Biden e la “sindrome dell’Avana”

Geraldina Colotti

Siamo in presenza di un poderoso attacco imperialista ai processi di cambiamento in America Latina, principalmente alla rivoluzione cubana. In questi giorni, mentre la Forza Armata Nazionale Bolivariana denunciava una nuova incursione illegale di un aereo militare nordamericano, i gusanos di Miami mettevano in atto un teatrino analogo a quello allestito due anni fa contro il Venezuela: l’invio di un presunto “aiuto umanitario” che, da Miami, avrebbe dovuto raggiungere Cuba via mare con una “flottiglia”.

Come sempre, nonostante il massiccio supporto dei media internazionali, le lobby che premono per ottenere un’invasione militare di Cuba, hanno dovuto ammettere il fallimento dell’operazione per manifesta mancanza di effettivi. E l’umorismo dei cubani si è scatenato sul web. Hanno, tuttavia ottenuto dall’amministrazione Biden, nuove “sanzioni” a tempo di record contro funzionari del ministero dell’Interno e vertici delle Forze armate cubane, nell’ambito del Global Magnitsky.

Si tratta di una legge voluta da Obama per sanzionare la Russia e poi fatta diventare, appunto “global” da Trump. Il pretesto è sempre il medesimo: presunta violazione dei “diritti umani” durante le proteste contro il governo, nel nuovo capitolo destabilizzante voluto da Washington per la regione. “Questo è solo l’inizio”, ha minacciato Biden annunciando le misure coercitive e ha aggiunto: “stiamo lavorando con organizzazioni della società civile e del settore privato per fornire accesso ad Internet ai cubani aggirando gli sforzi di censura del regime”. E ha anche detto che, di concerto con le istituzioni vassalle della regione come l’OSA di Almagro, si adopererà per inasprire ulteriormente le restrizioni agli invii di denaro dei cubani all’estero. Una situazione contro la quale sono insorti a difesa di Cuba sia i presidenti progressisti della regione che i movimenti popolari, mobilitati anche in Italia per manifestare nella storica data del 26 luglio.

Il ministro degli Esteri cubano, Bruno Rodriguez ha definito “infondati e calunniosi” gli argomenti usati da Biden per imporre nuove misure coercitive. “Gli Stati uniti – ha detto -dovrebbero applicare a loro stessi la Legge globale Magnitsky Act, per via degli atti di repressione quotidiana e per la brutalità della polizia, costati 1021 vite umane solo nel 2020”. Contro il popolo cubano – ha aggiunto Rodriguez – non c’è stata repressione, così come non c’è stata alcuna rivolta sociale, né tantomeno casi di scomparse o di minori detenuti. E Biden, farebbe meglio a occuparsi del razzismo in casa propria. Il ministro si è detto molto preoccupato per la manipolazione delle immagini e dei fatti della realtà cubana da parte degli Stati Uniti.

“Lasciate vivere Cuba”, hanno scritto intanto oltre 400 intellettuali e personalità, statunitensi e internazionali, in un manifesto fatto pubblicare a pagamento sul New York Times.  Da Noam Chomsky alle attrici Susan Sarandon e Jane Fonda, dal regista Oliver Stone all’ex presidente brasiliano Luis Inacio Lula da Silva e al leader laburista Jeremy Corbyn, tutti chiedono a Biden di porre fine al bloqueo “immorale e irragionevole” tanto più in tempo di pandemia. “Non c’è più motivo di mantenere in piedi politiche legate alla Guerra Fredda”, dice il manifesto, incitando Biden a proseguire la strada intrapresa da Barack Obama.

Ma, intanto, si sta espandendo anche in Europa la cosiddetta “sindrome dell’Avana”. È il nome che venne dato da un gruppo di diplomatici statunitensi presenti a Cuba a presunti sintomi come cefalea e nausea, avvertiti durante la permanenza all’Avana e denunciati all’inizio dell’amministrazione Biden anche a Washington.

Una denuncia che sembrava finita nel dimenticatoio per la sua inconsistenza, ma che ora è stata ripresa da una ventina di diplomatici, funzionari e spie statunitensi in servizio a Vienna. Tanto che il capo della Cia ha organizzato una task force investigativa – composta da analisti, agenti segreti specializzati nella raccolta di informazioni e specialisti clinici – diretta da una delle spie che hanno partecipato alla caccia ad Osama bin Laden.

