Jorge Suñol Robles, Andy Jorge Blanco www.cubadebate.cu
Più di una volta ci siamo chiesti cosa saremmo stati, noi cubani e quest’isola, senza blocco. Più di una volta abbiamo preferito non scrivere sul tema, perché abbiamo creduto che dopo quasi sessant’anni di assedio non ci sia nulla di nuovo da apportare o sottolineare. E forse in questo abbiamo sbagliato, ma è vero: le nostre lezioni e libri di storia ci hanno riempito di un discorso che, a volte, è lontano dalla realtà, e questo ha fatto sì che alcuni dicano … “blocco, ancora?”
La domanda è quasi permanente negli esami. Lo studente impara, quasi a memoria, le cause ma non interiorizza le conseguenze. Viene promosso, addirittura può ottenere il massimo dei voti, ma sa poco, in profondità, del fatto in questione.
Per capire come, noi cubani, abbiamo sofferto questa politica, e come ci siamo reinventati, per così tanti anni, bisogna uscire per le strade, percorrere i suoi edifici, camminare e dare la caccia a quelle storie di persone che non smettono di lavorare e vanno avanti, che entra in una coda e va ad un’altra, il contadino che combatte con la sua terra e produce, il medico che è stato espulso dalla sua missione in Brasile perché Bolsonaro ha deciso di imitare Trump, il giovane giocatore di baseball, il calzolaio, l’orologiaio, il venditore di crocchette, i bambini malati di cancro… Tutti, in un modo o nell’altro, siamo stati vittime. It’s real. Il blocco è reale.
È proprio questo il merito più grande della miniserie documentaria ‘The War on Cuba’, prodotta da Belly of the Beast, media diretto dal giornalista USA Reed Lindsay, e composto da vari professionisti cubani e stranieri. In qualità di produttori esecutivi dell’audiovisivo si trovano Danny Glover e Oliver Stone, mentre il montaggio è stato affidato a René Alejandro Díaz.
The War … esce dal pamphlet, dal discorso meramente politico e umanizza, con varie testimonianze, le conseguenze del blocco sui cubani. Il primordiale: la selezione degli intervistati è diversificata e molto corretta quando sappiamo che, in soli tre episodi della durata di 10-20 minuti, si vuole offrire uno sguardo globale e giusto su un tema che non è affatto nuovo. La sfida, per la squadra, è stata tremenda.
“Abbiamo iniziato le riprese ad agosto. Inizialmente avevamo pianificato di dare la priorità alle storie al di fuori dell’Avana per mostrare un altro lato di Cuba che normalmente non è rappresentato nei media USA, ma ciò non è stato possibile a causa delle restrizioni per controllare la pandemia. Senza dubbio, la parte più difficile di questo processo è stata superare le limitazioni imposte dal nuovo coronavirus.
“Ad esempio, abbiamo affrontato la sfida di raccontare storie personali senza poter vedere i volti delle persone, perché indossavano la mascherina. D’altra parte, è stato difficile mostrare l’impatto delle restrizioni che Trump ha imposto al turismo quando non ci sono turisti a causa del COVID-19 “, afferma Reed Lindsay, direttore della proposta audiovisiva.
Partiamo da qualcosa. Belly of the Beast è un team di professionisti che mira a mostrare l’impatto della politica USA sulla gente dell’isola ed i vari modi che i cubani trovano per risolvere la situazione e sopravvivere. Il suo sguardo – rivolto soprattutto a un pubblico straniero – è quello di raccontare Cuba dalla sua gente, dai diversi spazi e livelli sociali, politici e culturali. The War on Cuba ne è la prova più diretta e recente.
Quali sono stati i motivi per sviluppare una proposta di questo tipo? Come hanno selezionato le storie? Come dare diversità e coerenza alle varie testimonianze? Quale messaggio vuoi rendere chiaro al pubblico? Una parte della squadra di questo progetto ha risposto a queste e ad altre domande.
Reed si stupisce quando molti statunitensi commentano, erroneamente, che l’amministrazione Barack Obama ha posto fine al blocco. Ed è che non pochi media USA cercano di decontestualizzare la realtà dell’isola.
