Franco Vielma https://misionverdad.com
Proprio ora concorre per il Venezuela, una delle sue pietre miliari politiche più importanti negli ultimi tempi: le Olimpiadi di Tokyo 2020. Che, forse un’Olimpiade che si svolge in un altro paese è un evento politico per noi? Certo che lo è, ancora di più trattandosi del Venezuela, poiché la politica è, fortunatamente, il nostro sport nazionale.
Cominciamo con lo spiegare che ogni convenzione sociale è anche un atto politico. Non c’è l’uno senza l’altro. D’altra parte, lo sport non è affatto depoliticizzato, per gli interessi (economici, nazionali, identitari e di diversa indole) che in esso convergono. Lo sport è una convenzione sociale e lo è anche il modo in cui lo interpretiamo.
La pietra miliare che concorre in Venezuela è il miscuglio e l’interazione di reazioni sorte per quella che è, senza dubbio, la più importante raccolta di medaglie dell’intera storia olimpica nazionale, che risale al 1948.
Gli atleti sono, tutti, riassunti di storie personali, origini e significati comuni che sono affiorati e sono stati interpretati dal paese.
Certo, le sue pietre miliari sportive sono state trasferite nell’arena politica frontale da diverse direzioni, e per questo conviene fare tale lettura.
L’IDENTITÀ E L’ORIGINE
Ogni medaglia conquistata dai venezuelani negli ultimi giorni è stata, nella maggior parte dei casi, motivo di grande gioia. Ma contemporaneamente a queste reazioni c’è stato un dibattito, per molti versi disordinato, ma in fin dei conti dibattito, sulle origini e le identità degli atleti, chi rappresentano e chi no, chi ci identifichiamo con loro e chi no.
Questo sfogo è stato esposto, risalto di una disputa per i codici e significati comuni.
È successo con Julio Mayora (argento nel sollevamento pesi), la prima medaglia nella raccolta di quest’anno. Fu il primo a parlare con Maduro e ha dedicato la sua medaglia a Chávez, nel giorno del compleanno del Comandante. Questo accadeva per la sua pelle nera, per il suo cognome così comune a La Guaira e per la sua origine dalla classe popolare. Il suo volto è quello di qualsiasi giovane in qualsiasi angolo del paese.
Di Keydomar Vallenilla (argento nel sollevamento pesi), si è parlato delle sue origini, Las Brisas di Cota 905, zona popolare che recentemente è stata punto di scontro tra le forze dello Stato contro la malavita paramilitarizzata che ha teso un’imboscata alla tranquillità del paese. La Cota 905 era stata dichiarata “perduta” da molti che, vantando un nazismo tropicalizzato, chiamavano a “bombardarla” perché chi ci abita è “inutile”.
Daniel Dhers (argento in BMX Free Style), del Chacao (Caracas), da tempo ha lasciato il Venezuela per gli USA. È cittadino USA da due anni. È icona mondiale di uno sport costoso che è radicato solo tra i giovani della classe media. È anche un uomo d’affari di successo nella sua specialità, sponsorizzato da Red Bull, Verizont ed altre marche. Non sono noti profondi legami sportivi con il governo venezuelano e, in questi giorni, è stato affermato che, per “non dover nulla al governo”, era affiliato all’opposizione venezuelana. Ci si aspettava che desse un colpo anti-chavista, ma ha parlato con il presidente Maduro in una conversazione molto fluida ed amichevole.
Yulimar Rojas (oro nel salto triplo, stabilendo record olimpico e record mondiale nella stessa serata), di Caracas cresciuta nella parte orientale del paese, nella Anzoátegui più povera. Aristóbulo Istúriz è stato uno dei primi a vedere il suo talento e quindi il chavismo ha sostenuto i suoi primi salti in lungo. Yulimar ha messo una medaglia a Maduro, il suo argento olimpico di cinque anni fa. Di origine povera, nera e lesbica, cosa che è ancora causa di rifiuto da parte di molti odiosi in Venezuela, Yulimar è oggi una gloria di 15,67 metri. Una gloria così vasta e pesante come le illusioni del paese, al punto da poterle reggere sulle sue lunghe e potenti gambe. È l’atleta più completa della storia nazionale e una delle migliori al mondo.
Il profilo di questi atleti è stato il principale riferimento di una disputa per le narrazioni che raramente abbiamo conosciuto in queste denominazioni e grandezza. Il caso di Mayora ha portato l’intero paese a iniziare una lotta sull’identità politica dei medagliati.
