Intervento di Eusebio Leal Spengler

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lealIntervento di Eusebio Leal Spengler, Membro del Comitato Centrale del Partito Comunista di Cuba e Deputato dell’Assemblea Nazionale del Potere Popolare, durante la cerimonia per il 120º anniversario del reinizio della Guerra d’Indipendenza e per decorare i Cinque Eroi, nel Palazzo delle Convenzioni, il 24 febbraio del 2015, “Anno 57º della Rivoluzione”

Caro Generale Presidente Raúl Castro Ruz;

Cari compagni Gerardo, Antonio, Ramón, Fernando e René;

Cari compagne e compagni;

Cubane e cubani:

un giorno come oggi, com’è stato detto, di 120 anni fa, cominciò il sollevamento del popolo cubano per conquistare la sua definitiva e assoluta indipendenza.

L’amore per questa libertà, per questa sovranità, questa speranza, era iniziato molto tempo prima, forse nell’istante stesso in cui cominciò a formarsi quella che chiamiamo comunemente “identità”. Quelli che giunsero da distinte latitudini dell’Europa, già dalla Spagna conquistatrice e dall’Africa o le vestigia delle comunità indigene quasi in estinzione, ma sopravviventi, unirono il loro sangue per formare qualcosa che José Martí chiamerà con commoventi parole “Un dolcissimo mistero”.

Il concetto di cubano viene del nome della nostra isola, Cuba. Non è mai stato possibile cambiarlo ed ha prevalso sul tentativo di darle altri nomi, altri attributi.

Il nome sonoro e breve restò dentro il cuore di coloro che lo ascoltarono per la prima volta. Al di là del mare azzurro dei Caraibi che si scopre dalle rive delle nostre spiagge o dall’aria, Cuba appare con la bella forma con cui l’Isola stabilisce la sua presenza e la sua natura alle porte del Golfo del Messico.

In realtà non ci chiamiamo mai isolani, anche se non è una ma sono molte le isole che formano la nostra realtà. Nel seno di queste sorsero negli anni percezioni nelle quali tutto ciò che era precedente, portato dal conquistatore o dal conquistato come memoria, cedette a qualcosa di differente che sorse nella maniera di costruire che, pur essendo uguale, era diversa. Sorse nell’orizzonte della poesia, del canto contadino, della voce dei poeti, più alta. Sorse anche precocemente nel pensiero dei più inquieti, tra coloro che cominciarono a chiamarsi cubani.

Allora eravamo solamente un paese. Il paese è uno spazio. La patria cominciò ad essere un sogno, un’aspirazione, e la nazione un diritto per chi doveva lottare, una nazione con leggi, una nazione che sarebbe divenuta depositaria della sua stessa cultura, una nazione che avrebbe saputo andare al futuro dal passato.

Là nel suo ritiro, molto vicino a Cuba, dove volle andare morire di fronte all’impossibilità di giungervi, il presbitero Felix Varela esclamava: “Non c’è Patria senza virtù, nè virtù con empietà!”   E inoltre gli ultimi che lo videro, lo udirono affermare “Offro tutte le mie sofferenze e i sacrifici per Cuba”. Lo stesso sentimento lo provò Heredia nella sofferenza del suo esilio, seminando nell’anima cubana lo spirito di una patria, e questo animò i primi che si ribellarono e si resero conto che non c’erano altre frontiere da superare che l’oceano. Che la lotta in ultima istanza sarebbe stata qui, che contro il ceppo, la frusta, la discriminazione, l’umiliazione e la stessa negazione dell’umanità, sarebbe sorto un giorno di redenzione e di libertà.

José Martí, autore del tentativo e delle fondamenta dell’unità della nazione cubana, credeva fermamente che Nuestra América non sarebbe giunta nè da Rousseau, nè da Washington, ma da sè stessa.

