Un partito unico ha limitato la democrazia a Cuba? Vediamo…

Le idee non hanno bisogno di armi,
se sono in grado di convincere le grandi masse.

Fidel Castro

La condizione di partito unico non limita l’esercizio dell’autentica democrazia; al contrario, la rende partecipativa, forte, feconda; le garantisce etica e trasparenza, e stimola, nell’organizzazione politica, una pluralità che trascende.

“Ho appena promesso l’ideale per la chiusura della campagna”, si vantava il candidato tra sé e sé. La sua promessa senza precedenti aveva lasciato la folla ammutolita e lui, dalla tribuna, guardava altezzosamente: “Che eloquenza la mia, di fronte a questa massa di tonti! Sono stregati.”

Aveva “strappato la pelle” ai suoi rivali degli altri partiti, e ora esortava il pubblico “a votare per un presidente onesto”, uno che fosse addolorato dai mali del popolo. “Per questo sono qui”, ha concluso, “perché è inconcepibile che non ci sia un ponte in questo posto; ma il mio governo ne costruirà uno.

– Ponte per cosa, signore? – Qualcuno lo interruppe, “non abbiamo un fiume qui.

L’impostore si finse calmo, raccolse a sé gli spettatori e cominciò a rimediare alla sua gaffe. “Permettimi di completare l’idea, amico mio”. Poi tirò fuori un’altra pillola d’oro: disse che la natura non gli era mai sembrata così ingiusta come quando aveva negato un fiume alla gente di Pueblo Mocho, che ciò lo aveva turbato fin da quando era molto giovane, e che il sogno di riparare una tale ingiustizia lo teneva sveglio la notte. “Ecco perché ho presentato la mia candidatura. Tra i candidati di altri partiti non ho visto la volontà, la sensibilità o la capacità di risolvere questo problema.”

IL GIOCO E LA REGOLA

Al di là dell’ingegnosità che, anche per favoleggiare, distingue gli abitanti di questo arcipelago, la storia cubana che anima il precedente racconto ha radici nella realtà oscura della pseudo-repubblica. Ricreato nell’immaginario popolare, e nato dalla sua esperienza, qualcuno si è preoccupato di condirlo con humour e inserirlo nella memoria collettiva, affinché sia sempre di insegnamento.

La demagogia politichese dell’epoca non era diversa. Ricchi opportunisti, esperti nell’approfittare delle carenze del popolo, e nel compiacere agli occhi di “Gringolandia” -un requisito indispensabile per raggiungere l’élite-, sono saliti attraverso la formula della corruzione e della menzogna, e con le mani libere per la beffa, saccheggiando le casse pubbliche, inventando trucchi, raggiungevano il potere.

“I politici spendono milioni nelle loro campagne corrompendo le coscienze (…), questo spiega perché il paese è stato governato finora dalla politicheria, dalla malavita della nostra vita pubblica“, ha smascherato Fidel davanti al tribunale che lo processò per l’assalto alla Moncada, occasione in cui si dichiarò “pronto a strappare con mano ferma il velo infame che copre tanta spudoratezza“.

Tale era la “democrazia” cubana di quei tempi, caricaturale per l’abbondanza di partiti politici. Più organizzazioni di questo tipo esistevano, più alto era il punteggio dato al paese dal giudice della democrazia Made in USA, e allo stesso tempo, accentuava la divisione e la dipendenza neocoloniale.

Tale modello marcio, che ha mantenuto la società cubana divisa e ha alzato barriere contro qualsiasi progetto emancipatore all’orizzonte, è quello che certi nostalgici – lavoratori salariati all’interno e datori di lavoro all’esterno – sognano di ripristinare qui, un’eredità diversa da quella caratterizzata precocemente dal nostro José Martí.