Poi lo scontro sulla loro origine ci ha portato alla disputa sulla migliore visione del paese e quale fosse rappresentata nelle imprese di questi atleti.
Questo scontro ha anche scatenato i codici sull’identità di classe e persino di razza. “E’ negro, non ha niente, viene da un quartiere, sicuro è chavista”, si legge in giro. O come Daniel Dhers “è mezzo gringo e ha soldi”, “non risponderà alle chiamate di Maduro e forse chiamerà Guaidó”.
I casi più scandalosi sono stati quelli in cui alcuni antichavisti si sono mostrati delusi e frustrati, perché alcuni atleti erano o potevano essere chavisti. Celebrare le loro vittorie significherebbe celebrare il chavismo, dicevano alcuni.
Non ci sono condizioni sociali o intellettuali per il cretinismo. Abbiamo visto reazioni come queste in gente a caso nelle reti ma anche nella “colta” e famosa pianista venezuelana Gabriela Montero, che ha affermato che una medaglia era una “lavatrice” dell’immagine del chavismo. L’info mercenario Nelson Bocaranda è arrivato al punto di prendere in giro i sollevatori di pesi riferendosi a gente povera che trasporta bombole di gas.
C’è dell’altro. Il “famigerato” economista Ángel García Banchs ha chiesto “rispetto” per la sua “opinione” che Yulimar fosse una “vergogna nazionale”, oltre a chiamarla “corrotta” e “senza principi”. E per finire, diversi “influencer” e cosiddetti “comici” venezuelani in una grande carenza di creatività hanno rifritto, tra loro, la battuta secondo cui Daniel Dhers è il santo patrono o idolo dei delivery (consegne) venezuelani, una “innocente” burla per estensione ai molti connazionali che, dentro e fuori il Venezuela, lavorano in questo modo per guadagnarsi da vivere. Ci sono molte altre espressioni, e nominandole finirebbero queste limitate righe.
Da vari codici, direzioni e angolazioni, spesso sovrapposte nell'”umorismo” o nelle pieghe della “discussione politica”, si è sostenuta una discussione sui significati comuni e d’identità di classe che si è data nelle varie denominazioni per inveire, ma anche per riaffermare atteggiamenti.
UN DIBATTITO “SPORTIVO” E POLITICO CHE CI HA PUNTATO AI VINCOLI
Ci sono patologie psicosociali che sono emerse, tristemente, tra la matassa di messaggi e reazioni sulle reti sociali al verificarsi di ogni medaglia. Si sono manifestate espressioni di squalifica automatica al merito di alcuni atleti all’ affermarsi o presumersi la loro appartenenza politica chavista.
Persino Daniel Dhers, il favorito degli oppositori su Instagram, è stato bersaglio di durissime critiche per aver parlato al telefono con Maduro, per averlo chiamato “fratello” e per essersi reso disponibile a rafforzare il suo sport nel paese, poiché ciò distava molto da quello che alcuni si aspettavano da lui.
Daniel Dhers lo hanno sradicato, solo che nel suo caso è apparso quel complesso inoculato nel terzo mondo della falsa inferiorità propria. Alcuni hanno preso Dhers come il loro medaglista preferito perché l’uomo è un marchio internazionale e, beh, ha avuto la “carità”, l'”umiltà” di partecipare con il Venezuela, potendo farlo con la bandiera USA.
La verità è che Dhers, nonostante il cognome, si sente più venezuelano che l’arepa con diablitos (panino tipico ndt), ma alcuni lo continuano a vedere più gringo di Willie Nelson. Non ci sarebbe tutta quella costruzione immaginaria se Dhers fosse residente in Perù.
Sono sorte false credenze di superiorità di fronte all’altro, di fronte all’avversario, basate sulla presunta superiorità morale, razziale e di classe. L’abbiamo vista quando alcuni hanno affermato che Mayora non era chavista, ma aveva bisogno di una casa per sua madre che viveva in “una discarica”, o quando hanno affermato che Keydomar ha parlato con Maduro per convenienza, o peggio ancora, che lo aveva fatto “sotto pressione e ricatto”. Qualcosa come se sei nero e sei cresciuto in una casa povera, la tua parola non conta ma c’è un interesse dietro, o sei uno schiavo che in pieno XXI secolo obbedisce a frustate.
