Iroel Sánchez www.cubadebate.cu
Il primo capitolo della prima stagione della distopica serie britannica Black Mirror, trasmessa dalla televisione cubana più di un anno fa in un orario prossimo all’alba, racconta come il primo ministro del Regno Unito sia costretto dalle pressioni sulle reti sociali di Internet a fare sesso con un maiale, in cambio della libertà della principessa del Galles che è stata rapita.
Alla fine sapremo che il sequestratore intendeva solo documentare una performance da presentare alla Biennale di Venezia ed è qui che finisce: con la principessa liberata, prima ancora che sia scaduto il termine dell’ultimatum dato al primo ministro; ma nessuno se ne accorge perché l’intero paese guarda attraverso la TV ed internet il suo dirigente che si umilia davanti al mondo con i pantaloni abbassati.
Questo non è l’unico problema che dalla distopia tecnologica ci prospetta, in modo inquietante, Charlie Brooker, lo sceneggiatore di Black Mirror: quello dell’intervento della realtà dal mondo virtuale e l’imposizione in essa di un obiettivo minoritario che -gestendo abilmente la psicologia sociale- riesce a convertirsi in passione di massa e conflitto politico.
Ci sono almeno altri due capitoli che affrontano questo impatto: uno sul modo in cui il linciaggio dalle reti di una giornalista influenza profondamente la sua vita e quella del suo intorno, e un altro sul controllo del comportamento e del suo rapporto con la stratificazione sociale apparentemente basato su ricompense virtuali per aver fatto ciò che è percepito come corretto, ma punisce il giusto e produce il paradosso che l’unico posto in cui le persone si sentono realmente libere è in prigione, spogliate dei loro dispositivi mobili e dell’accesso ad Internet.
Sono distopie ma, come buone distopie, illuminano il qui e l’ora del nostro mondo. Quello che sorprende è che in un paese come Cuba, che si propone una società alternativa a quella dominante su questo pianeta, un paese sottoposto a una strategia in cui cerca di utilizzare Internet come strumento di aggressione esterna, una serie come Black Mirror passi senza pena né gloria, senza analisi nei media, senza dibattito tra coloro che compongono e dirigono le sue istituzioni e senza utilizzo nel suo sistema educativo.
E non è che la serie sia la Bibbia del tema tutt’altro, ma che la sua ricezione tra noi serve a illuminare il livello al quale ci troviamo in uno dei compiti più importanti che dovrebbe avere tutto il nostro sistema educativo, mediatico e culturale: convertire il popolo cubano nel meglio preparato ad analizzare criticamente i contenuti ed il funzionamento di Internet; allo stesso tempo promuovere le proprie capacità per la sua partecipazione attiva in quello scenario, creando e posizionando in modo massiccio prodotti mediatici di qualità, sfruttando l’enorme potenziale che apre la rete delle reti per l’accesso praticamente infinito alla conoscenza, alla facilitazione del lavoro e all’apprendimento, oltre che per aumentare la qualità della vita dei cittadini.
Sebbene solo in questi tempi di uso sempre più diffuso di Internet sia diventato popolare il termine che prima era comune solo tra i sociologi ed altri professionisti delle scienze sociali, le reti sociali esistono da che esistono i gruppi umani. Persino altri gruppi non umani funzionano anche come reti; per rendersene conto basta osservare un formicaio, un favo, il modo in cui caccia un branco di lupi o leoni, o il movimento di delfini e uccelli migratori. Il suo funzionamento è decisivo per l’accesso al cibo, alla protezione contro altre specie, alla riproduzione e per condividere informazioni essenziali relative a queste attività vitali.
Nelle società umane, ogni individuo apparteneva già a reti familiari, amicali, vicinali, di colleghi di lavoro o di studio, professionisti, spesso sovrapposte, da molto prima che spazi come Facebook o Twitter diventassero quotidiani.
