di Hernando Calvo Ospina www.lantidiplomatico.it
La Colombia è un regime in guerra permanente contro il suo popolo dagli inizi del secolo XIX. Da quando il venezuelano Simón Bolivar, che guidò la guerra d’indipendenza contro la Spagna, ormai tradito, lasciò il potere. Prima di qualsiasi altro Stato dell’America Latina, la dirigenza politica e la Chiesa cattolica cominciarono a instaurare leggi repressive per contrastare il “comunismo”. E sto parlando dell’anno 1920.
Però considerando anche solo il periodo dagli anni sessanta del secolo scorso in qua, si può dire che, senza bisogno di dittature, la Colombia, sempre sotto la protezione degli USA, instaurò la Dottrina della Sicurezza Nazionale come nessun’altra nazione nel continente. Il presidente Kennedy, il cui governo la teorizzò e ampliò, con ammirazione si congratulò con il Governo colombiano per la sua capacità di modellarla. E questa stessa strategia del farla finita con il “nemico interno”, con l’opposizione politica, continua ancora oggi.
Dai crematori agli allevamenti di coccodrilli sono stati inventati per far sparire dirigenti di comunità. Non esiste un altro paese in tutto il mondo dove siano emerse fosse comuni con più di 2000 persone in ognuna: non ci sono riusciti neanche i nazisti.
I gruppi paramilitari fanno parte del regime colombiano da 60 anni. Preparati da specialisti israeliani, inglesi e statunitensi, negli anni ‘80 dello scorso secolo, sono stati finanziati e continuano oggi ad essere finanziati con il denaro del narcotraffico. Si incaricano di fare il “lavoro sporco” dell’esercito e di “ripulire” le zone contadine da possibili oppositori a multinazionali e latifondisti che rubano le immense risorse strategiche.
La Colombia è il principale produttore ed esportatore di cocaina del mondo, nonostante sia invasa da truppe statunitensi sotto il pretesto di combatterla. E intanto gli USA sono il principale consumatore e le sue banche incamerano il 95% dei guadagni di quest’affare miliardario.
E nonostante tutto questo si continua a ripetere che la Colombia è la più vecchia democrazia d’America Latina. Certo, ci sono regolari elezioni e, come per un incantesimo, le elezioni chiudono gli occhi della realtà.
Mi è stato chiesto di preparare un testo indirizzato al presidente Iván Duque o alla “comunità internazionale” riguardo l’attuale repressione (che è arrivata alle città, ma come sempre è partita dalle campagne). Non posso. Per un semplice motivo: non posso mantenere il sangue a temperatura normale mentre scrivo, perchè conosco questa realtà e le sue origini (come non posso mantenerlo davanti alle aggressioni a Cuba, Venezuela o a tanti altri paesi). Mi rimane impossibile utilizzare termini “socialmente accettabili”.
E poi, non è a quei politicanti mafiosi ed assassini colombiani che si deve dirigere una protesta, una qualsiasi protesta, perché loro sono semplici maggiordomi. Ma al presidente degli Stati Uniti che è il primo e il vero responsabile. E’ lui che comanda in Colombia.
Molte grazie per avermelo proposto. Molte grazie per quel che potrete fare per quel popolo che, nonostante la terribile repressione -anche economica-, combatte ogni giorno e in ogni modo. Ah, parlo del popolo, del popolo, non della maggioranza piccolo-borghese delle città, che solo saltuariamente sente quel che è la violenza statale, però è sempre pronta a segnalare gli “eccessi” della plebe.
E infine aggiungo: la proposta di riforma tributaria è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Quei milioni di poveri, in un paese immensamente ricco, ormai non sopportano più il dover scegliere fra il pochissimo o il niente: non hanno un granché da perdere.
La città che più furiosamente si è ribellata e che la terribile repressione e i crimini delle forze statali vogliono ridurre al silenzio è Cali, al sud-ovest del paese. Per “calmare” le proteste hanno inviato contingenti interi di militari, oltre alle migliaia già presenti. Il comandante dell’esercito in persona dirige gli “operativi”.
Anche se sarebbe strano, forse hanno studiato la storia del Paese e sanno che in questa città si alzò il primo grido di indipendenza e cominciò la guerra contro la Spagna.
Non fu che la prima indipendenza …
(traduzione di Anna Serena Bartolucci)
Bogotá, Cali, Medellín: le città più colpite dalla repressione del regime di Duque
Fabrizio Verde www.lantidiplomatico.it
In una settimana di sciopero nazionale in Colombia il bilancio della repressione è pesante: i morti, secondo le organizzazioni sociali sono oltre 25, mentre i feriti sarebbero più di cento. Bilancio pesante ma ancora provvisorio. La città di Cali è l’epicentro della violenza contro i manifestanti.
Tutto è iniziato con un’azzardata riforma tributaria che avrebbe colpito classe media e ceti meno abbienti con il pretesto di andare a finanziare programmi sociali. Adesso la Colombia è nel pieno di un’esplosione sociale senza precedenti nella storia recente della Colombia. Alla riforma tributaria arrivata in piena crisi economica causata dalla pandemia, in un paese che ha attuato uno dei lockdown più lunghi del mondo nel vano tentativo di controllare i contagi, il popolo ha risposto con uno sciopero nazionale che ha ormai otto giorni e si è diffuso a macchia d’olio nelle principali città del Paese. Bogotá, Cali, Medellín, Ibagué e Villavicencio hanno ospitato manifestazioni di massa, alle quali il regime di Duque ha risposto con una repressione brutale.