“A Cuba è inevitabile essere informati del blocco, non solo per la copertura della stampa nazionale, ma anche per la stessa esperienza di vivere le sue conseguenze giorno dopo giorno. Ma il nostro pubblico USA è scarsamente informato sull’impatto delle politiche USA e sugli interessi dietro ad esse.
“Il nostro obiettivo è stato quello di mostrare la realtà del blocco il più profondamente possibile e in un modo che coinvolga e commuova un giovane pubblico USA che sa poco di Cuba ed, ancor meno, delle politiche del proprio paese nei confronti dell’isola. D’altra parte, affrontando questo tema con una nuova prospettiva ed attraverso forti storie personali e un alto livello di produzione, speriamo che questa serie possa interessare anche il pubblico cubano”, afferma Reed Lindsay.
Maité Rizo Cedeño è una giornalista e produttrice della miniserie. Per lei questa non è la sua prima esperienza di documentario, sebbene la consideri quella con la maggiore responsabilità. Racconta che lo scopo della squadra è consistito sempre nel mostrare, “nel modo più imparziale possibile”, come il blocco danneggi, giorno per giornio, la vita dei cubani:
“Abbiamo scelto storie di tutti i giorni, che si ripetono in tutti i paesi dell’isola. Mostriamo imprenditori, impresari privati, contadini, persone che, senza neppure tenere posizioni politiche, pagano il prezzo delle misure imposte ‘contro il governo Castro per salvare i cubani dal comunismo’ ed altri motivi che hanno giustificato il blocco per sessant’anni”.
Quindi ‘The War on Cuba’ si è concentrata nella ricerca di storie di persone che hanno trovato modi per resistere, risolvere, andare avanti nonostante i problemi, storie rappresentative della realtà cubana che offrono esempi concreti dell’impatto delle politiche del Governo USA. Per questo, molto prima delle riprese, c’è stato un periodo di indagini.
“Abbiamo lavorato per molti mesi prima di iniziare a girare ‘The War on Cuba’. Siamo partiti da zero, non solo con questo progetto, ma con Belly of the Beast, un nuovo media che, di recente, si lancia ufficialmente quest’anno. Abbiamo dovuto definire la nostra squadra e la visione per la serie di documentari e, d’altra parte, è stato necessario sviluppare un piano di distribuzione.
“Una parte del nostro piano è stata quella di pubblicare lavori di giornalismo investigativo che accompagnassero i diversi episodi al fine di poter ampliare la portata dei video, e anche perché un articolo offre possibilità di approfondimento, cosa difficile o impossibile in un audiovisivo. I membri della nostra squadra hanno pubblicato articoli su The Nation e The Miami New Times, tra altri media”, riflette Lindsay.
Per Reed -vincitore di un Emmy Award- era necessario raccontare gli episodi di ‘The War on Cuba’ dalla voce e dall’immagine di un protagonista: “Avevamo considerato la possibilità di avere diversi presentatori per ogni puntata, ma siamo stati fortunati a trovare un giornalista con talento e carisma per poter presentare la serie completa. I copioni erano strutturati, soprattutto, sulla base di storie personali e, d’altra parte, la connessione che la presentatrice aveva con ogni tema”.
Con un tono disinvolto, colloquiale e persino interrogativo, Liz Oliva Fernández, giornalista e conduttrice della miniserie, è colei che collega e guida ciascuna delle testimonianze. Senza togliere interesse alle storie ed alle interviste, svolge ampiamente il suo ruolo, sebbene, a volte, sembri più vicina ed, altre, puramente professionale.
“La possibilità di parlare con tutte queste persone è stata estremamente preziosa per me, non solo come giornalista, ma come essere umano. Sono persone incredibili che vanno avanti, cubani normali, con un’incredibile resilienza. Allo stesso tempo, era difficile per me non indignarmi per tutto questo. Penso che una delle qualità dei cubani che suscita la maggior ammirazione sia la capacità di reinventarsi più e più volte. Mi chiedo solo perché tutto debba essere così difficile per noi, perché dobbiamo continuare a cercare alternative finché non ci stanchiamo, perché dobbiamo sopravvivere invece di vivere”, dice Liz.
In un momento del primo capitolo, dici che i cubani sono annoiati di sentire parlare del blocco tutto il tempo, ma che questo è reale. Come pensa Liz che dovrebbe essere raccontata questa politica contro Cuba affinché sia ben accolta dalla gente?