Tuttavia, l’arrivo di Internet ha reso tangibile, e persino capitalizzabile, ciò che prima era invisibile. Rimanendo registrati nelle memorie di potenti computer chiamati server ogni ricerca, ogni interscambio, ogni pubblicazione di testo, video o foto e coloro che interagiscono con esse, così come i metadati di accompagnamento (data, ora, sesso, tema e posizione geografica dei partecipanti, tra altri), in uno spazio dove ogni minuto si producono miliardi di queste azioni, l’attuale sviluppo di strumenti informatici per correlarle rende possibile trovare e connettere affinità ad una velocità prima impensabile.
Così sono sorte le società note come “giganti di Internet” o della tecnologia, il cui potenziale si basa proprio sulla capitalizzazione di questi beni immateriali. Offrendo i propri utenti come merce per la pubblicità di altre aziende, con un’efficacia che fino a pochi anni fa non era possibile immaginare, Facebook e Google sono arrivati a quotarsi in borsa per centinaia di miliardi di dollari.
Sono sempre meno quelli che arrivano alle informazioni digitando l’indirizzo nel browser, il più comune è navigare attraverso ciò che un motore di ricerca come Google o l’algoritmo di Facebook ci mette davanti. Più che navigare, interagiamo con applicazioni Internet che selezionano per noi risposte virtuali a partire da egemonie del mondo reale che hanno pagato per questo.
Per la maggior parte degli utenti Internet che utilizzano questi due strumenti per la maggior parte del tempo di connessione, Internet è Facebook e Google, così come il sistema operativo è sinonimo di Android o Windows.
Il 18 maggio 2012, una dichiarazione congiunta di un gruppo di organizzazioni della società civile in vista della riunione dell’ONU a Ginevra per la “Cooperazione rafforzata su questioni di politiche pubbliche relative a Internet” rilevava che “quella che era una rete pubblica di milioni di spazi digitali, ora è in grande misura un conglomerato di spazi di pochi proprietari”. Sei anni dopo, molti parlano di GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft) come il gigante che controlla, da un solo paese, lo spazio digitale globale.
Al di là delle denunce sul suo utilizzo ai fini del dominio politico e militare, in conseguenza di quanto ha già rivelato l’ex analista della National Security Agency, Edward Snowden, l’efficacia che acquisiscono nei mercati nazionali le aziende transnazionali che possono pagare per essere pubblicizzate, microlocalizzando il pubblico secondo le sue caratteristiche, gusti e necessità, varcando i confini nazionali, è devastante.
Con più di 4 miliardi di utenti Internet, la battaglia che si sta combattendo tra Google e Facebook per gestire la connessione dei restanti 3 miliardi di terrestri restanti con “internet.org” (intendendo l’accesso gratuito ai servizi di queste società ma incassando all’uscita di quelle spazi) è in piena auge.
Le politiche che penalizzano nella corporazione di Mark Zuckerberg i link esterni, rendendoli praticamente invisibili, mentre premiano i contenuti che non richiedono di non uscire dalla rete sociale per accedervi, sono una manifestazione di quell’ossessione di tenere gli utenti sempre nello spazio in cui ogni azione produce metadati per la società.
Innegabilmente, il divario digitale si è chiuso a una velocità molto maggiore che quello radiofonico o televisivo, ma ciò, lungi dal significare una diversificazione del consumo culturale, ha approfondito l’abisso tra il nucleo della produzione di contenuti e servizi nel potere di poche aziende USA e il resto del pianeta, provocando una crescente omogeneizzazione.
In America Latina, dei 100 siti più popolari, solo il 26% è di origine locale e meno del 30% è nella lingua locale; persino buona parte di quest’ultimo, sebbene sia in spagnolo, è di origine USA.
È un fatto quotidiano che un inserzionista oggi possa microlocalizzare in una rete come Facebook o nei risultati di un motore di ricerca come Google il destinatario di un messaggio a partire dall’età, sesso, ubicazione geografica e profilo professionale, sia per posizionare un prodotto o una notizia, indipendentemente dal fatto che sia vera o meno, devi solo avere i soldi per pagarlo. È qualcosa di assolutamente legale e di uso molto comune che non ha nulla a che fare con i recenti scandali per l’utilizzo di dati derivati dall’attività personale su Facebook per creare profili politici degli utenti, associati alla società Cambridge Analytica.
