Geraldina Colotti
L’America Latina è un continente più che mai al centro delle mire dell’imperialismo, come si può vedere da quel che accade in alcuni punti strategici, sia sul piano economico o geopolitico che su quello simbolico.
Un’immagine emblematica arriva dalla manifestazione reazionaria che si è svolta a Miami contro Cuba, Venezuela e Nicaragua. Dopo l’arrivo di Biden alla presidenza degli Stati Uniti, le destre hanno lavorato per impedire alle componenti più progressiste di aprire qualche breccia nella politica estera nordamericana, sulla quale sempre finiscono per intendersi comunque i due schieramenti, sia democratici che repubblicani. La giornata di proteste dell’11 luglio contro il governo cubano, è stata preparata da una campagna mediatica di portata internazionale, che continua ad alzare i toni in base allo schema della guerra ibrida, sul modello delle rivoluzioni colorate di balcanica memoria.
L’importanza, come sempre, non sta nei numeri – fermo restando, comunque, la consistenza delle forze reazionarie sia nel continente che a livello internazionale. L’importanza principale sta nel veicolare un messaggio, condito di allarmi e false notizie e costruzioni mediatiche tanto grossolane quanto funzionali alla strategia del “caos controllato”. Il messaggio sta nel capovolgimento dei simboli unificanti, e per lo più di marca novecentesca, che funzionano per i popoli dell’America Latina e ancora hanno una loro eco nel mondo. Slogan come “Patria o muerte. Venceremos”, hanno rappresentato e diffuso nel mondo l’incontro tra le rivoluzioni marxiste e il riscatto anticoloniale nel secolo scorso, la lotta senza quartiere contro il nemico comune, necessaria sia ieri che oggi.
Vale per Cuba ma anche per il Nicaragua sandinista. Un po’ meno per il socialismo bolivariano, giacché, nella stagione dei Social Forum, raccogliendo le sollecitazioni di alcuni movimenti, Chávez ha trasformato lo slogan “Patria o muerte, venceremos” in “Vivremo e vinceremo”, ma senza edulcorare la forza del messaggio, e per questo sottolineando sempre: “Siamo una rivoluzione pacifica, però armata”. E così, in questo Bicentenario di indipendenza che celebra il Libertador Simon Bolivar, ecco il fascismo di Miami manifestare “con una sola voce per la libertà dei popoli cubano, venezuelano e nicaraguense”, appropriandosi anche di una strofa dell’inno nazionale venezuelano, che continua a risuonare nelle manifestazioni chaviste accanto alle canzoni di lotta e all’inno del Partito Socialista Unito del Venezuela. Si tratta dell’esortazione: “Abajo cadenas!”. Abbasso le catene, a cui segue “Muoia l’oppressione!”. L’oppressione colonialista, beninteso.
La destra di Miami, fidando sulla partecipazione dei propri sponsor musicali, già visti nelle proteste dei cosiddetti artisti di San Isidro, vuole ripetere lo schema già adottato contro il Venezuela con la farsa dell’autoproclamato Guaidó e i relativi concerti, sponsorizzati dai miliardari di Miami e pagati anche con i soldi rubati al popolo venezuelano dai golpisti riconosciuti all’estero. Per questo, ora le lobby anticubane, attive soprattutto dalla Spagna, premono sull’Unione Europea, dalla quale già hanno ottenuto un pronunciamento a proprio favore e spingono affinché Biden emetta nuove sanzioni, chiudendo definitivamente la strada a un ritorno, seppur parziale, alle “aperture” di Obama. E Biden ha annunciato che proseguirà su questa via.
Un’attitudine doppiamente criminale perché cerca di far leva anche sulla pandemia e sull’amento dei contagi. Cuba è all’avanguardia nella ricerca scientifica, giacché ha sviluppato ben cinque vaccini contro il covid-19, due dei quali (Soberana 2 e Abdala) già in fase operativa. Tuttavia, a causa del bloqueo, il governo cubano ha enormi difficoltà a procurarsi il materiale sanitario essenziale per rafforzare l’immunizzazione della sua popolazione.
Uno dei pretesti per l’imposizione arbitraria e illegale di sanzioni unilaterali, è la cosiddetta lotta al terrorismo. Con modalità evidentemente grottesche, Trump ha incluso nuovamente Cuba nei paesi che patrocinano il terrorismo, e ora il presidente della Colombia, Ivan Duque, pur essendo alla guida di uno stato narcotrafficante e patrocinatore di tutti i tentativi di destabilizzazione voluti dagli Usa nella regione, vuole che Biden imponga nuove sanzioni al Venezuela in quanto “stato che patrocina il terrorismo”.
