Geraldina Colotti
Il presidente del CNE, l’intellettuale Pedro Calzadilla, ha annunciato il calendario di massima che porterà alle elezioni del 21 novembre in Venezuela: le “mega-elezioni”, come sono state definite, giacché si voterà lo stesso giorno per eleggere i 23 governatori o governatrici, i 335 sindaci o sindache e centinaia di membri dei consigli regionali e comunali.
Le loro candidature verranno presentate tra il 9 e il 29 agosto, mentre il 26 settembre si svolgerà una simulazione di voto per verificare il funzionamento di tutte le fasi del processo elettorale. La campagna elettorale, ha detto Calzadilla, comincerà il 28 ottobre e terminerà il 18 novembre, mentre si procederà a organizzare, come di consueto, molteplici audit del sistema di voto, altamente automatizzato, per assicurarne il perfetto funzionamento e la trasparenza.
Guardando ai quasi 23 anni di esistenza del processo bolivariano, ognuna delle 25 elezioni che si sono svolte appare un piccolo condensato di storia per comprendere la complessa cartografia del presente, punti di resistenza contro l’imperialismo, disegnati dal “laboratorio bolivariano”. A differenza di quanto avviene nelle democrazie borghesi, il voto in Venezuela non è infatti un feticcio da ostentare a ogni tornata elettorale, ma una leva per far crescere ulteriormente la coscienza delle masse, il potere popolare, per compattare e ampliare il blocco storico che sostiene la rivoluzione, e per decidere quando, come e con quali alleati si deve avanzare tra guerra di movimento e guerra di posizione, manovrando in equilibrio tra conflitto e consenso.
Un’alchimia complessa nello scacchiere post-novecentesco, messa in moto dall’irruzione innovativa di Hugo Chávez, che ha acceso l’entusiasmo nella Patria Grande, e ha lasciato un’impronta indelebile a cui guardano i popoli del sud. Un’eredità raccolta dal gruppo dirigente chavista, guidato da Nicolas Maduro il quale, a dispetto degli innumerevoli attacchi e denigrazioni, ha mostrato di essere un grande statista, e di aver saputo mettere a profitto della rivoluzione tre settori cardini nei quali ha maturato la sua esperienza di lotta: il campo operaio e sindacale, quello legislativo come deputato al Congresso della Repubblica, e quello internazionale, essendo stato per 7 anni ministro degli Esteri di Chávez.
Bersaglio di una guerra ibrida contro il Venezuela che ha un architrave determinante nei media egemonici – in guerra, diceva Gramsci, la prima a morire è la verità -, “super Bigote” ha mostrato di aver appreso da Chávez anche l’arte di saper sfruttare le debolezze e le menzogne degli avversari. In molti ricordano quando il Comandante, alla domanda sul perché non mandasse via un personaggio che stava remando contro la rivoluzione, rispose che un cane feroce è meglio averlo di fianco e non di dietro.
“Nervi d’acciaio, calma e cervello”, ha ripetuto spesso in questi anni Maduro, mentre il paese sperimentava ogni genere di attacco economico, cibernetico, diplomatico, mediatico, mercenario… E sempre ha mostrato di preferire l’elemento del dialogo a quello coercitivo, attirandosi per questo – come era già successo a Chávez – anche le critiche di quanti e quante avrebbero voluto rendere pan per focaccia a una destra golpista e rabbiosa, che accusa il governo bolivariano di essere una “dittatura” quando tutto il suo agire destabilizzante sta a dimostrare esattamente il contrario.
In qualunque paese della vecchia Europa, per non parlare degli Stati Uniti, se la giustizia fosse davvero uguale per tutti e non uno strumento delle classi dominanti per mantenere il dominio sugli oppressi, sarebbero infatti seppelliti di ergastoli: non per reati di opinione, ma per delitti gravi contro quelle stesse istituzioni democratiche che oggi li celebrano, in Europa, come campioni di libertà contro il “dittatore” Maduro. Invece, circolano indisturbati, continuando a chiedere ai loro padrini occidentali l’aggressione armata del proprio paese, e appropriandosi delle risorse pubbliche anche in tempo di pandemia. E hanno le stesse facce piene di odio che avevano ai tempi di Chavez: lo stesso odio dei massacratori della Comune di Parigi, che si riverbera nei secoli contro le classi popolari.
