere ogni giorno, come se ci richiamasse alla sincerità di fronte a ciò che non capiamo o non condividiamo.
Il Che è il conquistatore delle moltitudini, l’agglutinatore per eccellenza, indipendentemente da fedi, lingue, nazionalità e persino posizioni politiche. Ci sono scettici in tutto il mondo che non hanno altra religione che l’esempio del Che, e il segreto può risiedere proprio nella coerenza con cui ha vissuto da quando ha iniziato a predicare con la voce del rivoluzionario.
Non ha mentito quando ha detto di non aver lasciato nulla di materiale ai suoi figli e a sua moglie, prima di lasciare Cuba; non ha mentito nemmeno quando ha assicurato, “a rischio di sembrare ridicolo, che il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d’amore”. È impossibile pensare a un vero rivoluzionario senza questa qualità”.
È stato quell’amore per l’umanità e per i diseredati che non gli ha permesso di rimanere a godere dell’affetto filiale, al riparo della casa; è stata quella coerenza con il suo stesso pensiero che lo ha spinto a dimettersi dalle sue posizioni e dalle sue responsabilità per partire per un futuro incerto, con lo scopo di eliminare le ingiustizie, come un quixote guevariano. E se non fosse morto per mano di agenti assassini nella pienezza della sua esistenza, se la CIA non fosse intervenuta per paura della sua guida e del suo esempio, il Che si sarebbe comunque “disonorato”. La figlia Aleida Guevara ha sostenuto questa certezza, in un’intervista rilasciata al giornale Vanguardia, quando ha dichiarato:
“Credo che abbia adempiuto a quello che diceva sempre, perché molto giovane ha detto che quando sentiva l’odore della polvere da sparo e del sangue, sarebbe stato al fianco degli operai, degli umili, e lo ha fatto. In qualche modo, il Che continuerebbe oggi al fianco del nostro popolo. Partecipare e richiamare la nostra attenzione. Rettificare i nostri errori.
È per questa ragione compromettente e inappellabile che non dobbiamo permetterci il sacrilegio di togliere l’essenza di Guevara del nostro cammino quotidiano, perché se c’è qualcuno che non ci ha mai chiesto più di quanto potesse dare, anche contro il suo stesso interesse e a rischio della sua stessa vita, quello è il Che.
Traduzione:

ASSOCIAZIONE NAZIONALE DI AMICIZIA ITALIA-CUBA

CHE GUEVARA: 8 OTTOBRE, UN GIORNO FATIDICO NELLA QUEBRADA DEL YURO

 