Da mercoledì 28 aprile i social network sono stati inondati da forti immagini di violenza. Un giovane cammina lungo il binario di una strada a Floridablanca, Santander. È buio, e compare un corteo di poliziotti, l’ultimo si avvicina al ragazzo e gli spara senza fermarsi. Il giovane cade ferito e si contorce. Agonizza. I poliziotti continuano la loro marcia senza voltarsi indietro, riferisce Sputnik.
Questo è uno delle centinaia di video che circolano sui social network. Video che mostrano scene agghiaccianti. Morti, feriti, scontri accesi tra manifestanti e forze dell’ordine. Un uomo piange sconsolato davanti alle rovine di quello che era un albergo a Siloé, un quartiere popolare di Cali dove il 3 maggio manifestanti e forze pubbliche hanno combattuto scontri sanguinosi. L’uomo che piange, alzando le mani al cielo, era nell’hotel con i suoi figli nel momento in cui è stato appiccato il fuoco, secondo persone presenti sul posto, dagli agenti della famigerata Squadra Mobile Antisommossa della Polizia (ESMAD).
Le urla strazianti di una donna davanti al pronto soccorso di un ospedale di Ibagué. Piange davanti al corpo di suo figlio, Santiago Andrés Murillo, che aveva 19 anni ed è stato ucciso dalla polizia mentre tornava a casa. La donna immersa nel dolore la implora di essere uccisa, vuole andar via con il suo unico figlio. È una madre che non ha spazio per il dolore nel suo corpo. Sono solo tre immagini delle migliaia che circolano, delle percosse di un giovane da parte di dieci poliziotti, di una granata lacrimogena lanciata su un autobus pieno di gente. Per fare alcuni esempi della brutalità di un regime che pare aver perso il controllo finanche delle sue forze dell’ordine.
La polizia nazionale e l’ufficio del procuratore generale non solo non forniscono informazioni, ma sembrano nasconderle. Tuttavia, le organizzazioni per i diritti umani protestano vibratamente.
Alejandro Lanz è condirettore dell’ONG Temblores, che ha svolto un meticoloso lavoro di raccolta delle denunce sugli abusi della polizia dallo sciopero nazionale del 2019. Intervistato da Sputnik spiega che da allora hanno monitorato gli atti di violenza delle forze pubbliche 28 aprile.
Questa organizzazione riporta in tempo reale fatti che sono inquadrati in tre tipi di violenza: fisica, omicida e sessuale. Lanz spiega che i cittadini possono segnalare i loro reclami sulla piattaforma Grítanos o richiedere assistenza legale a Policarpa.
“In queste piattaforme, in questi sette giorni in cui siamo stati in sciopero, sono stati registrati più di 1.000 casi di violenza da parte della polizia, tra cui 26 omicidi, 17 lesioni agli occhi, più di 50 feriti con armi da fuoco”. L’ONG ha registrato oltre 700 casi irregolari tra repressione, detenzioni arbitrarie e privazione della libertà.
La Polizia protesta
Intanto la repressione scatenata contro i manifestanti inizia a creare malumori tra le stesse forze dell’ordine schierate in difesa di un regime che pare davvero aver toccato il fondo.
In un questo video diffuso su Twitter c’è un agente di polizia che piangendo dice al suo superiore «non dobbiamo uccidere capitano».
La repressione aumenta
La repressione però aumenta. Più di mille membri delle Forze Militari e dell’Esercito saranno schierati a Cali per rafforzare la repressione, per quanto riguarda le manifestazioni che si stanno svolgendo in Colombia. Lo ha confermato il generale Luis Fernando Navarro.
L’alto funzionario ha spiegato alla rivista Semana che l’arrivo dei soldati nella suddetta città rientra nell’ambito della cosiddetta assistenza militare richiesta dal presidente Duque.
«È un’attribuzione del Presidente della Repubblica, come comandante supremo delle Forze armate, e non è altro che avere la capacità delle sue forze militari di assistere la polizia in tre circostanze particolari, in gravi alterazioni della sicurezza, della convivenza, in caso di rischio e pericolo imminente e in caso di emergenza o calamità».
Secondo Navarro, l’obiettivo di questa misura è «salvare vite umane, proteggere il diritto ai servizi pubblici essenziali, proteggere il diritto alla proprietà pubblica e privata, proteggere i flussi di beni e servizi alle diverse località e facilitare la governabilità dei sindaci e governatori», ha affermato il generale nel tentativo di edulcorare la militarizzazione del paese decisa da Duque.
La condanna dell’ONU
La violenza di regime contro i manifestanti è stata condannata anche dall’ONU. Le Nazioni Unite hanno condannato “l’uso eccessivo della forza” nei confronti dei cittadini che inizialmente sono scesi in piazza per esprimere dissenso rispetto alla riforma tributaria del neoliberista Duque.
«Siamo profondamente allarmati per gli eventi accaduti nella città di Cali (sud-ovest) in Colombia la scorsa notte, quando la polizia ha aperto il fuoco sui manifestanti che protestavano contro la riforma tributaria, uccidendo e ferendo diverse persone, secondo le informazioni ricevute”, ha affermato Marta Hurtado, portavoce dell’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani a Ginevra.