“Penso che la cosa fondamentale sia uscire dal discorso comune, dal pamphlet. Smettere di parlare del blocco in modo generale ed approfondire nelle particolarità, raccontare le storie umane dietro la politica. Non credo, infatti, che ci sia un cubano dentro o fuori l’isola che non sia stato colpito dal blocco almeno una volta nella vita. L’hanno già visto nelle storie di Ernesto, Xian, Idania, Sergio, Luis, Lyhen, Misael, Yohandra, Mario, Talía e Juan Jesús. La lista è immensa, perché ognuno di noi è danneggiato in modo diverso dal blocco.
“La mia generazione è cresciuta sentendo parlare del blocco, secondo me, troppo e con molta poca efficacia. Forse perché, a volte, sembrano essere scuse o perché, semplicemente, non l’abbiamo spiegato bene, ed è qualcosa che ho apprezzato molto della serie di documentari. Essendo per un pubblico esterno, è stato necessario raccontare come funziona la politica USA verso Cuba con mele e pere in modo che tutti potessero capire, e credo che all’interno dell’isola ciò manchi. Penso che sia un debito che, come giornalisti, abbiamo con la gente. Quindi, se mi chiedi da dove cominciare, ti direi di porre tutto allo scoperto e spiegarlo al nostro pubblico come realmente ci danneggino le decisioni prese a 90 miglia di distanza”.
Le storie de ‘The War on Cuba’ mostrano, con un linguaggio semplice e preciso, che un contadino non può usare la protesi della gamba di cui ha bisogno, che un altro cubano che guida un bici-taxi all’Avana Vecchia ha visto i suoi affari ridotti a causa delle restrizioni viaggio degli USA all’isola. Insegnano, inoltre, senza eufemismi, come danneggia l’economia nazionale e personale la persecuzione dei collaboratori medici del paese in altre terre, e perché un lavoratore agricolo deve ricorrere a mezzi di trazione animale per la sua raccolto di alimenti, a causa del deficit di carburante dovuto alle misure coercitive della Casa Bianca contro l’Avana.
Sulla mancanza di greggio e la sua influenza negativa sulla vita di ogni cubano, Maité Rizo commenta che “Cuba ha dovuto riadattare il suo funzionamento con solo il 30% del petrolio di cui aveva bisogno. Detto in questo modo, sono solo cifre, ma quando vivi qui è frustrante vedere la tua gente aspettare per ore il trasporto pubblico, iniziare a cucinare con carbone e vedere fallire aziende private che, sino a poco tempo fa, fiorivano.
Maité è cresciuta sentendo parlare del blocco, anche quando “non capiva neppure cosa significasse essere cubana”. La produttrice di ‘The War on Cuba’ afferma che il suo lavoro come parte della squadra della miniserie le ha fatto “apprezzare l’impatto su molte persone che non possono avere medicine ed attrezzature sanitarie a causa dell’assedio economico, queste sono forse le storie più diffuse, ma Ho anche riconosciuto quante delle mie mancanze quotidiane dipendono dalle misure che gli USA impongono a Cuba. L’embargo, come lo chiamano loro è forse, per Washington, una strategia politica ma per più di 11 milioni di persone è un problema quotidiano”.
Per questo motivo, per Reed Lindsay, dirigere il progetto Belly of the Beast ha avuto la responsabilità di rendere chiaro al pubblico il costo umano delle misure USA contro i cubani, nonché gli interessi dietro quelle politiche.
“Al di là dell’esito delle elezioni presidenziali USA del prossimo novembre, dubito che la guerra economica contro Cuba finirà, quindi saremo aperti a fare altri lavori su questo tema in futuro”, aggiunge.
Allora come sarebbe Cuba senza blocco? Liz Oliva dice che immaginarlo è complesso:
“Non credo che nessuno lo sappia con certezza, perché il processo della Rivoluzione cubana ed il blocco hanno quasi la stessa età. Noi abbiamo tanti problemi interni, problemi che riguardano tutti, quelli dentro e quelli fuori (da Cuba ndt), ma che dobbiamo risolvere come cubani. Ma se a ciò si aggiunge che il paese più influente del mondo vuole schiacciare la tua economia nella speranza di promuovere un cambio di regime che risponda ai suoi interessi, la cosa si complica. Ed io credo fermamente che gli unici responsabili del nostro destino siamo noi cubani. Nessuno soffre di più di noi stessi di ciò che succede a Cuba ed alla sua gente”.