Nello stesso tempo, nella misura in cui, pur molto giovane maturava il suo pensiero, si avvicinò maggiormente a quella soffrente radice delle origini: a Guaicaipuro, a Hatuey, a Guarina, a Caonabo, a tutti coloro che hanno affrontato il sapere, come ha affermato un pensatore latinoamericano, che un determinato giorno e in una determinata ora ci siamo accorti che primo eravamo indios, secondo che la nostra teologia e le nostre idee del bene e del male erano diverse, che dovevamo sovranità a un re distante e che tutto doveva cambiare. Senza dubbio, al di là del dolore e della sofferenza di quelle prime comunità che sopportarono il morso dei levrieri, il ferro delle catene e il fuoco, come Hatuey a Yara, dove viveva da secoli la tradizione che in tempi di tribolazioni o di speranza, un fuoco misterioso si accendeva nella notte, illuminando il monte.

Cuba si è fatta forgiandosi e fu con ciò che Martí giudicò “l’innocenza colpevole” di un patriziato che ottenendo la sua ricchezza dalla schiavitù, cominciò a rendersi conto che i suoi figli già non pensavano necessariamente allo stesso modo, che necessitavano con ardore un cambio e quel cambio passava per una testificazione della sua identità.

Ogni popolo nominato e ognuna delle prime sette città, eccetto tre, portavano l’impronta indigena. Fu così a Santa María del Puerto del Príncipe su Camagüey, San Salvador su Bayamo, L’Avana sulle orme di Habaguanex, e così ogni angolo e luogo ripetevano nella toponimia del suolo una presenza più antica, che cominciava a divenire già solo un’archeologia. O che, mescolata con il sangue del conquistatore, diede alla luce, come ha segnalato chi fu un illustre deputato della nostra Assemblea, Cintio Vitier, il primo maestro, Miguel Velázquez che là in Santiago di Cuba, dove ha un modesto monumento, parlava che era terra dominata, come sotto un potere.

Un senso di ribellione antico venne dal basso e questo sentimento ribelle si trasformò in uno più forte, nella misura in cui la speranza di qualsiasi cambio politico fondato nella considerazione del conquistatore sul conquistato era praticamente impossibile.

Al sollevamento degli schiavi che dapprima portarono i nomi dei loro luoghi d’origine:

Juan Congo, Antonio Carabalí, Miguel Fula seguì il cognome che ricevettero nel battesimo dai loro padroni: Morales, Armenteros, Cárdenas e cosi da quella lgrande confusione e amalgama indo-ispano-africano sorse la nostra identità, orgogliosamente meticcia del sangue e della cultura. Divenne subito realtà nella musica come lo fu nella poesia. Era differente nel paesaggio così diverso dalle aride, ma belle terre di Castiglia, dalla brumosa Galizia, dalle Asturie, o le Isole Canarie…

Era un’altra cosa. E per gli stessi africani, la terra aveva i suoi misteri: certi alberi che ricordavano i loro, alcuni considerati sacri furono oggetto dei loro culti. E presto iniziò a nascere, lentamente, lentamente, lentamente, un’aspirazione che trasformò il paese nel sogno di una Patria.

Ai grande precursori, a coloro che morirono con la speranza di costruirla, Cuba deve ancora sinceri omaggi. Come ha detto poche ore fa un giudizioso storiografo: “La storia delle nostre lotte nonostante tutto quello che è stato scritto, va ancora scritta”.

Mancano molte biografie, molti eroismi, molti silenzi, molte lacrime che nessuno ha asciugato, che devono essere cantate dai poeti, come chiese José Martí a José Joaquín Palma, quando disse al suo illustre amico, biografo di Céspedes, di culla bayamese: “Piangano tutti i trovatori repubblicani sulla culla puntellata delle loro repubbliche di germi putrefatti, che piangano i bardi dei vecchi popoli sulle cetre distrutte, sui monumenti in rovina, la virtù perduta, lo spaventoso scoraggiamento.

Il delitto d’aver saputo essere schiavo si paga essendolo per molto altro tempo ancora.

E poi dirà: “ Noi abbiamo eroi da rendere eterni, eroine da innalzare, ammirabili forze da lodare: abbiamo offeso la gloriosa legione dei nostri martiri, che ci chiede lamentandosi di noi i suoi treni e i suoi inni”.

E quelli che precocemente congiurarono, disposti a perdere tutto, a sacrificare tutto.

