Álvaro García Linera www.cubadebate.cu
Tutte le cose invecchiano: organismi viventi, persone ed idee. È la durezza della seconda legge della termodinamica. Ma ci sono modi degni di farlo, rimanendosi leali ai principi con cui si è raggiunto lo zenit dell’esistenza, coscienti degli errori e senza rimpianti né trasformismi dell’ultimo minuto. Ma ci sono esistenze che si corrompono per scelta, che si degenerano per decisione. Sono gli esseri che rotolano nella putrefazione dell’anima, trascinando dietro sé le pestilenze di un destino smarrito.
Questo è il patetico divenire del politico Vargas Llosa di oggi; non di quel genio letterario che ha fatto carriera per propri meriti per entrare nella libreria della letteratura universale con “La città ed i cani” o “Conversazione nella cattedrale”. La sua attuale prosa politica è grossolana, piena di mostruosità ideologiche che offuscano la nitidezza degli ideali conservatori che un tempo professava. È come se facesse uno sforzo deliberato per svilire la persona che ha vinto il Premio Nobel e lasciarsi alle spalle un politico decadente turbato da passioni barbare.
Vargas Llosa ingoia le sue, un tempo, sostanziali convinzioni democratiche per sostenere senza decoro la erede e l’insabbiatrice del regime di Fujimori che ha chiuso il Congresso della Repubblica, sospeso il potere giudiziario, ordinato l’assalto militare ai media peruviani e promosso squadroni della morte con decine di massacri al suo attivo. Questo parla di un dramma perverso in cui un calmo liberale muta in un focoso neofascista.
E non è un tema di temperamento debole o convinzioni effimere che forse, in questo caso, abbiano contribuito all’eleganza della sua prosa. In realtà Vargas Llosa è un esempio illustre di uno spostamento emotivo dell’epoca.
Sostiene grossolane manovre della sconfitta Keiko Fujimori che denuncia “frodi” elettorali e annulla migliaia di voti delle comunità indigene e mantiene un curioso silenzio di fronte al manifesto degli ex gerarchi militari affinché le Forze Armate disconoscano la vittoria di Pedro Castillo. Così si imparenta ideologicamente con Trump che ha istigato i suoi seguaci a conquistare violentemente il Congresso USA nel gennaio 2021; o con il candidato presidenziale Carlos Mesa che, dopo aver appreso la sua sconfitta, nel novembre 2019, contro Evo Morales, ha convocato i suoi seguaci a dare fuoco ai tribunali elettorali boliviani, compresi i voti dei cittadini. Si tratta di atteggiamenti non molto diversi da quello di Bolsonaro, che rimprovera alle dittature brasiliane (1964-1985) il solo aver torturato invece di aver ucciso quelli di sinistra; o all’indegnità di Piñera che arricciando la sua piccola bandiera nazionale, per mostrare a Trump che i suoi colori e la sua stella si adatterebbero, in un angolo, della bandiera USA.
Sono sintomi del declino di un liberalismo politico che, nel suo rifiuto di assumere con compostezza il crepuscolo delle proprie luci, preferisce mettere a nudo le proprie miserie nella ritirata. Prima poteva vantarsi della sua filiazione democratica, la sua tolleranza culturale e commiserazione per i poveri, perché, indipendentemente dal partito politico vittorioso, i ricchi trionfavano sempre nel mondo in cui le alternative di ‘mondi possibili’ erano progettate a propria misura.
Ora il pianeta è sprofondato nell’incertezza del destino. Le élite dominanti divergono su come uscire dal pantano economico e ambientale che hanno causato, i poveri non si incolpano più della loro povertà, l’utopia neoliberale sta svanendo e i sacerdoti del libero mercato non hanno più i parrocchiani ai loro piedi da ingannare con riscatti futuri in cambio di compiacimenti attuali.
È il momento del declino del consenso globalista. Nemmeno quelli sopra hanno giudizi condivisi su dove andare; né quelli di sotto si fidano del vecchio corso che quelli di sopra indicavano loro. Vivono tutti in uno stato di stupore collettivo, di assenza di futuro fattibile che innesca, tra gli umiliati globali, scoppi di angoscia, disagio, rabbia e rivolta. Occupy Wall Street, il Movimento degli Indignados in Spagna, i “gilet gialli” della Francia, le rivolte popolari in Cile, Perù e Colombia, le ondate di progressismo latinoamericano, sono i sintomi di una convulsa epoca di ansie scatenate che è appena all’inizio. Nessuno degli insoddisfatti sa con certezza dove andare, sebbene sappiano con chiarezza popolare e di strada ciò che non possono più sopportare. È il tempo di un presente che sta venendo meno e di un futuro che non arriva né annuncia la sua esistenza e le vecchie credenze dominanti si incrinano, si ritirano per lasciare spazio prima all’incredulità radicale, e poi alla ricerca di qualche nuova certezza dove radicare le speranze.