Sono pochi i paesi la cui massa critica demografica e la stessa lingua consente di sviluppare alternative, come nel caso di Cina e Russia. L’esperto e professore della Stanford University, Evgeny Morozov, per nulla sospetto di ammirazione per alcuni di questi due paesi, ha sottolineato ironicamente nel 2015: “Notate la differenza cruciale: Russia e Cina vogliono poter accedere ai dati generati dai propri cittadini sul proprio territorio, mentre gli USA vogliono accedere ai dati generati da chiunque, ovunque, purché le aziende USA li gestiscano”.
È lapalissiano ricordare che processi come la Brexit, l’elezione di Donald Trump o la risposta al referendum sulla pace in Colombia sono stati influenzati da queste realtà. Le guarimbas (rivolte) del primo semestre del 2017 in Venezuela, la sconfitta del referendum per la rielezione di Evo Morales in Bolivia, il dispiegamento istantaneo della violenza in Nicaragua (), o il recente tentativo di colpo di stato morbido a Cuba hanno contato su milioni di dollari investiti nelle reti sociali di Internet.
Non si può più dire che la menzogna abbia le gambe corte, sarebbe più appropriato suggerire che viaggia alla velocità della luce nella fibra ottica che collega i server di Internet. Nei giorni in cui Joseph Goebbels si occupava della propaganda hitleriana, era solito dire che una menzogna ripetuta molte volte può convertirsi in verità, ma per farlo doveva aspettare che si trasmettesse il prossimo radiogiornale, si proiettasse il successivo riassunto cinematografico di notizie o si stampassero i giornali del mattino o della sera.
Oggi in un secondo i tweet del presidente USA raggiungono milioni di reiterazioni. Un potere che il silenzio imposto a Donald Trump dall’accordo societario di Facebook e Twitter, negli ultimi giorni del suo mandato, non ha fatto altro che confermarlo.
Internet non è il problema, ma l’asimmetria economica e sociale con cui le egemonie del mondo reale vengono trasferite nello spazio virtuale, attraverso il denaro. Tim Berners-Lee, creatore del world wide web, ha espresso in occasione del 28° anniversario della sua invenzione nel marzo 2017 sentirsi “sempre più preoccupato per tre nuove tendenze” del web: abbiamo perso il controllo delle nostre informazioni personali, è molto facile diffondere informazioni false sul web e la pubblicità politica online richiede trasparenza e comprensione.
Nel 2016, Jonathan Albright, professore alla Elon University nel North Carolina, ha pubblicato una mappa in cui mostrava come, a partire dal dominio dell’algoritmo di ricerca di Google, l’estrema destra USA abbia colonizzato lo spazio digitale molto più efficacemente della sinistra liberale. La mappa di Albright, che ha seguito 1,3 milioni di collegamenti ipertestuali, mostra come un sistema di notizie e propaganda “satellitare” di destra abbia circondato il sistema dei media dominanti proprio nell’anno in cui Donald Trump è giunto alla Casa Bianca.
Alla domanda del quotidiano The Guardian su come fermare questo processo, Albright ha risposto: “Non lo so, non sono sicuro che si possa fare, è una rete, è molto più potente di qualsiasi attore”. “Quindi ha quasi una vita propria?”, gli hanno chiesto. “Sì, -rispose lo scienziato-, e sta imparando. Ogni giorno si rafforza”.
Applichiamo una mappa simile dove sono tutte le fonti che generano fake news verso Cuba e la stampa cubana, che riceve un budget di un dollaro ogni quattro che i primi investono. Quale soluzione c’è di fronte a ciò per un piccolo paese che pretende non essere dominato dall’egemonia USA? Fuggire dalle reti sociali di Internet, che fanno già parte della vita quotidiana di miliardi di persone, della maggioranza di giovani e di un numero crescente di cubani? Creare, senza massa critica demografica, spazi nazionali esclusivi come fa la Cina, che ha più utenti Internet di USA ed Europa messi insieme? Fare come il Vietnam, che ha appena sanzionato a pene detentive vari di coloro che qui si fanno chiamare “giornalisti indipendenti”, senza che la politica USA abbia risposto con minacce di sanzioni?