La cosiddetta lotta al terrorismo è, insieme al lawfare, l’uso della magistratura a fini politici, una delle armi di sopraffazione usata contro governi che non si inginocchiano ai voleri del gendarme occidentale. Lo abbiamo visto in questi giorni anche in Salvador, dove il roboante presidente Nayib Bukele ha ordinato l’arresto di Sánchez Cerén, l’ex comandante guerrigliero Lionel, ed ex presidente, per presunta malversazione di fondi quando era vicepresidente della repubblica, tra il 2009 e il 2014, durante il governo di Mauricio Funes. Altri dirigenti del Fronte Farabundo Marti per la Liberazione Nazionale sono stati arrestati in quello che si preannuncia come un regolamento di conti politici funzionale alla svolta autoritaria di cui è protagonista Bukele, che sta accentrando su di sé tutti i poteri.
Dal Nicaragua, Daniel Ortega – sempre più sotto attacco dell’imperialismo in vista delle elezioni di novembre – ha respinto la persecuzione giudiziaria contro l’ex comandante Lionel e ha concesso la cittadinanza nicaraguense a lui e a tutta la sua famiglia.
Destra attiva anche in Perù per impedire il governo del maestro Pedro Castillo che, seppur con un programma di riforme cauto, ha giurato come presidente dando un chiaro messaggio anticoloniale, antipatriarcale, multinazionale, ambientalista e di maggior equità sociale. Prendendo a pretesto anche qui la cosiddetta lotta al terrorismo perseguita in modalità lawfare, la destra è scesa in piazza violentemente ieri per protestare contro la nomina a primo ministro di Guido Bellido, inquisito per “apologia del terrorismo”, e ha attaccato la casa di Castillo. Dopo aver cercato di impedire con ogni mezzo l’assunzione di incarico del maestro, il blocco fujimorista ha promesso di tornare in piazza riprendendo quelle false motivazioni, rendendo il clima incandescente: per evitare che possa realizzarsi la principale promessa di campagna elettorale di Castillo: l’Assemblea Nazionale Costituente.
Intanto, sempre ovviamente in nome della libertà di stampa e del pluralismo, i padroni del web che rispondono agli interessi nordamericani, hanno bloccato nuovamente l’acconut twitter del vicepresidente venezuelano del Psuv, Diosdado Cabello e della sua trasmissione Con el Mazo Dando. Lo stesso – come ha denunciato l’ambasciatore cubano in Italia – ha fatto Repubblica con l’account del rappresentante della diplomazia cubana, José Carlos Ruiz. Una voce che molesta, evidentemente, quando informa sulle gravi violazioni ai diritti umani compiute dall’imperialismo Usa e dai suoi vassalli.
In questo modo, si cerca di silenziare il messaggio di pace con giustizia sociale che arriva dai paesi del socialismo latinoamericano e dalla lotta dei popoli che, come quello colombiano, cercano di mandare alla spazzatura della storia questo modello capitalista devastante.
Così, si cerca di intorpidire le vittorie degli atleti venezuelani a Tokyo, a meno che non si schierino contro il proprio governo che, come quello di Cuba, dedica gran parte delle proprie risorse alla difesa delle esigenze popolari. E mentre i media mainstream si dedicano a diffondere e ad amplificare qualunque menzogna o inezia proveniente dai gusanos di Miami, nulla si saprà degli importanti messaggi politici che provengono dalla rivoluzione bolivariana.
Per esempio, in vista delle mega-elezioni del 21 novembre, l’autorità elettorale, il Cne, ha blindato la parità di genere, dando ulteriore voce e corpo alla maturità espressa in questi 22 anni in tema di lotta al patriarcato. Un ricco dibattito si è svolto tra le donne che militano nei partiti politici, sia del chavismo che dell’opposizione, e le autorità elettorali. A condurlo, due femministe: la deputata Gladys Requena e la rettora del Cne, Tania d’Amelio. Il presidente dell’autorità elettorale venezuelana, l’autorevole storico Pedro Calzadilla, anch’egli femminista, ha illustrato i passi compiuti dalla lotta delle donne sul piano istituzionale, ribadendo come il livello raggiunto dalla libertà femminile indichi il livello di sviluppo raggiunto da una società, e come “non possa esserci socialismo senza femminismo”.