Fabrizio Casari www.altrenotizie.org
Il giudice Edson Fachin, del Supremo Tribunale Federale del Brasile, ha dichiarato nulli gli atti che hanno portato alla persecuzione giudiziaria, alla carcerazione ed alla sospensione dei diritti civili e politici di Ignacio Lula Da Silva. Potrebbe finire così l’agonia della giustizia brasiliana e quella personale di Lula, vittima di un complotto politico-giudiziario deciso a Washington e organizzato a Brasilia. Pur con altri procedimenti in corso, Lula è tornato soggetto di diritto, candidabile ed eleggibile, essendo venute meno le inibizioni ai diritti politici che le sentenze avevano prodotto.
Ignacio Lula Da Silva, per tutti “Lula”, ex operaio metallurgico e sindacalista, fondatore del Partito dei Lavoratori (PT) e presidente del Brasile per due mandati consecutivi, era stato infatti giudicato colpevole di corruzione sulla esclusiva base di un teorema politico camuffato da inchiesta giudiziaria. Accuse provate? No, basate su articoli di stampa privi persino di citazioni delle fonti. In trecento pagine di requisitoria non c’era nemmeno una prova.
Il complotto ordito dalle elites brasiliane e dal giudice Moro si innescò per evitare una sua nuova elezione al Planalto, dato che i sondaggi lo davano sicuro vincente. Le elites bianche intuirono la minaccia di un terzo mandato per Lula, visto che la sua amministrazione in otto anni sottrasse 36 milioni di persone alla miseria, creò 11 milioni di posti di lavoro, consentì a centinaia di migliaia di giovani poveri di accedere all’istruzione superiore e all’università e restituì al Brasile il rango di potenza internazionale.
Il Tribunale Supremo Federale ha ora riconosciuto come tutta l’inchiesta, guidata dal procuratore Moro, fedele servitore del Dipartimento di Stato USA e braccio giudiziario delle elites militari brasiliane, fosse viziata da una sostanziale mancanza di competenza nella formulazione dei capi d’accusa come delle relative sentenze. Dunque, un vizio di forma che non esclude la possibilità di ricorrere ad un nuovo tribunale, che fosse “competente”, il diritto ad iniziare un nuovo procedimento. Addirittura la stampa brasiliana prevede un più che probabile intervento del Procuratore generale del Brasile, Augusto Aras, molto vicino al presidente Bolsonaro, che starebbe già preparando un appello alla sentenza del giudice Fachin. Ma 580 giorni di carcere da innocente formano, competenza o meno dei magistrati, un debito che la giustizia brasiliana ha nei confronti di Lula e dell’intero Brasile.
“Lava Jato”, così si chiamava la montatura giudiziaria che ha avuto in Lula la vittima eccellente. Venne venduta al pubblico come operazione anticorruzione ma, in realtà, fu una gigantesca opera di manipolazione destinata al sovvertimento del quadro politico brasiliano. Fu fondamentalmente l’applicazione su scala brasiliana delle operazioni di Lawfare con la quale gli Stati Uniti gestiscono l’offensiva contro i leader e i partiti della sinistra latinoamericana, con l’obiettivo di sovvertire il quadro politico progressista e sostituirlo con uno gradito a Washington e ai poteri forti locali. In Brasile si procedette su tre fronti: abbattere il governo di Dijlma Roussef, colpire a fondo il PT e, infine, mettere Lula fuori dalla scena politica per un bel pezzo.
Non è un caso che titolare della controversa inchiesta “Lava Jato” sia stato il giudice Sergio Moro. Egli, infatti, fa parte di un gruppo di procuratori e giudici formati dagli Stati Uniti allo scopo di combattere “la corruzione” in America Latina. Frequentano corsi denominati “I ponti”, che vengono impartiti direttamente dal Dipartimento di Stato USA ed è con il sostegno statunitense che vengono poi insediati nelle diverse Procure dei rispettivi paesi del subcontinente. Il giudice Moro, poi, era già particolarmente noto per le sue passioni politiche di ultradestra, per essere un feroce oppositore di Lula e per le sue frequentazioni con appartenenti alla destra brasiliana, scandite dalla sua partecipazione a feste in case di personaggi che pure avrebbero dovuto essere raggiunti dalla sua inchiesta ma che, guarda caso, ne sono sempre restati fuori. A conferma della sua “terzietà” ebbe l’incarico di ministro nel governo Bolsonaro, dal quale si dimise per “divergenze personali”.
