Lei protesta e Twitter la censura
La furiosa propaganda anticomunista e anticubana dal sapore maccartista, schierata a sostegno della destabilizzazione di Cuba, ha ormai raggiunto vette impensabili. Non sono solo i media a pomparla al massimo con l’obiettivo di accreditare presso l’opinione pubblica internazionale che a Cuba vi sia un regime tirannico che sopravvive solo grazie al pugno di ferro nei confronti di una popolazione vessata e ormai ridotta allo stremo. L’efficace immagine del ‘gulag tropicale’ evocata da Gianni Minà, come fotografia di una realtà parallela che esiste solo nella propaganda occidentale.
Il caso di Betty Pairol è paradigmatico in tal senso. L’account Twitter dell’agenzia ONU che si occupa di diritti umani – UN Human Rights – pubblica una foto della donna cubana in un post dove viene attaccato il governo facendo così passare l’idea che Betty Pairol fosse scesa in piazza per protestare con veemenza contro il governo. Probabilmente, come evidenzia La Fionda, non pensavano che la donna cubana gli avrebbe risposto perché forse credono alla favola che a Cuba non ci sia internet e non si possano usare i social network. Invece Betty Pairol ha risposto contestando l’utilizzo distorto e manipolatorio della sua immagine. La donna era infatti scesa sì in piazza, ma a sostegno della Rivoluzione oggetto di attacchi.
Per tutta risposta Twitter le ha bloccato l’account. Confermando ancora una volta che i social network sono un campo tutt’altro che neutro. Ma veri e propri attori politici con una ben determinata ideologia. Che, guarda caso, collima con l’agenda dei democratici in quel di Washington.
Questa la risposta di Betty Pairol affidata a un altro social network, Facebook, non più democratico di Twitter ma al momento non ha censurato la donna cubana.
«Tra la plebaglia, la feccia, la volgarità, l’indecenza, l’oscenità, là, tra i disadattati sociali, la piaga, i criminali, i vagabondi abituali, tra il branco aggressivo, pericoloso, violento, portavo con me la voce della mia famiglia, la voce di Cuba.
Ho appreso della richiesta dell’Avana di unirsi per dare sostegno alla democrazia, all’ordine istituzionale, allo sforzo di un Paese per uscire vincitori da questa pandemia. Alcuni increduli o troppo sicuri di sé non lo credevano possibile, ma è stato troppo il bombardamento mediatico sui social, che ha attaccato la dirigenza del governo definendola incapace, approfittando dell’ondata di contagi e decessi causati dal covid-19, le carenze, la lunghe code, mancanza di medicinali, accresciute dal bloqueo genocida.
Ma sentivo che qualcosa era imminente, che i disinformati si sarebbero lasciati trasportare dalla manipolazione, i confusi, quelli che non hanno fatto nulla per il loro Paese ma pretendono che il Paese lo faccia per loro, quelli che non sono mai stati in zona rossa, a prestare aiuto in qualche centro di isolamento, coloro che non hanno condiviso quel poco che hanno con i vicini di Matanzas nelle raccolte volontarie di aiuti di solidarietà, quelli che gironzolano di notte, irrispettosi delle restrizioni alla mobilità, coloro che ogni giorno rompono la tranquillità del mio blocco con musica ad alto volume oppure praticare sport in mezzo alla strada a piedi nudi, a torso nudo e peggio ancora senza mascherina, diventando un rischio per gli altri e per se stessi. Naturalmente, quando si ammalano o si rivelano contatti di casi positivi, richiedono il massimo delle cure mediche, un immeritato conforto.
Allora mi sono armata del mio stendardo e sono uscita dalla tranquillità della domenica, sapendo che sarei andata a combattere, sarei uscita a difendere la tranquillità delle mie figlie.
Per strada ho trovato la turba fetida, l’ho attraversata al grido di «¡viva Cuba, abajo el bloqueo!», alzando la bandiera con la stella solitaria, quella «que no ha sido jamás merecnaria». Non potevo permettere che mi zittissero, dovevano sapere che sebbene fossi “sola” il mio grido rappresentava la decenza, l’intransigenza di chi si oppone all’annessione, l’arrendersi, sebbene in quel momento fossero la maggioranza, sentivo di avere l’obbligo morale di affrontarli, ero il comandante in capo di me stessa.
E c’erano i media in-dipendenti, che catturavano ogni spavalderia, ogni disprezzo e la risposta energica dipingendola come repressione della polizia. La mia immagine rabbiosa, che urla a squarciagola, chiedendo la fine del blocco tra tanti bambini di sette mesi, eccola, manipolata o messa a tacere, ma sapevano che c’era una donna cubana, quella dignitosa, che non abbassa la testa, quella che pretende il suo legittimo diritto di pensare controcorrente.
Qualche mediocre artista reggaeton è passato di lì e ha ricevuto il mio epiteto “traditore, traditore, traditore…!”. Una risata beffarda apparve sul suo viso, non dirò cosa mi ha fatto desiderare di fare al suo viso. Stava guidando la folla che si muoveva per il Paseo con l’intenzione di raggiungere il lungomare, ma la città era pronta a ripulire le sue strade da tanto fetore che si erano lasciati indietro.
Somos continuidad.
Socialismo o Muerte!
Patria o Muerte!
Venceremos!».