Geraldina Colotti
“America is back, diplomacy is back”, ha detto il presidente statunitense Joe Biden rivolto al dipartimento di Stato. Che tipo di diplomazia? A grandi linee la stessa tracciata nel documento The Elements of the China Challenge dall’amministrazione precedente, nel quale si stabiliva la necessità degli Stati Uniti di rivalutare il proprio sistema di alleanze, chiedendo ad “amici e soci” una maggior condivisione, per “affrontare specifiche minacce”, e si auspicava la formazione di variegati “gruppi e coalizioni”.
Direttive riprese dal segretario di stato, Antony Blinken, che il New York Times ha definito un “interventista liberale”. Per Blinken, il sistema di alleanze statunitensi è “datato”, e occorre attualizzarlo mediante una “lega delle democrazie” asiatiche ed europee, alle quali fornire “una prospettiva globale” modello USA. “È necessario unire le nazioni democratiche per conservare quello che abbiamo”, ha sintetizzato per parte sua Colin Kahl, in attesa di diventare il numero tre del Pentagono dopo la ratifica del Senato come segretario delle Politiche.
E Blinken si è subito messo al lavoro nei due scenari principali in cui è fondamentale rilanciare l’immagine nordamericana, l’Europa, e l’Indo-Pacifico, intesa come mega-regione marittima che mette al centro geografico il Sudest Asiatico. Il rientro in alcuni organismi internazionali abbandonati da Trump e il rilancio di tematiche come quella ambientale, sono stati i primi atti dell’amministrazione Biden in politica estera, ma con lo sguardo prioritariamente rivolto al consenso nazionale, e a quella che Biden ha definito “una politica estera per la classe media”. L’America first rimane centrale, solo diversamente riformulata.
Uno dei primi contatti di Biden è stato con il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, volto ad assicurare il rilancio dell’impegno con l’alleanza e il permanere della richiesta ai 30 partner di far fede al pagamento del 2% in termini di spesa militare. Per questo, è in cantiere anche la Banca della Nato che, come il Fondo Monetario Internazionale, anticiperebbe i soldi per legare ulteriormente i paesi all’economia di guerra statunitense.
Intanto, sembra imminente il rinnovo dell’intesa quinquennale tra Tokyo e Washington sui costi del mantenimento delle basi militari Usa in Giappone, pari a circa 1,6 miliardi di euro e su cui non si era trovato accordo con l’amministrazione Trump. Annunciando il ritorno degli Stati Uniti nel Consiglio dei diritti umani dell’Onu, Blinken ha però messo in chiaro gli elementi di continuità in politica estera con il suo predecessore: l’appoggio al colonialismo israeliano e la politica dei “diritti umani” usata come arma di pressione contro i governi non subalterni a Washington: “Riconosciamo – ha scritto sul sito del dipartimento di Stato – che il Consiglio dei diritti umani è un organismo imperfetto, bisognoso di una riforma della sua agenda, la sua composizione e il focus, compreso il focus sproporzionato su Israele”.
Averlo abbandonato, però, nel 2018, “non ha incoraggiato un significativo cambiamento, ma ha creato un vuoto di leadership americana che paesi autoritari hanno usato a loro vantaggio”. Il Consiglio – ha aggiunto – “non può imporre sanzioni a chi viola i diritti umani ma ha promosso commissioni d’inchiesta in vari paesi. Vi sono state diverse polemiche sulla presenza fra i 47 membri di paesi accusati di gravi violazioni. Attualmente vi siedono, fra gli altri, anche Russia, Cina, e Venezuela”.
Dichiarazioni che si riverberano nel video “didattico” pubblicato dal ministro degli Esteri spagnolo, secondo il quale “le sanzioni sono uno strumento importante delle relazioni internazionali”. Gli ha risposto con la giusta indignazione il ministro degli Esteri venezuelano, Jorge Arreaza, ricordandogli che le “sanzioni” sono crimini di lesa umanità.
Per quel che riguarda l’America Latina, Biden ha dichiarato di voler destinare 4 miliardi di dollari di aiuti in 4 anni, come fondi allo sviluppo e per contenere l’emigrazione verso gli Stati Uniti, soprattutto dal Centroamerica. Un piano volto a condizionare i governi di quei paesi orientandone le spese verso “la sicurezza”, fondamentale per contenere probabili esplosioni sociali e cambiamenti di governo in un anno di elezioni in America Latina.
Un occhio ai primi atti parlamentari dell’amministrazione Biden indica come la retorica sui “diritti civili e la libertà d’espressione” continui peraltro a incanalarsi nei soliti binari. I senatori democratici Ben Cardin del Maryland, Bob Menéndez del New Jersey e Dick Durbin, dell’Illinois, insieme al presidente del Comitato per le Relazioni Estere del Senato, il repubblicano della Florida, Marco Rubio, hanno presentato una risoluzione bipartisan per esprimere solidarietà al Movimento San Isidro, ossia all’ennesimo tentativo di fomentare una rivoluzione di colore a Cuba.
Al riguardo, Durbin ha precisato che il suo appoggio a una politica di apertura verso Cuba (è stato depositato un progetto di legge per ripristinare la situazione esistente ai tempi di Obama), “non significa agevolare la dittatura che governa, né il suo pessimo agire in termini di democrazia e di diritti umani”. La senatrice di origine cubana, Maria Elvira Salazar, nominata nella Sottocommissione per gli Affari dell’Emisfero Occidentale, ha detto che intende rafforzare le alleanze con i “soci che hanno affrontato negli ultimi anni le tirannie”, e di voler combattere con più forza “i regimi brutali di Cuba, Venezuela e Nicaragua”.
E Blinken ha immediatamente lodato la decisione del suo “socio” principale in America Latina, il presidente colombiano Ivan Duque che ha affermato di voler regolarizzare per 10 anni i migranti venezuelani. Una svolta “umanitaria” interessata ai milioni di dollari in arrivo sia dagli Usa che dall’Europa, attraverso le grandi agenzie come l’Oim e l’Unhcr. Una cortina di fumo per distogliere i riflettori dalla violenza strutturale di cui si nutre il sistema politico colombiano, e anche dalle prove fornite dal governo bolivariano circa l’attentato al Parlamento venezuelano, organizzato dalla Cia e dall’intelligence di Bogotà.
Biden, che in campagna elettorale ha promesso “il piano climatico più ambizioso di qualsiasi altro governo nella storia, e zero emissioni nette entro il 2050”, punta a sostituire la Cina nella fornitura di tecnologie pulite in America Latina, guidando l’azione climatica globale sia con i governi europei che con quelli asiatici in competizione con Pechino.
Il continente latinoamericano, è un ottimo crocevia per ravvivare quel sistema di alleanze, perno del “multilateralismo” modello USA, che quest’anno verrà illustrato anche al Vertice delle Americhe, ospitato per la prima volta negli Stati Uniti.
(Articolo scritto per il Cuatro F)