Già al principio del XIX secolo l’America sembrava aver risolto il problema e un’inquietudine profonda scuoteva il continente da una all’altra parte.

Coraggiosi pensatori spiegarono i diritti di un’America indipendente e alcuni leaders osarono sfidare il potere e morire, come Gual e España, in una piazza di Caracas, giustiziati prima che giungesse l’ora.

Esattamente in Cuba, nel silenzio delle logge, lavorarono “Frasquito” Agüero e altri per scrivere un testo costituzionale di una repubblica ideale, utopica e futura.

Gli anni passarono e apparentemente per molti, unito alla tratta degli schiavi, il destino di Cuba indicava necessariamente che doveva divenire un’altra stella dell’unione del sud degli Stati Uniti e alcuni invocavano anche la provvidenza divina per assicurarlo.

Senza dubbi altri credevano tutto il contrario: Cuba non deve aspettare altro che solidarietà, ma questo problema lo dobbiamo risolvere noi stessi, e questa soluzione, invocata già da Varela e insegnata da Luz nella sua scuola, come educatore e formatore di una gioventù ribelle, acquistò dimensione in ciò che lui chiamò “il sole del mondo morale“, che cadrebbero re e imperi, ma non sarebbe mai caduta dal petto umano.

Cuba deve molto a Luz, e Martí afferma d’aver pianto due volte, per Luz e per Lincoln, disse, senza aver mai conosciuto Luz nè Lincoln.

Del secondo disse che seppe che consigliato da un cattivo politico e da un uomo malvagio, voleva lanciare su Cuba tutte le feci del sud sviluppato.

Indubbiamente, venuti da là, dall’America dove avevano partecipato al grande dibattito nel sud e nel nord, non pochi cubani vollero lottare anche loro per la libertà della loro patria.

In Cuba il movimento alla ricerca dell’annessione alla nazione nordamericana s’indebolì nella misura in cui il sud veniva sconfitto. Altri credevano che era possibile un cammino: riforme, riforme e solo riforme. L’aspirazione a una concessione politica più che a una conquista politica. Da quella dura battaglia tra due correnti ne sorse una vittoriosa, che cominciò a manifestarsi in distinti punti dell’occidente, dal centro e a oriente.

Già nel 1851, in una piazza di Camagüey, Joaquín de Agüero fu giustiziato.

Si dice che un giovane, un adolescente fu portato al drammatico scenario

dell’esecuzione e che bagnò nel sangue il suo fazzoletto. Era colui che alcuni avrebbero chiamato Bayardo e altri El Mayor, il letterato e poderoso difensore delle idee politiche e sociali, che divenne poi il Maggiore Generale dell’Esercito di Liberazione, leader del pensiero abolizionista a Camagüey. Mentre in Oriente, al di là di Jobabo, si riunirono una e un’altra volta e lo fecero così per la penultima volta in quello che chiamarono la Convenzione di Tirsán, in un luogo detto San Miguel del Rompe. Li si sentì la voce del più inquieto, dell’uomo di piccola statura, di grande e variato talento, avvocato, che aveva percorso il mondo, buon cavaliere, giocatore fortunato, amante dell’amore e dei piaceri della vita, ma disposto a rinunciare a tutto, che chiamò ad un sollevamento senza più aspettare. Altri con più ricchezze, ma con meno determinazione, aspiravano ad un nuovo periodo di raccolta delle canne da zucchero per riunire con cosa fare la battaglia definitiva, e un giuramento fu pronunciato da tutti i congiurati: se si scopre questa cospirazione, il primo che cercheranno d’arrestare si solleverà.

All’alba de 10 ottobre, Céspedes, nel cortile della sua tenuta, La Demajagua, con soli 37 uomini, davanti al panorama del Golfo di Guacanayabo e contemplando all’orizzonte la Sierra magnifica, parlò ai quei suoi compagni, proclamando non solamente la necessità di lottare e strappare le armi all’avversario, l’unico cammino possibile, ma lanciando un tizzone acceso sull’isola schiavista. I suoi schiavi sarebbero stati liberi e con il diritto di combattere per la loro libertà e la loro Patria.