La vicenda di Lula si è accompagnata a quella di Cristina Kirschner, di Correa, di Evo Morales. Golpe di stato riusciti o anche solo tentati (Honduras, Venezuela, Nicaragua, Bolivia); golpe parlamentari (Brasile, Paraguay, Perù), inchieste prive di ogni valenza giuridica (Argentina, Brasile, Ecuador); sobillazione dall’interno dei rispettivi paesi attraverso l’uso di fantomatiche ONG incaricate di formare gruppi sovversivi operanti dall’interno e sostenuti dall’esterno (Venezuela, Nicaragua, Cuba).
Sono stati questi gli ingredienti della nuova reconquista dell’America Latina, applicazione in scala continentale di quanto già visto in Europa dell’Est e nei paesi arabi con le cosiddette “primavere”. E’ in scena una versione 5.0 del golpismo classico, aggiornata tecnologicamente (la Rete protagonista assoluta), politicamente (le alleanze con i diversi settori politici e la magistratura) ed operativamente (formazione di bande paramilitari che dirigono gruppi di manifestanti con lo scopo di alzare il livello della tensione e provocare incidenti e vittime con le quali chiedere poi sostegno internazionale e sanzioni). Tutto tratto dal manuale di Gene Sharp sul “golpe blando”, ovvero “come abbattere un regime”. Il tutto con il denaro statunitense, erogato attraverso USAID, Freedom House, IRI, IDI ed altre Ong apparenti.
Nei Paesi del Cono Sud, il cuore della destabilizzazione si è incentrato sull’eliminazione dei leader della sinistra dalla competizione politica ed elettorale. Il lawfare, ovvero l’utilizzo dei meccanismi giuridici in chiave politica, è stato il modus operandi. Inchieste grossolanamente finte, gestite da magistrati di fiducia degli Stati Uniti e delle elites finanziarie e militari dei diversi paesi, hanno rappresentato il volto pubblico del complotto internazionale statunitense.
Nuove iniziative giudiziarie contro l’ex Presidente sarebbero dense di inevitabili riverberi sul terreno politico: smentendo completamente procedimenti e sentenze, la decisione del TSF pone infatti allo scoperto il carattere pretestuoso e strumentale dell’inchiesta, in ultima analisi ne evidencia il suo tratto cospirativo e, così, per quanto indirettamente, pone una forte ipoteca su eventuali nuove avventure contro il leader della sinistra brasiliana e latinoamericana.
Il futuro giudiziario di Lula si giocherà sul terreno dello scontro politico brasiliano. In questo senso il mutamento di rotta della magistratura può trovare spiegazioni diverse, non ultima quella di uno scollamento tra l’apparato giuridico-militare del Paese carioca e Bolsonaro, con il primo che considera ormai il secondo una macchietta e non un presidente, un problema e non una soluzione. La folle gestione dell’emergenza Covid-19, la sua dichiarata passione per Trump che lo ha portato a manifestare una netta ostilità verso la nuova amministrazione Biden, la rottura con la Cina (che importa un terzo del settore agroalimentare brasiliano) e la feroce crisi economica, fanno dell’attuale presidente e della sua cricca un residuo del passato, non certo una scommessa per il futuro.
Per Lula sembra oggi potersi scrivere la parola fine alla persecuzione giudiziaria basata sul nulla dal punto di vista probatorio. Torna di nuovo in campo e con lui il ricordo di una amministrazione che, per la prima volta, aveva cambiato il destino di un paese che era assurto a simbolo della diseguaglianza. I brasiliani, che verso di lui avevano fatto riscontrare gli indici di gradimento più alti nella storia del Paese, continuano ad volere il presidente-operaio alla guida del Brasile. Secondo i sondaggi recenti, Lula otterrebbe il 50% dei voti contro il 38 di Bolsonaro. Il voto del 2022 sarà l’opportunità di ritornare a scrivere una storia diversa.