È un caos creativo che erode le vecchie tolleranze morali tra quelli di “sopra” e quelli di “sotto” e che, con esso, spinge al consenso neoliberale che raggruppava la società a ritirarsi. La strada e il voto, non più i media o i governi, sono, ora, gli spazi della grammatica in cui verrà scritto il nuovo stato d’animo popolare. La democrazia si rivitalizza dal basso, ma paradossalmente per questo si è convertito in un ambiente pericoloso per gli ideologi neoliberali che sono stati democratici finché il voto non metteva a rischio il consenso privatizzatore e il libero mercato. Ma ora che la piazza e il voto mettono in discussione la validità di questo unico destino, la democrazia si presenta come un ostacolo e persino un pericolo per la validità del neoliberalismo crepuscolare.
Le denunce di frode che si stanno diffondendo nelle Americhe, e che sicuramente saranno presenti in Europa, non sono solo l’urlo di guerra dei vinti. Sono il disperato slogan delle ora minoranze neoliberali, per attaccare sistematicamente le istituzioni democratiche e la legittimità del voto come mezzo per eleggere i governanti. Il colpo di stato tende ad installarsi come un’opzione praticabile nel repertorio politico conservatore. E fa tutto questo cavalcando un linguaggio furioso che schiaccia nel suo galoppo qualsiasi rispetto per la tolleranza ed il pluralismo. Ostentano, senza esitazione, il suprematismo razziale sia contro gli indigeni che contro i migranti. Disprezzano l’anticonformismo plebeo che chiamano espressioni di “orde selvagge”, “ignoranti” “aliene” o “terroriste”. E in un ridicolo anacronismo, rispolverano la fraseologia “anticomunista” per coprire con paure ataviche il disciplinamento violento dei poveri, delle donne e della sinistra. Il neoliberalismo sta degenerando in un complessato neofascismo.
Siamo di fronte alla decomposizione del neoliberalismo politico che, nella sua fase di declino e perdita di egemonia, esaspera tutta la sua carica violenta ed è disposto a fare un patto con il diavolo, con tutte le forze oscure, razziste e antidemocratiche, per difendere un progetto già fallito. Il consenso universalista di cui si vantava il neoliberalismo negli anni ’90 ha dato origine all’infeudato odio di un’ideologia da outlet. E, come lo dimostra l’ultimo Vargas Llosa, la narrazione di questa putrefazione culturale è una brodaglia letteraria priva dell’epica delle sconfitte degne.
(Tratto da El DiarioAR)
Vargas Llosa y el liberalismo putrefacto
Por: Álvaro García Linera
Todas las cosas envejecen: los organismos vivos, las personas y las ideas. Es la dureza de la segunda ley de la termodinámica. Pero hay maneras dignas de hacerlo, manteniéndose leales a los principios con los que se alcanzó el cenit de la existencia, consciente de los errores y sin arrepentimientos ni transformismos de última hora. Pero hay existencias que se corrompen por elección, que se degeneran por decisión. Son los seres que se revuelcan en la putrefacción del alma arrastrando tras de sí las pestilencias de un destino extraviado.
Este es el patético devenir del político Vargas Llosa de hoy; no de aquel genio literario que hizo méritos propios para entrar en la estantería de las letras universales con “La ciudad y los perros” o “Conversación en la catedral”. Su actual prosa política viene chabacana, llena de monstruosidades ideológicas que mancillan la pulcritud de los ideales conservadores que algún día profesó. Es como si hubiera un empeño deliberado por envilecer a la persona que obtuvo el Premio Nobel y dejar en pie a un decadente político atribulado por pasiones bárbaras.
Vargas Llosa se traga sus otrora enjundiosas convicciones democráticas para apoyar sin decoro a la heredera y encubridora del régimen fujimorista que cerró el Congreso de la Republica, suspendió al poder judicial, ordenó el asalto militar de medios de comunicación del Perú y promovió escuadrones de la muerte con decenas de masacres en su haber. Eso habla de un pervertido drama en el que un reposado liberal muta a un ardiente neofascista.
Y no es un tema de temperamento débil o convicciones efímeras que quizá, en este caso, hayan ayudado a la elegancia de su prosa. En realidad, Vargas Llosa es un ejemplo, letrado de un desplazamiento emocional de la época.