Il concetto di patria si era unito all’ambizione per una nazione, e in una data fortunata presero la prima delle città orientali. Questa prima città fu Bayamo che fu data alle fiamme nel momento in cui tutto sembrava perduto. Alle porte delle case dei congiurati, dei giovani più impegnati, giunsero i primi guerriglieri domandando pane e armi.

A San Luis uno bussò alla porta di Marcos e di Mariana, l’insigne Mariana – quest’anno è il bicentenario della sua nascita. .Poderosa madre di una nazione che in questo momento pone i suoi figli in ginocchio e li fa giurare davanti al Cristo, che prende dalla parete della stanza, che lotteranno sino a morire per la loro Patria, giuramento che si compì per quasi tutti. Anni di lotta e di sacrificio.

Nessuna storia, nè spagnola nè cubana, è riuscita a raccontare con tutta la sua grandezza quello che soffersero la famiglia, il bambino, la donna cubana, il contadino cubano. Si lottava contro un esercito agguerrito e battagliero, che veniva a vendicare le sue dispute nella penisola, nelle lunghe guerre, e adesso, in Cuba, a

decine di migliaia affrontavano il sollevamento dei cubani Erano già sorti tra di noi temibili guerriglieri. Di fonte al timore della presa inesorabile di Bayamo aspettava – assieme a un pugno di uomini scelti, in un punto chiamato “ Ventas de Casanova” – un guerriero dominicano abituato a combattere nella guerra di ricostruzione della sua stessa patria e contro l’invasore straniero.

Lì dimostrò che quell’arma usata sino ad allora per vendicare l’onore o tagliare le canne da zucchero sarebbe stata la più importante nella lotta.

Si conserva ancora in un museo della penisola, una carabina tagliata da un solo colpo di fiero machete. Così fu il combattimento, che durò secondi, che durò momenti, che permise al nemico di rendersi conto che era nato un avversario figlio del suo sangue, che sarebbe stato capace di lottare per la propria libertà, e di conquistarla.

Bayamo fu incendiata come una nuova Numanzia e questo annunciò il

futuro e il destino. Già nel 1853, in un’umile casa di calle Paula, figlio di uno spagnolo e una spagnola, era nato José Martí.

In quello stesso anno muore il Padre Varela, a San Agustín de la Florida, e muore Domingo del Monte, a Barcellona, due poderosi pensatori si erano estinti. Ma interessa maggiormente il primo; il secondo era uomo di gusto, letterato, disegnatore della vita sociale e acuto pensatore. Il primo, rivoluzionario integrale, aveva optato per l’abolizione della schiavitù e per il riconoscimento dell’indipendenza americana, si era trasformato in difensore dei poveri, pubblicava il suo giornale e lo inviava a Cuba.

I suoi discepoli lo piansero ma allora nessuno sapeva che nella stessa fonte battesimale in cui era stato battezzato José Julián, era stato battezzato anche Padre Varala.

Quando scomparve uno, nacque l’altro.

e quel giovane chiamato ad un grande destino è colui che oggi ricordiamo, commemorando la prodezza dell’unità della nazione che fece nascere dalla dispersione per il fallimento del enorme sforzo dopo tanto sacrifico: lui che lesse con amarezza quello che era accaduto a Mangos de Baraguá e scrisse al Generale Antonio che aveva davanti a sé una delle pagine più belle della storia di Cuba.

Lui che sentì come proprio l’onore di tutto il popolo, le lacrime di questo popolo, lui che sofferse i biasimi nella sua casa, lui che ebbe una relazione tanto intensa e profonda con un padre che essendo soldato e spagnolo, riuscì a capire, vedendolo ferito e piagato, prigioniero e dimagrito, che il suo destino era un altro, chissà disegnato nel suo bel poema “Abdala”, quando presenta il duello tra il giogo e la stella e chiede l’uno e l’altra ed è convinto, come afferma, che quella stella illumina e uccide.

Esilio, Centroamerica, l’America del Sud, i cubani dispersi, le accuse reciproche, finalmente la Spagna e gli Stati Uniti.