Non sembra fattibile, la nostra alternativa sembra essere quella di mettere in rete i nostri valori, nel chiederci se i cubani portatori di essi sono quelli che hanno le migliori strutture per accedere a Internet, per fare in modo che i nostri media e le nostre scuole promuovano una cultura dell’uso di quelle tecnologie che permetta non essere manipolato e che le dirigenze istituzionali, accademiche, politiche e sociali sono presenti e si articolino in rete sulla base di informazioni opportune e di qualità che siano legate alle aspettative e ai bisogni dei cubani. Forse da lì ci sia un percorso conseguente con ciò che tanto si ripete e una volta Fidel ci ha detto: “Internet sembra inventato per noi”.
Siamo oggi quel “noi”, detto in quel contesto di quella che ha chiamato “Battaglia di idee”, lottando per la promozione di una “cultura generale globale” e per convertirci nel “popolo più colto del mondo”? Promuove questi obiettivi un’articolazione dei media, scuole, organizzazioni ed istituzioni di ogni tipo presenti nella nostra società in un ambiente come quello attuale?
Cosa può fare un piccolo paese, con una cultura giovane e aggredito dal paese egemonico su Internet, con le reti sociali digitali se vuole continuare a rimanere indipendente e allo stesso tempo svilupparsi, bensì imparare, imparare e imparare sulle reti sociali di Internet? E quali sono i mezzi per questo se non il suo esteso sistema educativo, universale e gratuito, il suo sistema di media pubblici e il tessuto istituzionale e comunitario che comprende le sue organizzazioni sociali?
Approfittare di tutte le opportunità possibili per l’apprendimento di massa, dare risposte più culturali che amministrative, contare sempre sull’intelligenza e la cultura politica del popolo cubano e mobilitarli dalla conoscenza è ciò che è nella tradizione delle vittorie rivoluzionarie a Cuba; vale che sia anche la nostra guida in questa guerra che è tecnologica, ma prima di tutto culturale.
(Tratto da La Jiribilla)
Aprender, aprender y aprender sobre las redes sociales de Internet
Por: Iroel Sánchez
El primer capítulo de la primera temporada de la distópica serie británica Black Mirror, que la televisión cubana transmitió hace ya más de un año en un horario cercano a la madrugada, cuenta cómo el primer ministro del Reino Unido es obligado desde presiones en las redes sociales de Internet a tener sexo con un cerdo, a cambio de la libertad de la princesa de Gales que ha sido secuestrada.
Al final sabremos que el secuestrador solo pretendía documentar un performance a presentar en la Bienal de Venecia y ahí termina todo: con la princesa liberada, incluso antes de que se cumpla el plazo del ultimátum dado al premier; pero nadie se percata porque el país entero contempla por televisión e Internet a su líder humillándose ante el mundo con los pantalones abajo.
Ese no es el único problema que desde la distopía tecnológica nos plantea inquietantemente Charlie Brooker, el guionista de Black Mirror: el de la intervención de la realidad desde el mundo virtual y la imposición en ella de un objetivo minoritario que —manejando hábilmente la psicología social— logra convertirse en pasión de masas y conflicto político.
Hay al menos dos capítulos más que abordan ese impacto: uno sobre el modo en que el linchamiento desde las redes de una periodista afecta profundamente su vida y la de su entorno, y otro sobre el control del comportamiento y su relación con la estratificación social aparentemente basada en la premiación virtual por hacer lo que se percibe como correcto, pero castiga lo justo y produce la paradoja de que el único lugar donde las personas se sienten realmente libres es en la cárcel, despojadas de sus dispositivos móviles y el acceso a Internet.