“Una campagna presidenziale negli USA è feroce e nauseante“, affermava l’apostolo. “Cercano colui che, per la sua scaltrezza o fortuna, o condizioni speciali, possa assicurare il maggior numero di voti al partito. (…) una volta che i candidati sono nominati alle Convenzioni, (…) si versano tini di fango sulle loro teste“. “Mentono e esagerano consapevolmente“, aggiunse. “Si colpiscono il ventre e dietro le spalle. Ogni colpo è buono, purché stordisca il nemico”.

È pura coincidenza che ciò che affermava Martí assomigli al più recente torneo elettorale?

UN’ALTRA DEMOCRAZIA: L’EREDITÀ

Queste esperienze  e questi fatti spinsero José Martí a difendere, nei fondamenti stessi del Partito Rivoluzionario Cubano (PRC), “una democrazia sincera”, aggettivo che rivendica quel termine e restituisce il suo vero significato.

Accanto all’unità, un vero principio democratico farebbe parte del “DNA” del nuovo soggetto politico che sta per nascere, distante dalla tradizionale ingannevole partitocrazia.

Martí non imponeva nulla, tutto veniva deciso collettivamente. Chi avrebbe officiato come delegato del PRC, e chi avrebbe servito come presidente e membro nelle giunte direttive dei club, erano il risultato di una decisione presa dalla maggioranza. Per nominare Máximo Gómez come capo dell’Esercito di Liberazione, vennero consultati precedentemente i veterani della guerra del 1968.

La condizione di partito unico non ha mai limitato l’esercizio di un’autentica democrazia; al contrario, l’ha resa partecipativa, forte, feconda; l’ha impregnata di etica e trasparenza, e ha stimolato, nell’organizzazione politica, una pluralità che trascende.

Quei “cromosomi” e altri, prima di approdare nella gioventù del Centenario, erano appartenuti a uomini come Julio Antonio Mella e Rubén Martínez Villena, il poeta rivoluzionario che “cercò di pulire la crosta tenace del colonialismo, (…) di realizzare il sogno di marmo di Martí“.

La stessa vocazione, ereditata dal PRC, si può osservare, simile all’eredità da padre in figlio, nel Partito Comunista di Cuba (PCC) e nel popolo di cui è l’avanguardia e la forza dirigente superiore, come ha riconosciuto l’ampia maggioranza popolare che ha approvato la nostra Costituzione.

Il Partito non postula; la sua forza è data dai meriti dei suoi membri -nessuno di loro è milionario- ed emana dall’onestà e dall’esempio, antidoti contro coloro che cercano di costruire muraglioni tra il popolo e i suoi leader.

Il veleno divisorio del nemico non ha trovato terreno fertile qui, nemmeno negli anni turbolenti dell’inizio della Rivoluzione, quando la scolarizzazione e la cultura politica dei cubani erano ancora scarse, ma già mostravano un’intuizione acuta.

“I popoli – avverti Fidel al processo Moncada – hanno una logica semplice ma implacabile, in contrasto con tutto ciò che è assurdo e contraddittorio, e se qualcuno di essi, aborre con tutta la sua anima il privilegio e la disuguaglianza, questo è il popolo cubano“.

“Come è stato combattuto il rabbioso anticomunismo seminato in alcune persone?“, ragionava il nostro leader storico, dialogando con l’intellettuale Ignacio Ramonet: “(…) è stata la predicazione, è stato l’esempio a creare quella coscienza“.

DI RABBIA E ORGOGLIO

Alcuni, quando guardano Cuba, ribollono di rabbia. Fa male vedere questo popolo vittorioso abbracciare il Partito che lo guidò nella Baia dei Porci, nella Crisi d’Ottobre, nella lotta contro i banditi, nel periodo speciale e in altri momenti cruciali in cui il paese ha dovuto prendere decisioni trascendenti.

Nulla è stato deciso, in nessuno di questi frangenti, senza consultare il popolo. I ricordi del 1993 e del 1994 lo testimoniano. Cuba era allora un parlamento di lavoratori. Più recentemente, parla di democrazia il dibattito popolare per una Costituzione, alla fine approvata il 24 febbraio 2019. Più di 8.945.500 cubane e cubani hanno partecipato alle 133.681 riunioni che hanno avuto luogo, quartiere per quartiere, entità per entità.