Là visse 14 anni e fu, come hanno affermato i suoi cronisti il cubano che intese nel suo tempo quella nazione

Ammirò le virtù di Emerson, quelle del padre Flanagan. Ammirò l’opera colossale della costruzione del ponte di Brooklyn. Seguì puntualmente le conferenze di Oscar

Wilde, gli spettacoli teatrali; si innamorò con candore della

bella ballerina spagnola Charito Otero. Ma più di tutto si rese conto dal grande fenomeno che si forgiava in quella nazione e che, come aveva affermato Bolívar in un momento di straordinaria lucidità, sembrava chiamata dalla provvidenza a colmare l’America Latina di povertà e miseria in nome della libertà.

Si rese contro che nel 1868 non potevano sperare niente, anche se lì ci furono, ci sono ed esiteranno sempre amici poderosi di Cuba, e che avvenne una dicotomia tra il sentimento degli amici e la volontà di uno Stato che volle sempre, in maniera evidente, impedire la realizzazione di un’indipendenza che credeva inopportuna. Credette maggiormente nel compimento di una dottrina tracciata da uno dei loro politici, che sosteneva che solamente stendendo la mano nel momento di maturazione della frutta, questa sarebbe caduta semplicemente nelle loro palme del mani.

Nonostante tutto quello divenne da oratore dell’ultima fila, il primo.

Ogni cerimonia nel 10 ottobre, ogni commemorazione cubana, l’orribile ricordo del 27 novembre, terribile fatto che lo sorprese in Spagna, portarono l’oratore sulla tribuna a unire quello che era diviso. E dai mille versi in ottava sorse un giornale, “Patria”,   da mille discorsi sorse una linea politica, da mille disposizioni e piccole organizzazioni sognò la creazione di un partito politico per dirigere una guerra di liberazione nazionale, anticipando il concetto che è impossibile fare una rivoluzione senza una teoria rivoluzionaria. La sua teoria non era altro che la nostra storia, il nostro sacrificio, il nostro sforzo. Eravamo una nazione in gestazione, di diritto, ma non di fatto.

Chiamato a porre empatia nella discordia , unì Gómez e Maceo. Non si può nascondere che dopo il fallimento del 1884 e lo scontro di New York, non c’era la possibilità di

un’amicizia feconda per iniziare un nuovo processo. Oggi diremmo che non c’erano condizioni obiettive. Senza dubbio Maceo, in Costa Rica, preparava il suo contingente. Gomez si preparava, nella solitudine di Montecristi, in Repubblica Dominicana, e anche quando prima s’incontrarono durante la costruzione del canale di Panamá, amici disposti ad aiutare, a dare protezione, ad offrire un tetto e il pane agli emigrati che in ogni parte sognavano e amavano la loro patria.

E in questa forma sorse l’organizzazione, un 10 aprile, che è un giorno critico nella storia di Cuba, il giorno della gloriosa Assemblea Costituente di Guáimaro, dove nacque l’utopia democratica del popolo cubano; ma dove si mise anche del piombo alle ali della rivoluzione, dove si pensò che era possibile fare una repubblica di leggi quando non eravamo padroni di altro che lo spazio calpestato negli accampamenti e dai cavalli dei liberatori.

Nel mezzo di quella realtà, un 10 aprile nacque la sua creazione più completa: il partito politico, un partito unitario che convocherà il popolo cubano a una guerra che lui considerò inevitabile, e dopo necessaria.

Inevitabile, perchè nei suoi sentimenti nobili e generosi, nella sua intima e profonda convinzione, aveva reclamato con il suo famoso Manifesto, alla Repubblica spagnola che non avrebbe chiesto l’impossibile, ma che chiedeva il possibile: i diritti conculcati di Cuba, le rappresentazione di Cuba, il diritto di studiare, di interpretare, di conoscere, che eravamo differenti. Nulla di tutto questo fu ascoltato. Solamente molti solidali in Spagna e in altre parti del mondo credevano nella causa di Cuba.

E allora tutto divenne più difficile: c’era un alto sviluppo della tecnologia militare, una situazione nuova nel continente americano, le repubbliche soffrivano i dolori delle loro divisioni, quando avevano lasciato intatto il trono e l’altare, dopo lo sforzo immenso della prima battaglia.