The War on Cuba: ¿Todo es culpa del bloqueo?
Por: Jorge Suñol Robles, Andy Jorge Blanco
Más de una vez nos hemos preguntado qué fuéramos nosotros, los cubanos y esta Isla, sin bloqueo. Más de una vez hemos preferido no escribir del tema, porque creemos que luego de casi sesenta años de cerco no hay nada nuevo que aportar o recalcar. Y quizás en ello nos equivocamos, pero es cierto: nos han llenado las clases y los libros de historia de un discurso que a veces se aleja de la realidad, y eso ha hecho que algunos digan… “¿bloqueo, otra vez?”.
La pregunta es casi permanente en exámenes. El estudiante se aprende casi de memoria las causas, pero no interioriza las consecuencias. Aprueba, incluso puede sacar la calificación máxima, pero poco sabe, a fondo, del hecho en cuestión.
Para entender cómo hemos sufrido los cubanos esta política, y cómo nos hemos reinventado durante tantos años, hay que salir a las calles, recorrer solares, caminar y cazar esas historias de gente que no para de trabajar y salir pa’lante, que entra en una cola y va para la otra, al campesino que se bate con sus tierras y produce, al médico que lo han expulsado de su misión en Brasil porque Bolsonaro ha decidido imitar a Trump, al joven pelotero, al zapatero, al relojero, al vendedor de croquetas, a los niños con cáncer… Todos, de una forma u otra, hemos sido víctimas. It’s real. El bloqueo es real.
Precisamente ese es el mérito mayor de la miniserie documental The War on Cuba, bajo la realización de Belly of the Beast, medio de prensa dirigido por el periodista norteamericano Reed Lindsay, e integrado por varios profesionales cubanos y extranjeros. Como productores ejecutivos del audiovisual se encuentran Danny Glover y Oliver Stone, mientras la edición estuvo a cargo de René Alejandro Díaz.
The War… se sale del panfleto, del discurso meramente político y humaniza con varios testimonios las consecuencias del bloqueo hacia los cubanos. Lo primordial: la selección de los entrevistados es diversa y muy acertada cuando sabemos que, en solo tres episodios de una duración de 10 a 20 minutos, se quiere brindar una mirada global y justa a un tema que no es para nada novedoso. El reto, para el equipo, fue tremendo.
“Empezamos a filmar en agosto. Originalmente habíamos planificado priorizar historias fuera de La Habana para mostrar otro lado de Cuba que normalmente no se ve representado en los medios estadounidenses, pero no fue posible por las restricciones para controlar la pandemia. Sin lugar a dudas, lo más difícil de este proceso ha sido navegar con las limitaciones impuestas por el nuevo coronavirus.
“Por ejemplo, enfrentamos el desafío de contar historias personales sin poder ver las caras de las personas, porque traían puesto el nasobuco. Por otro lado, ha sido difícil mostrar el impacto de las restricciones que impuso Trump al turismo cuando no hay turistas debido a la COVID-19”, cuenta Reed Lindsay, director de la propuesta audiovisual.
Partamos de algo. Belly of the Beast es un equipo de profesionales que pretende mostrar el impacto de la política norteamericana en el pueblo de la Isla y las diversas formas que los cubanos encuentran para resolver la situación y sobrevivir. Su mirada –dirigida, sobre todo, a un público extranjero– es la de contar a Cuba desde su gente, desde distintos espacios y niveles sociales, políticos y culturales. The War on Cuba es la prueba más directa y fresca de eso.
¿Cuáles fueron los motivos para desarrollar una propuesta de este tipo? ¿Cómo seleccionaron las historias? ¿Cómo darle una diversidad y coherencia a los diversos testimonios? ¿Qué mensaje quiere dejar claro en el público? Parte del equipo de este proyecto nos respondieron estas y otras cuestiones.
Reed se asombra cuando muchos estadounidenses le comentan, erróneamente, que la administración de Barack Obama puso fin al bloqueo. Y es que no pocos medios estadounidenses tratan de descontextualizar la realidad de la Isla.