Son distopías pero, como buenas distopías, iluminan el aquí y el ahora de nuestro mundo. Lo sorprendente es que en un país como Cuba, que se propone una sociedad alternativa a la dominante en este planeta, un país sometido a una estrategia en la que se intenta utilizar la Internet como herramienta de agresión externa, una serie como Black Mirror pase sin penas ni glorias, sin análisis en los medios de comunicación, sin debate entre quienes integran y dirigen sus instituciones y sin aprovechamiento en su sistema educacional.
Y no es que la serie sea la Biblia del tema ni mucho menos, sino que su recepción entre nosotros sirve para iluminar el nivel en que nos encontramos en una de las tareas más importantes que debería tener todo nuestro sistema educativo, mediático y cultural: convertir al pueblo cubano en el mejor preparado para analizar críticamente los contenidos y el funcionamiento de Internet, a la vez que fomentar sus capacidades para su participación activa en ese escenario, creando y posicionando masivamente productos mediáticos de calidad, aprovechando el enorme potencial que abre la red de redes para el acceso prácticamente infinito al conocimiento, la facilitación del trabajo y el aprendizaje, así como la elevación de la calidad de vida de los ciudadanos.
Aunque solo en estos tiempos de uso cada vez más generalizado de Internet se ha popularizado el término que antes era únicamente común entre sociólogos y otros profesionales de la Ciencias Sociales, las redes sociales existen desde que existen los colectivos humanos. Incluso, otros colectivos no humanos funcionan también como redes; para percatarnos basta observar un hormiguero, un panal de abejas, el modo en que caza una manada de lobos o leones, o el desplazamiento de los delfines y las aves migratorias. Su funcionamiento resulta decisivo en el acceso a la alimentación, la protección contra otras especies, la reproducción y para compartir información imprescindible relacionada con esas actividades vitales.
En las sociedades humanas cada individuo pertenecía ya a redes familiares, de amistades, de vecinos, de compañeros de trabajo o de estudio, de profesionales, muchas veces superpuestas, desde muchísimo antes que espacios como Facebook o Twitter se volvieran cotidianos.
Sin embargo, la llegada de Internet ha vuelto tangible, e incluso capitalizable, lo que antes era invisible. Al quedar registrados en las memorias de potentes computadoras llamadas servidores cada búsqueda, cada intercambio, cada publicación de texto, video o fotos y los que interactúan con ellas, así como los metadatos que las acompañan (fecha, hora, sexo, tema y ubicación geográfica de los participantes, entre otros), en un espacio donde cada minuto se producen miles de millones de esas acciones, el desarrollo actual de herramientas informáticas para correlacionarlos permite encontrar y conectar afinidades a una velocidad antes impensable.
Así han surgido las empresas conocidas como “gigantes de Internet” o de la tecnología, cuyo potencial se apoya precisamente en capitalizar esos intangibles. Ofreciendo a sus usuarios como mercancía para la publicidad de otras empresas, con una efectividad que hace pocos años no era posible imaginar, Facebook y Google han llegado a cotizarse en bolsa por cientos de miles de millones dólares.
Ya son cada vez menos los que llegan a una información tecleando la dirección en el navegador, lo más común es que se navegue a través de lo que un buscador como Google o el algoritmo de Facebook nos ponen delante. Más que navegar nos relacionamos con aplicaciones de Internet que seleccionan para nosotros respuestas virtuales a partir de hegemonías del mundo real que pagaron por ello.
Para la mayoría de los internautas que usan esas dos herramientas la mayor parte de su tiempo de conexión, Internet es Facebook y Google, al igual que sistema operativo es sinónimo de Android o Windows.
El 18 de mayo de 2012 una declaración conjunta de un grupo de organizaciones de la sociedad civil de cara a la reunión de Naciones Unidas en Ginebra para la “Cooperación mejorada sobre cuestiones de políticas públicas relativas a Internet” apuntaba que “lo que fue una red pública de millones de espacios digitales, ahora es en gran medida un conglomerado de espacios de unos pocos propietarios”. Seis años después, muchos hablan de GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple y Microsoft) como el gigante que controla desde un solo país el espacio digital global.