Ricordavano ancora le dolorose parole di Bolívar a Santa Marta: “Ho arato nel mare”.

La tristezza di San Martín al ritorno, incontrando il suo paese diviso; la pena de O’Higgins morendo a Lima, lontano dalla sua terra amata; il terribile dolore di Francisco de Morazán vedendosi catturato e giustiziato dai suoi stessi compagni. E ancora pesava quella maledizione quasi biblica che aveva lasciato Miranda, quando il grande precursore consegnato prigioniero, alle porte di una nave spagnola che lo doveva portare ad una reclusione perpetua e definitiva, riconoscendo coloro che commettevano quel parricidio, rispose: “Scandali e solo scandali è quel che voi sapete fare”.

Al disopra di tutta quella storia si alzò Martí, ed era vasta e grande la sua cultura, come ha segnalato uno dei suoi biografi. Scendeva a saliva scale come chi non ha polmoni; la sua voce era chiara e nitida, il suo potere di convincimento grande.

Era nello stesso tempo uno scrittore instancabile, la cui bella calligrafia iniziale si era trasformata praticamente in linee comprensibili solo da specialisti. Mancava il tempo, gli mancava il tempo. Quando tutto fu pronto e disposto, quando credette che tutto era organizzato, quando era riuscito a visitare Mariana Grajales in Giamaica, che già cieca gli accarezzava la testa e praticamente con quel gesto nobile, in ginocchio, inviava un abbraccio paterno al figlio che tanto amava, alla madre che non riuscì a vedere la sua patria libera, quando già separato da ogni bene personale, lontano dalla moglie, separato da suo figlio, suo padre già morto, gli amici dispersi, lo si vide, povero, negli Stati Uniti, lavorando nell’inverno per guadagnarsi il pane, fondando la Lega per educare i negri cubani che, orientati da Rafael Serra, si riunivano e lo chiamavano con affetto e devozione “Maestro” e “Apostolo”.

Che brutalità cercare di spogliarlo di un titolo tanto importante, “Apostolo”, colui che porta la parola, che trasmette un messaggio nuovo, e questo fu il suo messaggio !

Quando nel porto di Fernandina si persero le navi, credette d’impazzire, ma trasformandosi da José Martí in Oreste, che fu sempre il suo pseudonimo politico e degli scritti, andò in Repubblica Dominicana cercando il generale Gómez a Montecristi, in quella casa dove tra pochi giorni, il 25 marzo, si compiranno ugualmente 120 anni dalla firma del poderoso Manifesto, chiamando il popolo cubano alle armi e gli spagnoli a non temere nulla se avessero rispettato la patria che si doveva fondare.

Ci fu discordia. Non si riusciva a capire quello che stava accadendo. Oggi per noi è facile

farlo con un telefono, un messaggio, ma allora c’era solamente il telegrafo con il suo linguaggio crittografico per annunciare che era giunta l’ora.

Maceo era stato a Cuba anni prima, conosceva lo stato politico del paese e in quel momento dubitava di poter andare sino a Cuba, perchè non sapeva che cosa stava succedendo negli Stati Uniti e perchè il denaro che si offriva per noleggiare una nave e giungere sani e salvi non appariva.

Gómez era ugualmente povero a Santo Domingo, e aveva appena alcuni centesimi per poter prendere questa determinazione. Gli altri patrioti aspettavano in luoghi diversi e a Cuba molta gente era avvisata, in Oriente, in Occidente, a Matanzas.

Improvvisamente il generale diede l’ordine: “È necessario sollevarsi”, e Martí non ebbe dubbi per inviare il telegramma che il suo amico ritirò nell’ufficio della Western Union in calle Obispo, ne L’Avana vecchia. “Bonifici esauriti”, significava che era terminato il tempo. Era la notte del 24 febbraio e il Capitano Generale era convinto e aveva le informazioni che si tramava realmente un movimento.