Che questi personaggi siano oggi obbligati a dialogare nuovamente con Maduro, non è un sintomo di debolezza della rivoluzione, ma di forza. Una prova evidente che il “governo di Narnia” diretto dall’autoproclamato Juan Guaidó, è sì servito a sottrarre fiumi di denaro al popolo venezuelano, ma non a distruggere la “democrazia partecipata e protagonista” che quel popolo ha scelto di votare e di confermare. Il mantra bofonchiato in questi anni da “Juanito Alimaña” (definito efficacemente così da Diosdado Cabello), si estinguerà come un rumore molesto proveniente dalla spazzatura della storia.
Al ritornello della “fine dell’usurpazione, governo di transizione” eccetera, Guaidó ha infatti sostituito quello di un “accordo di salvezza nazionale”, nel quale riciclare “un programma completo di elezioni presidenziali, legislative e amministrative libere, trasparenti e sotto osservazione internazionale”. In un video postato sulle reti sociali, ha sostenuto che, in quel caso, appoggerebbe “la progressiva revoca” delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti.
Maduro ha risposto che il dialogo nel paese esiste già. “Se vogliono il dialogo, eccoci qui, pronti per il dialogo sull’argomento che desiderano, quando vogliono e come vogliono – ha detto – Se l’opposizione rinuncia alla strada della guerra, dell’invasione, degli attentati, del colpo di stato per intraprendere il percorso elettorale, qui la attendiamo”. Poi, il presidente ha ironizzato sull’inconsistenza politica dell’autoproclamato: “Adesso spasima per il dialogo – ha detto -. Ha ricevuto l’ordine dal Nord? E quale trappola nasconderà ancora?” Guaidó – ha dichiarato il presidente del Parlamento, Jorge Rodriguez, deve restituire Monómeros, filiale di Pequiven e Citgo di Pdvsa, e riconoscere i reati di corruzione. Quello di dar conto “di tutte le risorse ricevute dagli Stati Uniti per cospirare, e di restituire i soldi bloccati sui conti bancari all’estero”, è infatti il secondo punto in agenda per impostare il dialogo. Il primo, è che l’estrema destra “abbandoni la strada dell’interventismo e del golpismo, della richiesta di invasione del paese, e riconosca la Costituzione”. Per chiedere che fine abbiano fatto i miliardi di dollari erogati dagli Stati Uniti, la Commissione parlamentare ha convocato Guaidó e la magistratura ha da tempo aperto un’indagine, ma l’autoproclamato ha rifiutato di presentarsi, definendo “stupidaggini” le parole di Rodriguez.
Al proposito, resta ancora in sospeso la disputa legale per il possesso dell’oro del Venezuela, bloccato nel Regno Unito dal Banco d’Inghilterra. La Corte Suprema ha recentemente negato una soluzione rapida al ricorso presentato dagli avvocati della Banca Centrale del Venezuela, che chiedevano di poter usare l’oro per l’emergenza pandemia. La Corte ha anche respinto la possibilità di ricorrere in appello, finché il governo britannico, che ha riconosciuto Guaidó come “presidente a interim”, non si esprima al riguardo.
Intanto, i media egemonici cercano di accompagnare la notizia con la foto di Maduro più respingente che riescano a trovare, provando a dare una parvenza di credibilità al burattino farfugliante con titoli di questo tenore: “Maduro tira fuori le zanne prima di riunirsi con Guaidó”. La lobby golpista in Europa (Lopez, Vecchio, Ledesma, e compari) cerca di richiudere le crepe che si sono aperte nell’Unione Europea, divisa tra il riciclaggio del solito Henrique Capriles, e il farfugliante burattino autoproclamato.
Il governo bolivariano ha chiesto alla Spagna l’estradizione di Leopoldo Lopez, che si aggira tra l’Italia e il Canada manifestando il sostegno al governo narcotrafficante di Ivan Duque e rinnovando gli attacchi a quello bolivariano.