“En Cuba es inevitable estar informado del bloqueo, no solo por la cobertura de la prensa nacional, sino por la propia experiencia de vivir sus consecuencias día tras día. Pero nuestra audiencia estadounidense es poco informada sobre el impacto de las políticas de Estados Unidos y los intereses detrás de ellas.
“Nuestro objetivo ha sido mostrar la realidad del bloqueo con la mayor profundidad posible y de una forma que engancha y conmueve a una audiencia joven estadounidense que sabe poco de Cuba y, menos todavía, de las políticas de su propio país hacia la Isla. Por otra parte, al abordar este tema con una perspectiva nueva y a través de historias personales fuertes y un nivel de producción alto, esperamos que esta serie también pueda ser de interés para la audiencia cubana”, apunta Reed Lindsay.
Maité Rizo Cedeño es periodista y productora de la miniserie. Para ella, esta no es su primera experiencia documental, si bien la considera la de mayor responsabilidad. Cuenta que el propósito del equipo consistió siempre en mostrar, “lo más imparcial posible”, cómo el bloqueo afecta el día a día de los cubanos:
“Elegimos historias cotidianas, que se repiten en todos los pueblos de la Isla. Mostramos emprendedores, empresarios privados, campesinos, personas que, sin siquiera tener posiciones políticas definidas, pagan el precio de las medidas impuestas ‘contra el gobierno de Castro para salvar a los cubanos del comunismo’ y otras razones que han justificado el bloqueo durante sesenta años”.
Así, The War on Cuba se centró en buscar historias de personas que han encontrado formas de resistir, de resolver, de salir pa’lante a pesar de los problemas, historias representativas de la realidad cubana que ofrecieran ejemplos concretos del impacto de las políticas del gobierno de Estados Unidos. Para eso, mucho antes de rodar, hubo un tiempo de investigación.
“Trabajamos durante muchos meses antes de empezar a filmar The War on Cuba. Comenzamos de cero, no solo con este proyecto, sino con Belly of the Beast, un medio nuevo que recién se lanza oficialmente este año. Tuvimos que definir nuestro equipo y visión para la serie de documentales y, por otra parte, fue necesario desarrollar un plan de distribución.
“Una parte de nuestro plan ha sido publicar trabajos de periodismo de investigación que acompañarían a los diferentes episodios para poder amplificar el alcance de los videos, y también porque un artículo ofrece posibilidades de profundizar, algo difícil o imposible en un audiovisual. Miembros de nuestro equipo han publicado artículos en The Nation y The Miami New Times, entre otros medios”, refleja Lindsay.
Para Reed –ganador de un premio Emmy– era necesario contar los capítulos de The War on Cuba desde la voz e imagen de un protagonista: “Habíamos considerado la posibilidad de tener diferentes presentadores para cada episodio, pero tuvimos la suerte de encontrar a una periodista con el talento y el carisma para poder presentar la serie completa. Los guiones fueron estructurados, sobre todo, en base a historias personales y, por otra parte, la conexión que la presentadora tenía con cada tema”.
Con un tono desenfadado, coloquial y hasta cuestionador, Liz Oliva Fernández, periodista y conductora de la miniserie, es quien enlaza y guía cada uno de los testimonios. Sin quitarle interés a las historias y los entrevistados, cumple con creces su papel, si bien a veces se vea más cercana y, en otras, puramente profesional.
“La posibilidad de conversar con todas estas personas fue sumamente valiosa para mí, no solo como periodista, sino como ser humano. Son gente increíble que echan pa’lante, cubanos de a pie, con una resiliencia increíble. Al mismo tiempo, me era difícil no indignarme con todo aquello. Creo que una de las cualidades de los cubanos que más admiración causa es la capacidad de reinventarse una y otra vez. Yo solo me pregunto por qué todo tiene que ser tan difícil para nosotros, por qué tenemos que seguir buscando alternativas hasta el cansancio, por qué tenemos que sobrevivir en vez de vivir”, cuenta Liz.
En un momento del primer capítulo, dices que los cubanos estamos aburridos de escuchar hablar sobre el bloqueo todo el tiempo, pero que este es real. ¿Cómo cree Liz que deba contarse esta política contra Cuba para que sea bien recibida por la gente?