Il ricordo di eventi travolgenti trova, nella sua esistenza, un permanente desiderio di corroborare il modo e le circostanze in cui sono accaduti, anche quando sono passati 53 anni, come è accaduto con il combattimento intrapreso nella Quebrada del Yuro l’8 ottobre 1967, un luogo inospitale e remoto della geografia boliviana.
Quel giorno, 17 dei guerriglieri che dal novembre dell’anno precedente avevano iniziato la lotta per la vera emancipazione del popolo boliviano sono arrivati a Quebrada del Yuro, nell’ambito della strategia concepita dal comandante Ernesto Che Guevara nel suo progetto politico di lotta per la liberazione dei popoli del Terzo Mondo, e in particolare dell’America Latina.
Da questi obiettivi nacque il movimento di guerriglia organizzato in Bolivia, formato all’epoca da uomini provenienti da tre dei Paesi con esperienze e background rivoluzionari per realizzare il progetto: cubani, boliviani e peruviani; tutti con una vocazione alla solidarietà e alla militanza, pronti ad ottenere ciò che era stato loro negato in secoli di sfruttamento.
I profili che sono stati scritti su questi uomini sono stati spesso ingiusti, falsi e privi di obiettività nelle loro valutazioni, con l’unico scopo di distorcere il merito che costituisce il dare la vita, se necessario, per raggiungere la liberazione totale.
In quel giorno fatidico, in cui alcuni sono morti in combattimento, altri sono stati vilmente assassinati e i più pochi sono stati fatti prigionieri e poi assassinati in silenzio e con la complicità della forza bruta, c’è stato il più perseguitato e vilipeso di tutti, Che Guevara, portato, legato e ferito, a La Higuera, una città perduta nell’oblio ma tristemente rinata dopo quegli eventi.
Il piccolo gruppo di combattenti che quel giorno viaggiava lungo le strade che davano accesso alla Quebrada, era composto anche da cubani, boliviani e peruviani, forse per la possibilità della storia di dimostrare il valore di una indiscutibile pagina di unità e dedizione. Il percorso è stato difficile ed estenuante per loro a causa della repentinità del luogo, senza vegetazione né acqua, a cui si è aggiunta la loro condizione fisica come conseguenza della mancanza di cibo, delle malattie e della stanchezza delle lunghe camminate, cercando di sfuggire al nemico che li inseguiva come preda e “trofeo” di guerra, per l’audacia di affrontarli e dando volto ad una forza maggiore che li teneva sotto controllo per lunghi mesi.
Questa indiscutibile verità ha causato odio, risentimento e sete di vendetta, senza dimenticare o trascurare che in ogni lotta si muore o si vive e non cessa di avere la sua dolorosa angolazione da entrambe le parti che viene rappresentata, un elemento importante per chi di solito analizza il fatto solo da quel prisma. Per lo stesso motivo, si è cercato di eliminare o ridurre al minimo il numero di battaglie in cui questo piccolo gruppo di uomini ha dimostrato coraggio e dedizione, la probabilità di azione in una tale lotta contro un nemico che è superiore in numero e armi, e il valore del morale e della coscienza del guerriero di fronte all’avversario.
Naturalmente, un’altra analisi e maggiori dettagli sarebbero necessari per confermarlo, oltre a tutto ciò che è stato riflesso da studiosi e specialisti di molteplici posizioni e ideologie.
Le poche testimonianze attendibili, soprattutto quelle raccolte nei diari scritti dai combattenti, riproducono, in brevi frasi, la marcia verso l’imminente ricerca di una via d’uscita per ricostituire le forze, riorganizzarsi e trovare un’area più sicura per l’approvvigionamento.
In questo modo arrivano alla Quebrada, che diventerebbe una trappola senza altre alternative, poiché l’uscita è diventata molto difficile. Tuttavia, analizzando attentamente il luogo e rilevando l’esistenza di una forza superiore pronta ad eliminarli, Ché e la sua piccola truppa sono in grado di organizzare una strategia degna di essere studiata, anche se non sono riusciti a sfuggire al nemico e i risultati non sono stati come ci si aspettava.
Secondo le testimonianze esistenti, il Che decise di dividere il gruppo in tre fianchi: destro, centrale e sinistro, organizzati in modo tale che gli uomini con più esperienza avrebbero coperto la zona con più possibilità di uscita e difesa per assicurare le azioni concordate; l’altro, in un cannone laterale con lo stesso scopo, ma presumibilmente di minore intensità nel fuoco nemico; e il centro, guidato dal Che, con l’obiettivo di coprire i combattenti malati in modo che potessero uscire dall’assedio e avanzare verso luoghi più sicuri.
Senza alcuna valutazione estrema, questa decisione presa dal Che esalta l’umanesimo che lo ha sempre caratterizzato perché, lasciando da parte la sua sicurezza individuale, ha deciso di stabilire una linea che gli permettesse di salvare i più indifesi e malati, per poi procedere a rompere l’assedio.
Queste decisioni non sono mai state evidenziate con il senso della verità, perché il vincitore cerca sempre di minimizzare l’avversario, ma la verità è che quello che è successo nella Quebrada del Yuro e la strategia sviluppata dal Che e dai combattenti merita di essere preso in considerazione per il proprio esito, al di là dell’avverso, della sua prigionia e della decisione di ucciderlo.
Il resoconto di quanto è stato fatto ci permette di concludere, tra gli altri elementi, che la fiducia riposta dal Che nei più esperti è stata estremamente positiva perché, alla lunga, sono stati loro a riuscire a rompere l’assedio e a diventare gli unici sopravvissuti della guerriglia. Il gruppo di malati è riuscito a sfuggire ai soldati e a fuggire, venendo selvaggiamente ucciso mentre si nascondeva in attesa di un momento adatto per spostarsi in un luogo più sicuro. Infine, il Che e il boliviano Willy (Simón Cuba) -dopo aver mandato il boliviano Aniceto Reinaga a controllare altre posizioni, a quel punto viene individuato dal nemico e muore-, vengono visti dai soldati e catturati irrimediabilmente. L’atteggiamento eccezionale di Willy, che cerca di far uscire il Che dal burrone, già circondato, con il fucile disarmato e con una ferita alla gamba, riassume il rispetto e l’ammirazione per il capo che è venuto a riaffermare che questa lotta offre la possibilità di convertire gli uomini “nel gradino più alto della specie umana”, la vera essenza dell’essere rivoluzionario.
La storia di quanto accaduto dopo la sua prigionia non è mai stata del tutto vera, come la raccontano i protagonisti o i testimoni boliviani, dapprima pieni di timore di future rappresaglie per comportamenti scorretti, di una sfrenata sete di vendetta e di un trionfalismo piratesco; e poi usati per cercare di cancellare la barbarie e la barbarie degna dei più crudeli torturatori nazisti.
È vero che la guerra lascia amare conseguenze da entrambe le parti, con la presenza di uomini disposti a difendere il loro onore, ma ciò non elimina la crudeltà impiegata con il nemico imprigionato, ha portato a umiliazioni e punizioni sproporzionate. La narrazione delle particolarità né la sua essenza non impedisce di giudicare ciò che è accaduto, quando la conoscenza dei combattenti ai quali è stato negato il minimo aiuto e che sono stati lasciati abbandonati fino all’ultimo respiro, si aggiunge alle umilianti molestie nei confronti del Che e al trattamento ricevuto, in cui spicca l’atteggiamento virile di quest’ultimo senza scoraggiarsi o cedere alla pressione e all’indegnità della vanagloria del prigioniero in suo potere, per concludere con un vile omicidio, senza processo, solo un regolamento di conti per decisione della forza bruta.
Questa è la fine di una decisione che molti dei protagonisti hanno sentito per anni come una persecuzione incessante, nel loro desiderio di nascondere e falsificare la verità, per seppellirla. Si è potuto portare alla luce solo dopo 30 anni, quando, dopo un’approfondita indagine scientifica, sono stati scoperti i resti dei compagni caduti. In una delle tombe aperte dall’esercito per seppellirli, nella città di Vallegrande, i resti del Che appaiono insieme a 6 dei guerriglieri, con il singolare dettaglio che le tre nazioni sorelle erano nel loro ultimo atto prima della storia, proprio come è successo a La Quebrada: cubani, boliviani e peruviani, confermando così la dimensione della statura di uomini disposti a combattere per la definitiva emancipazione dei popoli.
Traduzione:

ASSOCIAZIONE NAZIONALE DI AMICIZIA ITALIA-CUBA
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