Con una nota del ministero degli Esteri, il governo spagnolo fa sapere di sostenere il dialogo per “una soluzione concordata”, ma nella forma presentata dall’autoproclamato, la cui “proposta per un Accordo di salvezza nazionale incorpora tutti gli elementi”. Guaidó si afferra al sostegno degli Stati Uniti, ribadito nuovamente anche per voce del solito Marco Rubio. La voce del padrone si è fatta sentire anche da Bogotà, dove si trova l’ambasciatore statunitense designato in Venezuela, James Story: “A breve”, ha detto, verranno annunciate le commissioni e i rappresentanti di Guaidó che parteciperanno al dialogo con il governo bolivariano.
I media che sostengono l’autoproclamato cercano di far credere che la sua proposta unifichi l’intero arco dell’opposizione: da Capriles, a María Corina Machado, fino al cosiddetto “chavismo critico” di Nicmer Evans, che ora si presenta nel Movimiento Democrático de Inclusión (Mdi). La realtà è, come sempre, diversa, e fotografa come unico dato unificante gli appetiti famelici delle varie componenti che competono per il bottino, pronti a sbranarsi alla prima occasione. Per tutti, la partecipazione al dialogo sarebbe comunque l’occasione per prepararsi al referendum revocatorio contro Maduro, possibile secondo la legge nel 2022.
Un’intervista a Capriles, pubblicata su El Pais, mostra adeguatamente i termini della questione. Intanto, l’ex candidato presidenziale, due volte sconfitto prima contro Chavez e poi con Maduro, appoggia decisamente la nomina del nuovo CNE, frutto della mediazione tra governo e opposizione, rappresentata con due rettori su tre. Per questa ragione, Capriles chiede all’Unione Europea, e in particolar modo alla Spagna, di appoggiare il processo elettorale. Inoltre, il rappresentante del partito Primero Justicia, ritiene che l’opposizione manchi di leadership, disconoscendo così quella dell’autoproclamato. Ma, soprattutto, alla domanda sul perché ritenga che la fase sia diversa, risponde: “Perché Trump non c’è più. Siamo passati per un periodo assai complesso perché la politica era molto influenzata da questa Amministrazione. Temi come il Programma Mondiale di Alimenti aprivano uno scontro molto duro tra chi pensava che servire un piatto di minestra significava dare ossigeno a Maduro e quanti pensavamo che servire quel piatto significava non lasciar morire di fame un venezuelano”. Nessuno, neanche in Europa, aggiunge Capriles, voleva scontrarsi con la politica di Trump sul Venezuela, anche se ai venezuelani non ha portato niente, e ha avuto come risultato “solo la vittoria di Trump in Florida”. Inoltre, dice ancora, riferendosi a Guaidó, l’aver venduto come imminente la possibilità di un’invasione armata, ha ulteriormente screditato l’opposizione.
Una prova dal didentro che le “sanzioni” non sono un’invenzione del governo bolivariano, ma un piano criminale che, com’è già avvenuto con Cuba, hanno rafforzato la resistenza popolare e smascherato ulteriormente i veri interessi dei traditori. Ma il Venezuela, inserito con quella parte consistente del mondo che si muove in un’ottica multicentrica e multipolare, non è solo. Le sanzioni imposte dagli Stati Uniti – ha affermato la portavoce del ministero degli Esteri russo, Mara Zakharova – sono misure disumane che limitano le capacità delle autorità venezuelane di affrontare efficacemente la pandemia e di fornire al mercato interno i volumi necessari di cibo e farmaci”. Senza il congelamento delle sue risorse finanziarie, pari a oltre 7.000 milioni di dollari, bloccati in varie Nazioni (fra cui Usa, Gran Bretagna e Portogallo), il paese – ha detto la portavoce russa – avrebbe già potuto avere tutti i vaccini e le forniture necessarie per far fronte alla crisi sanitaria. Quindi, Zakharova ha espresso la preoccupazione di Mosca per la situazione di instabilità al confine tra Colombia e Venezuela, “dove le forze armate venezuelane stanno contrastando da settimane i tentativi di movimenti illegali armati e di gruppi criminali di traffico di droga di penetrare nel loro territorio”.