Abbiamo visto le patologie originate dall’odio, come la mancanza di empatia e la negazione dell’identità e dell’origine dell’altro. Lo abbiamo visto ogni volta che si è affermato che Yulimar era già spagnola, sradicandola per allenarsi là, che l’allenava l’FC Barcelona e che era un’atleta troppo brava e che per questo “sicuramente ora non è chavista, poiché ha già soldi e non deve ottenere nulla dal governo”.
Vediamo che in sintesi il negativo che si è detto, in questi giorni, sugli atleti ha puntato ai nostri legami, alle nostre narrazioni, al nostro immaginario come paese. Il desiderio di alcuni di distruggere gli atleti è proprio quello di distruggerli come simboli.
Ciò coincide in un’epoca politica in cui alcuni hanno, erroneamente, considerato il chavismo estinto e simbolicamente annientato. Se così fosse, non ci sarebbe alcuna associazione automatica di qualsiasi atleta dalla pelle scura con il chavismo. In questi giorni è stato confermato che l’identità chavista continua ad essere un fattore trasversale, presente negli immaginari, sia per quelli di noi che festeggiamo sia per gli odiatori di mestiere.
Successivamente, l’immagine del paese sminuito, senza prestigio nazionale ed internazionale, continua ad andare in fumo con un progressivo recupero della presenza e del prestigio del Venezuela. Questo non è solo per lo sport, anche se il paese ha il suo miglior raccolto olimpico nei suoi peggiori periodi economici (diciamolo, a causa del blocco). In altri ambiti della politica ci sono posizioni apprezzabili che non siamo nel marzo 2019 e che, fallendo, hanno, in buona misura, attenuato la virulenza delle pressioni e dei riferimenti negativi contro il paese.
Sul terreno dei fatti il chavismo, che ha i principali codici identitari nazionali, ha prevalso ritto, non così i suoi avversari locali.
Quindi, questo dibattito che ha portato allo scontro tra i nostri legami e i nostri immaginari, che ha preso di mira gli atleti, è un tratto di un paese che continua disputandosi nelle arene che ritiene come opportune, tra la festa di alcuni e la tensione di altri. Dovrebbe essere chiaro che le reazioni esasperanti degli antichavisti a questi temi sportivi riflette un profondo livello di frustrazione che si è creato nell’arena della politica frontale.
Lo sport, il successo, il simbolo del paese ed i suoi riferimenti ora appaiono con medaglie ed è per questo che le disputiamo, benché le medaglie siano per tutti, come hanno detto gli atleti. Le disputiamo perché ne abbiamo bisogno e perché ci sono stati altri riferimenti che sono stati lasciati indietro. Facciamo memoria a breve termine.
I guarimberos (rivoltosi ndt), il terrorista Óscar Pérez, la teatralità di Lilian Tintori, il Koki e la sua banda, persino lo stesso Juan Guaidó, che sono stati marchi circostanzialmente fabbricati dalla narrazione antichavista da diverse angolazioni come referenti identitari giovanili nazionali, sono stati demoliti e sopraffatti uno ad uno. Erano simboli effimeri, hanno fallito.
Teniamo conto, poi, che proprio chi ha innalzato quei simboli falliti si è unito alla critica e allo sfogo assurdo nei confronti degli atleti.
Aggiungiamo a tutto ciò che il segno simbolico che Chávez ha messo sugli atleti nazionali, “La Generazione d’Oro”, ha finito per essere un mantra attuale che è servito da veicolo in questo brodo di sfoghi e di scontro d’immaginari.
Sebbene alcuni chiamino, tragicamente, questa disputa come “polarizzazione”, la verità è che non esiste tal cosa poiché il paese non è proporzionalmente diviso su queste posizioni. La verità dai fatti è che un’immensa maggioranza nazionale si è unita in allegria grazie ai nostri atleti.
È stato bello leggere migliaia e migliaia di belle espressioni della gente, difendendo gli atleti, il loro colore, la loro origine. Tantissimi riconfermandosi come loro, identificandosi con loro.
Un evento sportivo, come dicevamo, è anche un atto politico, una convenzione sociale. Queste medaglie che ci sono capitate hanno fatto emergere i vari volti con cui conviviamo, che restano a fior di pelle come virtù e miserie. Dobbiamo riconoscerci in esse per prendere posizione politica e gli sport servono anche a questo. Ci dicono chi vince e chi perde. Ci dicono verso quale lato inclinarci, per definire il nostro stato d’animo, se celebriamo o pensiamo di essere sconfitti.