Mentre l’imperialismo tesse le sue trame, assistiamo però anche a una ripresa di iniziativa nel campo opposto, quello della lotta di classe e della costruzione di una nuova progettualità alternativa: parliamo dell’America Latina e non, purtroppo, dei paesi capitalisti d’Europa, dove i movimenti di resistenza a questo capitolo pandemico della crisi strutturale del capitalismo non hanno ancora prodotto una sponda organizzata e cosciente, nonostante anni di scontri di piazza, com’è accaduto in Francia con i Gilet Gialli. Dalla Colombia al Cile, dal Brasile all’Honduras, al Paraguay, invece, i movimenti popolari fanno esperienza e si rafforzano nella consapevolezza del costo sempre più alto imposto dalla chiusura degli spazi di agibilità politica, evidente a livello globale. Un aspetto che, come vediamo anche nelle vertenze operaie in corso in Italia, rende sempre più chiara la natura politica del conflitto, la necessità di costruire organizzazione e quella di articolare il piano nazionale con quello internazionale.

In diversi paesi dell’America Latina, la radicalità espressa dalle lotte di massa ha indubbiamente messo sempre più a nudo la crisi delle rappresentanze istituzionali espresse dalla democrazia borghese e blindate, come in Cile o in Colombia, in forme impermeabili all’espressione popolare. In Cile, la vittoria al referendum per abolire la costituzione di Pinochet ha aperto il confronto anche sul terreno legale, mostrando la crisi di egemonia della destra: evidente, per esempio, nel suo peggior risultato ottenuto dal 1965 nelle elezioni per i governatori e i sindaci.

Le recenti primarie presidenziali, in vista delle elezioni del 21 novembre, hanno sì dato conto della crescita ottenuta, per esempio, dal Partito Comunista e di un forte ricambio generazionale evidente nelle lotte di massa, ma hanno anche mostrato che la strada non è affatto in discesa.

Come si ricorderà, fra i quattro candidati del centro-destra raggruppati nella coalizione Chile Vamos, il favorito Joaquin José Lavin, economista dell’Union Democrata Independiente (Udi), è stato ampiamente battuto dall’”indipendente” Sebastián Sichel, un avvocato di 43 anni, che ha raccolto il 49,08% dei voti, contro il 31,3% di Lavin. In una inchiesta di due anni fa, che calcolava il livello di notorietà di 28 figure politiche, Lavin, che ha fatto parte della dittatura, figurava al terzo posto, appena dietro il presidente Piñera y la expresidenta Michelle Bachelet. Sichel, che proviene dalla Democrazia Cristiana e ha l’appoggio del presidente, ma si è presentato come “indipendente”, aveva 12 anni all’epoca della dittatura. Al momento dell’inchiesta era praticamente sconosciuto. Anche la destra cilena, insomma, sta mutando pelle.

Quanto alla coalizione Apruebo Dignidad, nella quale si sono confrontati il comunista Daniel Jadue, fino a ieri segnalato come potenziale vincitore delle presidenziali di novembre e il deputato del Frente Amplio, Gabriel Boric, ha visto la vittoria di quest’ultimo, 35 anni, che si è aggiudicato il 60,43% dei consensi, mentre il suo sfidante si è fermato al 39,57%. Anche in questo caso, la caduta della pregiudiziale comunista non si è però tradotta in un’espressione di gradimento istituzionale pieno. E, da qui al 21 novembre, la strada è ancora lunga.

Ma, intanto, dal punto di vista dei soggetti protagonisti del cambiamento, è indubbia – a sinistra – la visibilità politica ottenuta dalle donne e l’assunzione piena della lotta anti-patriarcale come un asse imprescindibile della lotta al capitalismo e all’imperialismo, e la questione mapuche che ha finalmente ottenuto diritto di rappresentanza piena. L’Assemblea Costituente – la Convención in Cile -, ha eletto come presidenta una donna mapuche, Elisa Loncón.

Una nota accademica e difensora dei diritti dei popoli indigeni, che ha pronunciato il suo discorso di assunzione di incarico sia in spagnolo che in Mapudungun, l’idioma Mapuche. La sua elezione può senz’altro essere considerata un simbolo della trasformazione in corso in Cile anche attraverso questo processo costituente, che potrebbe aprire la strada a uno stato plurinazionale, come quello esistente in Bolivia.