Respalda groseras maniobras de la derrotada Keiko Fujimori que denuncia “fraude” electoral y anula miles de votos de comunidades indígenas y mantiene un curioso silencio frente al manifiesto de ex jerarcas militares para que las Fuerzas Armadas desconozcan la victoria de Pedro Castillo. Así se emparenta ideológicamente con Trump que instigó a sus seguidores a tomar violentamente el Congreso de Estados Unidos en enero del 2021; o con el candidato presidencial Carlos Mesa que, al conocer su derrota en noviembre del 2019 contra Evo Morales, convocó a los suyos a incendiar los tribunales electorales bolivianos, incluidos los votos de los ciudadanos. Se trata de actitudes no muy diferentes a la de Bolsonaro que reprocha a las dictaduras brasileñas (1964-1985) el solo haber torturado en vez de haber matado a los izquierdistas; o a la indignidad de Piñera arrugando su pequeña bandera nacional, para mostrarle a Trump que sus colores y estrella cabrían en una esquina de la bandera norteamericana.
Son síntomas del ocaso de un liberalismo político que, en su rechazo a asumir con aplomo el crepúsculo de sus luces, prefiere desnudar sus miserias en la retirada. Antes podía jactarse de su filiación democrática, su tolerancia cultural y conmiseración por los pobres, porque, con independencia del partido político victorioso, los ricos siempre triunfaban en el mundo en el que las alternativas de “mundos posibles” estaban diseñados a su medida.
Ahora el planeta se ha sumergido en una incertidumbre de destino. Las élites dominantes divergen sobre cómo salir del atolladero económico y medioambiental que han provocado, los pobres ya no se culpabilizan de su pobreza, la utopía neoliberal se desvanece y los sacerdotes del libre mercado ya no tienen a sus pies a feligreses a quienes embaucar con redenciones futuras a cambio de complacencias actuales.
Es el tiempo del ocaso del consenso globalista. Ni los de arriba tienen criterios compartidos de hacia dónde ir; ni los de abajo confían en el viejo curso que los de arriba les señalaban. Todos viven un estado de estupor colectivo, de ausencia de futuro factible que desencadena, entre los humillados globales, estallidos de angustia, malestar, enojo y sublevación. Occupy Wall Street, el Movimiento de los Indignados en España, los “chalecos amarillos” de Francia, los levantamientos populares de Chile, Perú y Colombia, las oleadas de progresismos latinoamericanos, son los síntomas de una convulsa de época de ansiedades desatadas que apenas comienza. Nadie de los inconformes sabe con certeza hacia dónde ir, aunque saben con claridad plebeya y callejera lo que ya no pueden soportar. Es la época de un presente que desfallece y de un futuro que no llega ni anuncia su existencia y las viejas creencias dominantes se fisuran, se repliegan para dar paso a la incredulidad radical primero, y luego, a la búsqueda de alguna nueva certidumbre donde enraizar las esperanzas.
Se trata de un caos creador que erosiona las viejas tolerancias morales entre los de “arriba” y los de “abajo” y que, con ello, empuja al consenso neoliberal que agrupó a la sociedad a replegarse. La calle y el voto, ya no los medios de comunicación ni los gobiernos, son ahora los espacios de la gramática donde se escribirá el nuevo estado de animo popular. La democracia se revitaliza desde abajo, pero paradójicamente por ello, se ha convertido en un medio peligroso para los ideólogos neoliberales que fueron demócratas en tanto el voto no pusiera en riesgo el consenso privatizador y de libre mercado. Pero, ahora que la calle y el voto impugnan la validez de este único destino, la democracia se presenta como un estorbo y hasta un peligro para la vigencia del neoliberalismo crepuscular.
Las denuncias de fraude que se extiende por las Américas, y que seguramente se harán presentes en Europa, no son sólo el aullido de guerra de los derrotados. Son la desesperada consigna de las ahora minorías neoliberales, para atacar sistemáticamente la institucionalidad democrática y la legitimidad del voto como modo de elección de gobernantes. El golpe de Estado tiende a instalarse como una opción factible en el repertorio político conservador. Y todo ello lo hace cabalgando un lenguaje enfurecido que aplasta en su galope cualquier respeto por la tolerancia y el pluralismo. Enarbolan sin reparos el supremasismo racial contra indígenas y migrantes por igual. Desprecian el inconformismo plebeyo al que califican de expresiones de “hordas salvajes”, “ignorantes” “alienígenas” o “terroristas”. Y en un anacronismo risible, desempolvan la fraseología “anticomunista” para encubrir con miedos atávicos el disciplinamiento violento de los pobres, las mujeres y los izquierdistas. El neoliberalismo va degenerando en un acomplejado neo fascismo.
Estamos ante la descomposición del neoliberalismo político que, en su fase de ocaso y perdida de hegemonía, exacerba toda su carga violenta y está dispuesto a pactar con el diablo, con todos las fuerzas tenebrosas, racistas y antidemocráticas, para defender un proyecto ya malogrado. El consenso universalista del que se jactaba el neoliberalismo en los años 90s, ha dado lugar al odio enfeudado de una ideología de outlet. Y, como lo demuestra el último Vargas Llosa, la narración de esta putrefacción cultural es un bodrio literario carente de la épica de las derrotas dignas.
(Tomado de El DiarioAR)