USA-Venezuela. Joe Biden e la “collina da scalare”

Geraldina Colotti

Se le parole potessero bastare, i primi versi della poesia di Amanda Gorman, “La collina da scalare”, sarebbero già una presa d’atto, un’assunzione di responsabilità, la domanda giusta che indica la strada a un paese come gli Stati Uniti, in crisi conclamata. “Quando arriva il giorno ci chiediamo,/dove possiamo trovare la luce in questa ombra senza fine”? ha recitato la giovane poeta di origine africana, all’assunzione d’incarico di Joe Biden e Kamala Harris.

 

E il nuovo presidente di un paese blindato e ancora scosso per l’occupazione di Capitol Hill da parte dei fanatici trumpisti, è sembrato andare in quella direzione quando ha dichiarato: “Abbiamo molto da fare, molto da riparare, molto da curare, molto da costruire”. Ma se bastasse mettere su podio un’artista di origine africana, se bastasse rifarsi alla costituzione, alle promesse, agli antenati, gli Stati Uniti, e tanti altri governi capitalisti del mondo, non sarebbero quelli che sono: prodotto delle classi che rappresentano, degli interessi che ne determinano le scelte.

Per questo, quando Biden ha aggiunto che “gli Stati Uniti sono stati e continuano a essere una luce per il mondo”, già la nota è apparsa stridente, perché il “mondo” – quello che per i colonialisti vecchi e nuovi si chiama “terzo mondo” – sa quanto sia stata e sia sinistra quella “luce” che incombe sul destino dei popoli decisi a essere liberi. E, infatti, il discorso al Senato del neo-segretario di Stato Tony Blinken ha mostrato come, in politica estera (sulla Cina, sul Venezuela e sul Medioriente), Democratici e Repubblicani divergano solo nello stile. L’obiettivo degli uni e degli altri, è quello di far cadere i governi socialisti, nelle loro più diverse modulazioni: nel prosieguo di una tradizione che non conosce sfumature.

A districarsi tra ambiguità e “sfumature”, pensa la vecchia Europa che, non a caso, grazie all’appoggio dei media egemonici, è capace di coniugare mefiticamente ossimori come quello della “guerra umanitaria”, gettando bombe e parlando al contempo di pacifismo e diritti umani; oppure condanna l’assalto trumpista perché calpesta la democrazia, però mantiene in piedi la farsa dell’”autoproclamato”, che ha calpestato tutte le regole democratiche oltreché quelle di decenza.

Un vergognoso balletto di equilibrismi semantici e reticenze reali per cercare un appiglio e continuare a difendere l’indifendibile: Guaidó non è più “presidente a interim” e neanche deputato? Che importa, si può continuare a “riconoscere” eternamente “il parlamento eletto nel 2015”, come fulgido esempio di democrazia, aspettando l’imbeccata di Biden e cercando di riesumare il solito Gruppo di Contatto.

Intanto, le multinazionali dell’umanitarismo annunciano i temi con i quali si proverà a ricattare nuovamente il Venezuela e Cuba per arrivare all’auspicato “cambio di regime”. E, intanto, il vecchio carrozzone del golpismo venezuelano, con Carlos Vecchio in prima fila, rincorre una foto ricordo col nuovo padrone, in un affanno comico magistralmente descritto da Roberto Malaver (Malaverismo: Opositores viajan a la toma de posesión de Biden). Qui solo un piccolo estratto: “L’idea, come sempre, venne a Ramos Allup. Quando udì che Andrés Velásquez disse: ‘Pagherei qualunque cifra per andare all’assunzione d’incarico del compagno Biden’, all’uomo si è accesa la scintilla del quarto motore. Ricordò che il cognato possiede un aereo con 12 posti e, vai, organizzò il volo”.

Il Venezuela, nella persona del suo presidente legittimo, Nicolas Maduro, ha commentato così l’arrivo del nuovo presidente statunitense: “Spero che abbia fortuna nel maneggiare le questioni del suo paese, spero che abbia fortuna in una nuova politica di pace nel mondo, spero – indubbiamente – che non assuma come propria l’eredità crudele dei suprematisti contro il Venezuela e che rettifichi quelle politiche sul Venezuela”.

In politica interna, Biden ha annunciato alcuni decreti esecutivi che dovrebbero rispondere alle aspettative più urgenti del suo elettorato, eliminando o mitigando gli effetti più nefasti delle politiche suprematiste. In politica estera, ha promesso il rientro in alcuni accordi, come quello sul clima, o il rientro nell’Oms. Al “nazionalismo suprematista” di Trump dovrebbe subentrare un “multilateralismo” sulla scia di Obama. Ma, per capirne la sostanza, basta dare un’occhiata ai profili che conformano o affiancano le nomine del suo gabinetto.

Oltre la facciata progressista che ostenta una quota di rappresentanti dei diritti civili (movimenti LGBT, afro-statunitensi, nativi, donne, eccetera), quelli che “contano” sono i rappresentanti delle poderose lobby che determinano la tanto decantata “democrazia” nordamericana: multinazionali, grandi banche, terminali del complesso militare-industriale.

Uno dei più influenti think tank liberal, è il Center for American Progress, che ha presentato a Biden una proposta allettante: la costituzione della Nato Bank, la banca dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, che dovrebbe avere sede a Londra. Come il Fondo Monetario Internazionale, presterebbe soldi a un tasso di interesse imprecisato ai 30 paesi membri, per favorire l’ulteriore sviluppo di un’economia di guerra e delle infrastrutture correlate (grandi opere, trasporti, eccetera).

 Una istituzione che, in ogni caso, indebiterebbe i paesi contraenti e li renderebbe ulteriormente dipendenti dalle politiche dell’Alleanza e dalle spese per la Difesa. Un “multilateralismo” ben diverso da quello ideato da Cuba e Venezuela nell’Alleanza Bolivariana per i popoli della Nostra America (Alba), che ha proposto la messa in comune di vaccini e medicine contro il covid-19, così come delle scoperte scientifiche, perché vadano a vantaggio dei popoli e non delle grandi imprese multinazionali. Un “multilateralismo” assai diverso da quello della Celac, la Comunità degli Stati americani e caraibici che comprende 33 paesi americani tranne Stati Uniti e Canada, e che è stata dichiarata zona di pace.

La “luce” che emana dagli USA è di stampo assai diverso da quella che spinge il Venezuela, nonostante le feroci misure coercitive unilaterali imposte dagli Usa e dall’Europa, a portare 14.000 bombole di ossigeno alla città di Manaus, capitale dell’Amazzonia, nel Brasile del nazista Bolsonaro. Una notizia occultata dai media egemonici, impegnati invece a contrastare, con menzogne o dati distorti, le contromisure che il governo bolivariano sta cercando di prendere per sottrarsi all’asfissia delle “sanzioni”.

(Articolo per Cuatro F)

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