Más allá de las denuncias sobre su uso con fines de dominación política y militar en consecuencia con lo que ya reveló el exanalista de la National Security Agency, Edward Snowden, la efectividad que adquieren en los mercados nacionales las empresas transnacionales que pueden pagar por ser publicitadas, microlocalizando los públicos de acuerdo a sus características, gustos y necesidades, traspasando las fronteras nacionales, es arrasadora.
Con más de 4000 millones de usuarios de Internet, la batalla que se libra entre Google y Facebook por gestionar la conexión de los 3000 millones de terrícolas restantes con “internet.org” (entiéndase acceso gratuito a los servicios de esas empresas pero cobrado al salir de esos espacios) está en pleno auge.
Las políticas que penalizan en la corporación de Mark Zuckerberg los enlaces externos, volviéndolos prácticamente invisibles, mientras premian el contenido que no obliga a salir de la red social para accederlo, son una manifestación de esa obsesión por tener a los usuarios todo el tiempo en el espacio donde cada acción produce metadatos para la empresa.
Indiscutiblemente la brecha digital se ha venido cerrando a una velocidad mucho mayor que la radial o televisiva pero eso, lejos de significar una diversificación del consumo cultural, ha profundizado el abismo entre el núcleo de producción de contenidos y servicios en poder de unas pocas empresas estadounidenses y el resto del planeta, provocando una creciente homogeneización.
En América Latina, de los 100 sitios más populares solo el 26 % es de origen local y menos del 30 % está en idioma local; incluso buena parte de este último, aunque esté en castellano, es de procedencia estadounidense.
Es un hecho cotidiano que un anunciante puede hoy microlocalizar en una red como Facebook o en los resultados de un buscador como Google el destinatario de un mensaje a partir de la edad, el sexo, la ubicación geográfica y perfil profesional, ya sea para posicionar un producto o una noticia, sin importar si esta es veraz o no, solo tiene que tener el dinero para pagar por ello. Se trata de algo absolutamente legal y de uso muy común que nada tiene que ver con los recientes escándalos por la utilización de datos derivados de la actividad personal en Facebook para crear perfiles políticos de los usuarios, asociados a la empresa Cambridge Analytica.
Son pocos los países cuya masa crítica demográfica y lengua propia les permite desarrollar alternativas, como es el caso de China y Rusia. El experto y profesor de la Universidad de Stanford, Evgeny Morozov, para nada sospechoso de admiración por algunos de esos dos países, apuntaba con ironía en 2015 : “Noten la diferencia crucial: Rusia y China quieren poder acceder a los datos generados por sus ciudadanos en su propio suelo, mientras que los EE. UU. quieren acceder a los datos generados por cualquier persona en cualquier lugar, siempre y cuando las empresas estadounidenses los manejen”.
Es una perogrullada recordar que procesos como el Brexit, la elección de Donald Trump o la respuesta al referéndum sobre la paz en Colombia han sido impactados por estas realidades. Las guarimbas del primer semestre de 2017 en Venezuela, la derrota de la consulta para la reelección de Evo Morales en Bolivia, el despliegue instantáneo de la violencia en Nicaragua (), o el reciente intento de golpe blando en Cuba han contado con millones de dólares invertidos en las redes sociales de Internet.
Ya no se puede decir que la mentira tiene las patas cortas, sería más apropiado plantear que viaja a la velocidad de la luz en la fibra óptica que enlaza los servidores de Internet. En los tiempos en que Joseph Goebbels se ocupaba de la propaganda hitleriana solía decir que una mentira repetida muchas veces puede convertirse en verdad, pero debía esperar a que saliera al aire el próximo noticiero radial, se proyectara el siguiente resumen cinematográfico de noticias, o se imprimieran los periódicos matutinos o vespertinos para hacerlo.
Hoy en un segundo los tuits del presidente de los Estados Unidos alcanzan millones de reiteraciones. Un poderío que el silencio impuesto a Donald Trump por la concertación corporativa de Facebook y Twitter en los días finales de su mandato no ha hecho más que confirmar.