Alcuni dirigenti furono catturati a L’Avana. Juan Gualberto Gómez, impegnato con suo fratello e amico di José Martí, andò a Matanzas, a Ibarra, cercando l’insediamento Vellocino de Oro, nello zuccherificio dov’era nato, per sollevarsi con un gruppo di compagni e mantenere la parola data.

A Santiago, Guillermo Moncada volle morire mantenendo la sua parola, malato di tisi, ma nelle campagne di Cuba Libera, a Baire, si sollevarono, e a Bayate si sollevò anche Bartolomé Masó, e tutto il mondo aspettava solamente l`’arrivo dei leaders.

Là in Spagna l’emozione fu grande. Era stata smentita la propaganda autonomista ed era stata smentita la propaganda anticubana, che erano tutti sogni sconclusionati di un profeta impazzito. Ora solamente mancava l’arrivo.

Con ammirabile disciplina e la presenza dei generali e degli ufficiali che stavano in Costa Rica, Antonio e Flor giurarono di accettare le condizioni di viaggiare nel modo che il secondo proponeva al primo, e così andarono a prendere la goletta Honor e arrivarono il 1º aprile sulle coste di Cuba, in un punto del litorale di Baracca.

“ Sono io, Antonio Maceo che è tornato!”, gridò dall’alto del cammino, mentre sparava con la sua arma ai guerriglieri spagnoli di Baracoa.

L’11 aprile, giorno glorioso e memorabile, a Playitas di Cajobabo sbarcarono Máximo Gómez e José Martí.

Vent’anni fa il capo della Rivoluzione mi chiese di raccontare questa storia. Con profonda emozione e come si sale per accendere la fiamma nell’alto del cenotafio, dove si custodisce la memoria dei caduti, cercai di compiere il mio dovere.

Confesso che fu un grande onore quello, e che lo è questo, che lei Generale Presidente mi ha assegnato.

Però devo dire ancora qualcosa. Il fatto importante e trascendentale è che allora conclusi le mie parole, chiamando perchè si alzassero dalle tombe i morti gloriosi del 10 Ottobre e del 24 Febbraio; chiamai i martiri, le eroine, le cubane che ricamarono le bandiere, chiedendo di ostacolare il cammino di un nemico e avversario implacabile che, come tutto sembrava indicare, veniva stavolta a impedire in forma definitiva, giocando con gli imprevisti della storia, il destino di Cuba. Ma non fu possibile.

Oggi, 20 anni dopo, siamo qui in piedi in un congiuntura diversa. Ci siamo presentati con signorilità sotto gli stessi manghi orientali per affrontare l’avversario gentiluomo che offre almeno per un periodo, di fermare la mano aggressiva, dandoci la possibilità di discutere quello che logicamente sarà necessario dibattere abbastanza.

Adesso più che mai è necessaria l’unità della nazione. Adesso più che mai

il regalo più prezioso dev’essere conservato.

La forza che ci ha permesso di giungere sino a qui è la stessa che ho visto in quella notte d’aprile a Playitas de Cajobabo quando, convocati dal leader della Rivoluzione, giungemmo in quell’ora buia della notte sulla riva del mare.

Lui portava la bandiera cubana con l’asta, che gli aveva portato uno dei suoi aiutanti. e allora, entrato in acqua praticamente sino alla caviglia.

Apparve improvvisamente la luna bianca e lui mosse la bandiera di Cuba verso il sud, verso il nord, verso est e verso ovest, dicendo: “Siamo qui”.

E siamo qui oggi, oh Patria amata! O dolce bandiera per la quale tanti hanno lottato! Non importa che tu, Maestro generoso te ne sia andato così presto quel 19 di maggio. Avevi una profonda convinzione, una convinzione profonda: “ Io lo so scomparirò, ma le mie idee prevarranno”.

E queste idee hanno prevalso. Sono state le idee difese nel processo storico della Moncada; sono state quelle che hanno conquistato quei ragazzi che si riunivano nella strada del Prado per ascoltare la voce di quel giovane che era entrato nell’università come un vortice, del quale una delle sue sorelle m disse un giorno: “È tornato a casa e papà già lo sapeva… Viene cercare il minore.”

E il minore è qui con noi e il grande è sempre con noi!

Viva Cuba!.

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