In questa rissa sulle narrazioni e nella lotta per i migliori referenti di paese, vince, come ha detto Yulimar, la gente “guerriera e bella”. Perdono coloro che sproloquiano e gli odiatori seriali.
MEDALLAS OLÍMPICAS, FORCEJEO POLÍTICO Y LA DISPUTA POR LOS SÍMBOLOS
Franco Vielma
Justo ahora concurre para Venezuela uno de sus hitos políticos más importantes de tiempos recientes: las Olimpiadas de Tokyo 2020. ¿Qué, acaso unas olimpiadas que se realiza en otro país es un evento político para nosotros? Por supuesto que sí, más aún tratándose de Venezuela, pues la política es afortunadamente nuestro deporte nacional.
Partamos explicando que toda convención social es también un acto político. No hay lo uno sin lo otro. Por otro lado, el deporte no está despolitizado en lo absoluto, por los intereses (económicos, nacionales, identitarios y de diversa índole) que en él confluyen. El deporte es una convención social y la forma en que lo interpretamos también lo es.
El hito que concurre en Venezuela es la mezcla y la interacción de reacciones que han surgido por la que es, sin dudas, la más importante cosecha de medallas en toda la historia olímpica nacional, que data desde 1948.
Los atletas son, todos, resúmenes de historias personales, procedencias y sentidos comunes que han aflorado y han sido interpretados por el país.
Por supuesto, sus hitos deportivos han sido trasladados a la arena política frontal desde diversas direcciones, y por ello conviene hacer esta lectura.
LA IDENTIDAD Y LA PROCEDENCIA
Cada medalla alcanzada por venezolanos en días recientes ha sido, en la mayoría de los casos, detonante de una gran alegría. Pero en simultáneo a estas reacciones ha ocurrido un debate, de muchas maneras desordenado, pero debate a fin de cuentas, sobre las procedencias y las identidades de los atletas, a quiénes representan y a quiénes no, quiénes nos identificamos con ellos y quiénes no.
Este desahogo ha quedado expuesto, haciendo relieve de una disputa por los códigos y los sentidos comunes.
Ocurrió con Julio Mayora (plata en halterofilia), la primera medalla en la zafra de este año. Fue el primero en hablar con Maduro y le dedicó su medalla a Chávez en el cumpleaños del Comandante. Ello vino con su piel de negritud, por su apellido tan común en La Guaira y por su procedencia de la clase popular. Su rostro es el de cualquier joven en cualquier rincón el país.
Sobre Keydomar Vallenilla (plata en halterofilia), se habló de sus orígenes, Las Brisas en la Cota 905, zona popular que hace poco fue punto de enfrentamiento entre las fuerzas del Estado frente al hampa paramilitarizada que ha emboscado la tranquilidad del país. La Cota 905 había sido declarada “perdida” por muchos que en alarde de un nazismo tropicalizado llamaron a “bombardearla” porque los que allí viven “no sirven”.
Daniel Dhers (plata en BMX Free Style), de Chacao (Caracas), se fue hace mucho de Venezuela a Estados Unidos. Es desde hace dos años ciudadano estadounidense. Es icono mundial de un deporte costoso y arraigado solo entre jóvenes de la clase media. Es además un próspero empresario de su especialidad, patrocinado por Red Bull, Verizont y otras marcas. No se le conocen profundos vínculos deportivos con el gobierno venezolano y durante estos días se afirmó que, por “no deberle nada al gobierno”, se lo afiliaba a la oposición venezolana. Se esperaba que diera un batacazo antichavista, pero habló con el presidente Maduro en una conversa muy fluida y amigable.
Yulimar Rojas (oro en salto triple, imponiendo record olímpico y record mundial en una misma velada), caraqueña criada en el oriente del país, en el Anzoátegui más pobre. Aristóbulo Istúriz fue uno de los primeros en ver su talento y así el chavismo apoyó sus primeros largos saltos. Yulimar le puso una medalla a Maduro, su plata olímpica de hace cinco años. De origen pobre, negra y lesbiana, algo que todavía es causal de rechazo por muchos odiosos en Venezuela, Yulimar es hoy una gloria de 15,67 metros. Una gloria tan extensa y tan pesada como las ilusiones del país, al punto de que ella puede sostenerlas en sus largas y poderosas piernas. Es la atleta más completa de la historia nacional y de las mejores del mundo.