Elisa Loncón ha partecipato all’incontro internazionale delle dirigenti latinoamericane convocato dalla sua giovane omologa peruviana Zaira Arias, militante di Peru Libre, a Lima, e che si è concluso ieri. Durante la campagna elettorale, Zaira ha guidato la famosa Carovana del Lapiz al posto di Pedro Castillo, attuale presidente, che si era sentito male. All’incontro hanno partecipato, tra le altre, anche Gabriela Rivadeneira, dell’Ecuador, Patricia Arce, dalla Bolivia e Ofelia Hernández dall’Argentina.

Alla figura del “lapicito” Castillo si è riferito peraltro anche Segundo Leonidas Iza Salazar, eletto lo scorso 27 giugno come presidente de la Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador (Conaie) per i prossimi tre anni. Iza, che fu uno dei protagonisti della rivolta di ottobre 2019 contro il governo del traditore Lenin Moreno, ha un profilo di sinistra radicale e si definisce anticapitalista, e il movimento indigeno è tornato ad animare la lotta contro le politiche neoliberiste del banchiere Lasso in Ecuador, uscendo dall’ambiguità centrista dell’indigenismo di Yaku Pérez.

In Perù, dove il maestro Pedro Castillo ha finalmente ricevuto l’avallo giuridico e potrà giurare come presidente il 28 luglio, nel bicentenario dell’indipendenza, il paese discute del principale tema proposto da Castillo in campagna elettorale: la convocazione di un’assemblea nazionale costituente. La coalizione di Perù libre non ha i numeri al Congresso, dove i deputati hanno giurato il 23 luglio, e la destra promette battaglia. Fin dall’apertura delle attività il nuovo Parlamento ha evidenziato il tema del cambiamento della costituzione promulgata nel 1993 da Alberto Fujimori, che i suoi eredi hanno giurato di mantenere.

Dai banchi di Perù libre, si è giurato invece sul varo di una costituzione plurinazionale. Il deputato di Perù Libre, Guillermo Bermejo, processato per presunti legami con il gruppo guerrigliero Sendero Luminoso, ha giurato a pugno chiuso “per una seconda indipendenza, per la patria socialista e per l’Assemblea Costituente”. Vari altri deputati, eletti nelle regioni andine del sud hanno giurato in lingua quechua, come Guido Bellido, di Cusco, mentre Óscar Zea, di Puno, ha dedicato la sua assunzione d’incarico all’Impero Inca e a una “seconda riforma agraria”, promessa da Castillo.

Continua, intanto, la campagna in difesa dei diritti umani dell’ultraottantenne dirigente di Sendero Luminoso, Abimael Guzman, il presidente Gonzalo, sempre tenuto in isolamento e al quale viene impedita anche la visita di sua moglie, la dirigente comunista Elena Albertina Iparraguirre, anche lei detenuta.

Indigeni e contadini sono in prima fila anche nella lotta in Colombia, dove i movimenti popolari cercano di costruire una nuova rappresentanza e dove avanza la proposta di un Patto storico, simile a quella dei Fronti popolari contro il nazismo e il fascismo, in questo caso rappresentato da Uribe e dal suo figlioccio Ivan Duque.

Un cancro difficile da sradicare, quello dell’uribismo, braccio insanguinato delle politiche imperialiste in tutto il continente e non solo. Tra i mercenari che hanno ammazzato il presidente de facto di Haiti, Juvenes Moise, c’erano ex militari colombiani allenati a Fort Benning, in Georgia. Si chiama ora così l’antica Escuelas de las Americas, la scuola di tortura dove gli Stati Uniti hanno allenato i gorilla del cono Sur del Secolo Scorso. Nell’economia di guerra, motore fondamentale del processo di accumulazione capitalista previsto dal “multilateralismo” nordamericano, le imprese private per la sicurezza con il loro esercito di mercenari e strumenti di controllo, via mare e via cielo, sono fondamentali. Così com’è fondamentale il ruolo dei media di guerra, scatenati, come vediamo adesso contro Cuba, a guardia del sistema capitalista.

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