Si è trattato di un processo di ampia pluralità, che aprì lo spazio a circa 707.000 interventi e più di 783.000 proposte, responsabili della modifica di quasi il 60% dei capitoli della nuova Magna Carta.

Il partito non ha limitato il dibattito, al contrario, lo ha stimolato. Chi odia questa verità non sa come negarla.

Né trovano modo di nascondere la vicinanza di questo popolo con l’avanguardia politica che ne scaturisce, un’alleanza a prova di sfide, pericoli e frangenti difficili, forgiata dall’esempio personale di Raúl e di altri instancabili, ai quali si è già aggiunto un nuovo esercito di uomini e donne.

Maestro tra loro, Fidel. In quel nesso molto speciale con il suo popolo, nelle grandi piazze e negli angoli insospettabili di questo arcipelago, lo si è visto come lo descrive il Che: “in un dialogo di intensità crescente fino a raggiungere il suo apice in un finale acuto, coronato dal nostro grido di lotta e di vittoria“.

A quegli uomini non è mai venuto in mente di proclamare che avrebbero costruito ponti, perché non è nella loro natura promettere, ingannare; ma hanno sí costruito la strada dell’emancipazione sulla quale Cuba sta transitando. Non hanno mai promesso fiumi, ma hanno aperto un canale verso una nuova patria. Sono essi, esemplari forgiatori di unità, l’armatura impenetrabile della nazione.

Fonte originale: Granma

Traduzione: G. Federico Jauch (cuba-si.ch/it/)


Divide et impera

Miguel Cruz Suárez

14.04.21 – In una casa rurale vivevano Senobio e Sabino due tipi cattivi più del diavolo.

Era tale il loro cattivo carattere che la gente del quartiere li soprannominarono i fratelli SS.

Senobio era stato del Partito Liberale durante i governi precedenti il 1959 e Sabino apparteneva al Partito Conservatore, mentre il loro padre, conosciuto come Eulogio aceto si candidò quale consigliere per un’altra delle formazioni politica delle sette che si presentarono alle elezioni nel 1958.

Formavano una famiglia mediamente facoltosa, però mai si preoccuparono in nessun modo della miseria della popolazione che li circondava, composta fondamentalmente da operai e agricoltori in maggioranza neri, poveri nella loro totalità.

Era una casa, la loro, con pluripartitismo. Doveva quindi essere un posto dove alcuni pensavano e agivano in un modo e altri lo facevano in un altro, includendo in questo modo di agire le divergenze su tutti i temi e i problemi della vita quotidiana.

Pero non era così, perché, nonostante li dividesse l’interesse politico di arrivar al potere attraverso un partito o un altro partito, li univa l’amore per la proprietà privata e la perversa convinzione, che i poveri del quartiere dovessero continuare ad esserlo per il resto della loro vita, perché era loro opinione che appartenessero a questa classe meno avvantaggiata per mancanza di capacità e sforzo.

Dopo gennaio 1959 si mostrarono riluttanti a ogni cambiamento e fecero quanto poterono per ritornare allo stato antiore che tanto li privilegiava.

Furono sempre estremamente critici e contro l’esistenza di un solo partito, ricordando con nostalgia l’epoca del multipartitismo, anche se mai poterono rispondere a una domanda che gli fu posta alcune volte, in mezzo a una discussione su tale tema: “se tutti i vostri partiti non hanno risolto la fame e la miseria della gente in più di 50 anni di pseudo repubblica, come si suppone che ora risolvano il problema di Cuba?

Per chiudere la discussione, qualcuno con geniale sarcasmo, li lasciò senza parole: “ guarda, io credo che tu abbia ragione. Avere molti partiti è la soluzione dei problemi. Dobbiamo solo vedere quanto bene hanno fatto al terzo mondo, o quanto sono pentiti gli yankee che praticamente ne hanno uno, benché lo dividano in due.

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