La semblanza de estos atletas ha sido el principal referente de una disputa por los relatos que pocas veces hemos conocido en estas denominaciones y magnitud. El caso de Mayora dio pie para que todo el país comenzara un forcejeo sobre la identidad política de los medallistas.
Seguidamente la confrontación sobre la procedencia de ellos nos trasladó a la disputa de la mejor visión de país y cuál se veía representada en las hazañas de estos deportistas.
Esta confrontación también desató los códigos sobre la identidad de clase y hasta de raza. “Es negro, no tiene nada, viene de un barrio, seguro es chavista”, leímos por ahí. O como Daniel Dhers “es medio gringo y tiene plata”, “no va a atenderle llamadas a Maduro y tal vez llame a Guaidó”.
Los casos más desaforados fueron aquellos en los que algunos antichavistas se mostraron decepcionados y frustrados, porque algunos atletas eran o podrían ser chavistas. Celebrar sus victorias sería celebrar al chavismo, dijeron algunos.
No hay condiciones sociales o intelectuales para el cretinismo. Reacciones como esas las vimos en gente random en las redes pero incluso también en la “culta” y afamada pianista venezolana Gabriela Montero, quien dijo que una medalla era una “lavadora” de imagen del chavismo. El informercenario Nelson Bocaranda llegó al punto de burlarse de los pesistas refiriendo gente pobre cargando bombonas de gas.
Hay más. El “connotado” economista Ángel García Banchs pidió “respeto” a su “opinión” de que Yulimar era una “vergüenza nacional”, además de llamarla “corrupta” y “sin principios”. Y para colmo, varios “influencers” y llamados “comediantes” venezolanos en una gran escasez de creatividad refritaron entre sí el chiste de que Daniel Dhers es el santo patrono o el ídolo de los deliverys venezolanos, una “inocente” burla por extensión a muchos compatriotas que dentro y fuera de Venezuela trabajan de tal manera para ganarse la vida. Hay muchas expresiones más, y por nombrarlas se acabarían estas limitadas líneas.
Desde varios códigos, direcciones y ángulos, muchas veces solapadas en el “humor” o en los pliegues de la “discusión política”, se apuntaló una discusión de sentidos comunes y de identidad de clase que se dio en varias denominaciones para despotricar, pero también para reafirmar posturas.
UN DEBATE “DEPORTIVO” Y POLÍTICO QUE NOS APUNTÓ A LOS VÍNCULOS
Hay patologías psicosociales que afloraron, tristemente, en medio de la madeja de mensajes y reacciones en redes sociales conforme ocurría cada medalla. Se manifestaron expresiones de descalificación automática al mérito a algunos atletas al afirmarse o suponerse su filiación política chavista.
Incluso, Daniel Dhers, el favorito de los opositores en Instagram, fue blanco de muy duras críticas por hablar con Maduro por teléfono, por llamarlo “hermano” y ponerse a disposición para fortalecer su deporte en el país, pues aquello distaba mucho de lo que algunos esperaban de él.
A Daniel Dhers lo desarraigaron, solo que en su caso apareció ese complejo inoculado en el tercer mundo de la falsa inferioridad propia. A Dhers algunos lo tomaron como su medallista favorito porque el hombre es una marca internacional y, bueno, ha tenido la “caridad”, la “humildad” de participar con Venezuela pudiendo hacerlo con la bandera de Estados Unidos.
Lo cierto es que Dhers, pese a su apellido, se siente más venezolano que la arepa con diablitos, pero algunos siguen viéndolo más gringo que Willie Nelson. No habría toda esa construcción imaginaria si Dhers fuera residente en Perú.
Surgieron falsas creencias de superioridad frente al otro, frente al adversario, fundadas en la supuesta superioridad moral, racial y de clase. La vimos cuando algunos afirmaron que Mayora no era chavista, sino que necesitaba una casa para su madre quien vivía en “un basurero”, o cuando afirmaron que Keydomar habló con Maduro por conveniencia, o peor aún, que lo hacía “bajo presión y chantaje”. Algo así como si eres negro y creciste en un hogar pobre, tu palabra no cuenta sino que hay un interés detrás, o eres un esclavo que en pleno siglo XXI obedeces a latigazos.