“Yo creo que lo fundamental es salirse del discurso común, del panfleto. Dejar de hablar del bloqueo de manera general y profundizar en las particularidades, contar las historias humanas detrás de la política. De hecho, no creo que exista un cubano dentro o fuera de la Isla que no haya sido afectado por el bloqueo por lo menos una vez en su vida. Ya lo vieron en las historias de Ernesto, Xian, Idania, Sergio, Luis, Lyhen, Misael, Yohandra, Mario, Talía y Juan Jesús. La lista es inmensa, porque a cada uno de nosotros el bloqueo nos afecta de manera diferente.
“Mi generación ha crecido escuchando hablar del bloqueo, en mi opinión, en demasía y con muy poca efectividad. Tal vez porque a veces parecieran ser excusas o porque simplemente no lo explicamos bien, y eso es algo que agradecí mucho de la serie documental. Al ser para un público externo, había que contar cómo funciona la política de Estados Unidos hacia Cuba con manzanas y con peras para que todos pudieran entender, y creo que dentro de la Isla falta eso. Pienso que es una deuda que, como periodistas, tenemos con la gente. Así que si me preguntas por dónde empezar te diría que saquemos mangos y guayabas y le expliquemos a nuestra audiencia cómo realmente nos afectan las decisiones que se toman a 90 millas”.
Las historias de The War on Cuba muestran, con un lenguaje sencillo y preciso, que un campesino no puede usar la prótesis de pierna que necesita, que otro cubano que maneja bicitaxi en La Habana Vieja ha visto reducido su negocio a causa de las restricciones de viaje de Estados Unidos a la Isla. Enseñan también, sin eufemismos, cómo afecta a la economía nacional y personal la persecución a los colaboradores médicos del país en otras tierras, y por qué un trabajador agrícola tiene que recurrir a medios de tracción animal para su cosecha de alimentos, debido al déficit de combustible por las medidas coercitivas de la Casa Blanca contra La Habana.
Sobre la carencia del crudo y su influencia negativa en la vida de cada cubano, Maité Rizo comenta que “Cuba tuvo que reajustar su funcionamiento con solo el 30 por ciento del petróleo que necesitaba. Dicho así, son solo cifras, pero cuando vives aquí es frustrante ver a tu gente esperar por horas el transporte público, empezar a cocinar con carbón, y ver quebrar a los negocios privados que recién florecían”.
Maité ha crecido escuchando hablar del bloqueo, incluso cuando aún “ni entendía qué era ser cubana”. La productora de The War on Cuba cuenta que su trabajo como parte del equipo de la miniserie le hizo “apreciar el impacto en mucha gente que no puede tener medicamentos y equipos de salud debido al cerco económico, esas son quizás las historias más difundidas, pero también reconocí cuántas de mis carencias cotidianas dependen de las medidas que los Estados Unidos imponen sobre Cuba. El embargo, como lo llaman ellos, es quizás para Washington una estrategia política, pero para más de 11 millones de personas es un problema diario”.
Por ello, para Reed Lindsay, dirigir el proyecto de Belly of the Beast ha tenido la responsabilidad de que el público tenga claro el costo humano de las medidas de Estados Unidos contra los cubanos, así como los intereses detrás de esas políticas.
“A pesar del resultado de las elecciones presidenciales estadounidenses el próximo noviembre, dudo que la guerra económica contra Cuba se detenga, así que estaríamos abiertos a hacer otros trabajos sobre este tema en el futuro”, añade.
Entonces, ¿cómo sería Cuba sin bloqueo? Liz Oliva dice que imaginarlo es complejo:
“No creo que nadie lo sepa con certeza, porque el proceso de la Revolución Cubana y el bloqueo tienen casi la misma edad. Nosotros tenemos muchos problemas a lo interno, problemas que atañan a todos, los de dentro y los de fuera, pero que debemos resolver como cubanos. Pero si a eso le sumas que el país con más influencia del mundo quiere aplastar tu economía con la esperanza de fomentar un cambio de régimen que responda a sus intereses, la cosa se complica. Y yo creo firmemente que los únicos responsables de nuestro destino somos los cubanos. A nadie le duele más lo que sucede con Cuba y su gente que a nosotros mismos”.