Internet no es el problema, sino la asimetría económica y social con que las hegemonías del mundo real se trasladan al espacio virtual, dinero mediante. Tim Berners-Lee, creador de la world wide web, expresaba en ocasión de cumplirse 28 años de su invención en marzo de 2017 sentirse “cada vez más preocupado por tres nuevas tendencias” de la web: Hemos perdido control de nuestra información personal, es muy fácil difundir información errónea en la web y la publicidad política en línea necesita transparencia y entendimiento.
En 2016, Jonathan Albright, profesor de la Universidad de Elon en Carolina del Norte, publicaba un mapa en el que mostraba cómo a partir del dominio del algoritmo de las búsquedas de Google la extrema derecha estadounidense colonizó el espacio digital mucho más efectivamente que la izquierda liberal. El mapa de Albright, que siguió un millón trecientos mil hipervínculos, muestra cómo un sistema “satelital” de noticias y propaganda de derecha rodeó el sistema de medios de comunicación dominantes justo en el año en que Donald Trump llegó a la Casa Blanca.
Preguntado por el diario The Guardian acerca de cómo detener ese proceso, Albright respondió: “No lo sé, no estoy seguro de que pueda ser, es una red, es mucho más poderoso que cualquier actor”. “¿Entonces casi tiene vida propia?”, le preguntaron. “Sí —respondió el científico— y está aprendiendo. Todos los días se hace más fuerte”.
Apliquémonos un mapa similar donde estén todas las fuentes que generan fake news hacia Cuba y la prensa cubana, que recibe un dólar de presupuesto por cada cuatro que invierten los primeros. ¿Qué solución hay ante eso para un país pequeño que pretende no ser dominado por la hegemonía estadounidense? ¿Huir de las redes sociales de Internet, que ya forman parte de la vida cotidiana de miles de millones de personas, de la mayoría de los jóvenes y de un creciente número de cubanos? ¿Crear, sin masa crítica demográfica, espacios nacionales excluyentes como hace China, que tiene más internautas que Estados Unidos y Europa juntos? ¿Hacer como Vietnam, que acaba de sancionar a penas de cárcel a varios de los que aquí se hacen llamar “periodistas independientes”, sin que la política de Estados Unidos haya respondido con amenazas de sanciones?
No parece ser viable, nuestra alternativa pareciera estar en poner en red nuestros valores, en preguntarnos si los cubanos portadores de ellos son los que más facilidades tienen para acceder a Internet, en hacer que nuestros medios de comunicación y nuestras escuelas fomenten una cultura del uso de esas tecnologías que permita no ser manipulado y que los liderazgos institucionales, académicos, políticos y sociales estén presentes y se articulen en la red a partir de una información oportuna y de calidad que guarde relación con las expectativas y necesidades de los cubanos. Tal vez por ahí haya un camino consecuente con aquello que tanto se repite y una vez nos dijo Fidel: “Internet parece inventada para nosotros”.
¿Somos hoy ese “nosotros”, dicho en aquel contexto de lo que él llamó “Batalla de ideas”, en lucha por el fomento de una “cultura general integral” y por convertirnos en el “pueblo más culto del mundo”? ¿Propicia esos objetivos una articulación de medios de comunicación, escuela, organizaciones e instituciones de todo tipo presentes en nuestra sociedad en un entorno como el actual?
¿Qué puede hacer un país pequeño, con una cultura joven y agredido por el país hegemónico en Internet, con las redes sociales digitales si quiere seguir siendo independiente y a la vez desarrollarse, sino aprender, aprender y aprender sobre las redes sociales de Internet? ¿Y cuáles son los medios para eso sino su extendido sistema educacional, universal y gratuito, su sistema de medios de comunicación públicos y el tejido institucional y comunitario que abarcan sus organizaciones sociales?
Aprovechar todas las oportunidades posibles para el aprendizaje masivo, dar respuestas más culturales que administrativas, contar siempre con la inteligencia y la cultura política del pueblo cubano y movilizarlas desde el conocimiento es lo que está en la tradición de las victorias revolucionarias en Cuba; vale que sea también nuestra guía en esta guerra que es tecnológica, pero primero que todo cultural.
(Tomado de La Jiribilla)