Vimos las patologías originadas en el odio, como la falta de empatía y negación de la identidad y la procedencia del otro. Lo vimos toda vez que se afirmó que Yulimar ya era española, desarraigándola por entrenar allá, que la entrenaba el FC Barcelona y que era demasiado buena atleta y que por ello “seguro ella ya no es chavista, pues ya tiene dinero y no tiene que sacarle nada al gobierno”.
Veamos que en resumen lo negativo que se ha dicho estos días sobre los atletas ha apuntado a nuestros vínculos, a nuestros relatos, a nuestros imaginarios como país. El afán de algunos de destruir a los atletas es precisamente para destruirlos a ellos como símbolos.
Esto concurre en un tiempo político en el que erróneamente algunos han dado al chavismo como extinto y simbólicamente aniquilado. Si así fuera, no habría asociaciones automáticas a cualquier atleta de piel morena con el chavismo. Estos días se ha corroborado que la identidad chavista sigue siendo un factor transversal, presente en los imaginarios, tanto para los que celebramos como para los odiadores de oficio.
Seguidamente, la imagen del país disminuido, sin prestigio nacional e internacional, sigue yéndose al traste con una recuperación progresiva de la presencia y prestigio de Venezuela. Esto no va solo a los deportes, aunque el país tenga su mejor zafra olímpica en sus peores tiempos económicos (digámoslo, a causa del bloqueo). En otros ámbitos de la política, hay posiciones apreciables de que no estamos en marzo de 2019 y que, por fracasar, han desescalado en buena medida la virulencia de las presiones y las referencias negativas contra el país.
En el terreno de los hechos, el chavismo, el cual patenta los principales códigos identitarios nacionales, ha prevalecido en pie, no así sus adversarios locales.
De ahí que este debate que ha ido al choque de nuestros vínculos y nuestros imaginarios, que ha apuntado a los atletas, es rasgo de un país que sigue disputándose en las arenas que encuentra como oportunas, entre la celebración de unos y la crispación de otros. Entiéndase que las exasperantes reacciones de los antichavistas por estas cuestiones de deporte, refleja un profundo nivel de frustración que ha sido creado en la arena de la política frontal.
El deporte, el logro, el símbolo de país y sus referentes, aparecen ahora con medallas y por eso las disputamos, aunque las medallas sean para todos, como han dicho los atletas. Las disputamos porque las necesitamos y porque hubo otros referentes que quedaron atrás. Hagamos memoria a corto plazo.
Los guarimberos, el terrorista Óscar Pérez, la teatralidad de Lilian Tintori, el Koki y su banda, incluso el mismo Juan Guaidó, que han sido marcas circunstancialmente fabricadas por el relato antichavista desde diversos ángulos como referentes identitarios juveniles nacionales, han sido derruidos y avasallados uno por uno. Fueron símbolos efímeros, fracasaron.
Tomemos en cuenta, entonces, que precisamente los que alzaron esos fallidos símbolos se han unido a las críticas y al desahogo absurdo contra los atletas.
Agreguemos a todo esto que la marca simbólica que Chávez puso a los atletas nacionales, “La Generación de Oro”, terminó siendo un mantra vigente que ha servido de vehículo en este caldo de desahogos y de choque de imaginarios.
Aunque algunos llamen a esta disputa de manera trágica como “polarización”, lo cierto es que no hay tal cosa pues el país no está proporcionalmente dividido en estas posturas. La verdad desde los hechos es que una inmensa mayoría nacional se ha unido en la alegría gracias a nuestros atletas.
Fue de lo lindo leer miles y miles de expresiones bonitas de la gente, defendiendo a los atletas, su color, su origen. Muchísimos reafirmándose como ellos, identificándose en ellos.
Un evento deportivo, como dijimos, es también un acto político, una convención social. Estas medallas que nos han ocurrido han sacado los varios rostros con los que convivimos, que quedan como virtudes y miserias a flor de piel. Hay que reconocernos en ellas para tomar posición política y para esto también sirven los deportes. Nos dicen quiénes ganan y quiénes pierden. Nos dicen hacia cuál lado inclinarnos, a definir nuestro estado anímico, si celebramos o nos asumimos derrotados.
En esta reyerta por los relatos y en el forcejeo por los mejores referentes de país, gana, como dijo Yulimar, la gente “guerrera y bonita”. Pierden los despotricadores y odiadores seriales.