Geraldina Colotti
È durata quasi tre ore la conferenza stampa del presidente venezuelano Nicolas Maduro. Dopo una breve introduzione sul momento pre-elettorale che interessa il paese in vista delle mega-elezioni del 21 novembre, Maduro ha risposto alle domande dei giornalisti, in presenza o in virtuale, fornendo notizie e analisi sulla situazione nazionale e internazionale. Al centro dell’incontro, il dialogo con l’opposizione che ha concluso in Messico la sua prima tornata, e che proseguirà il 3 settembre.
Il presidente ha mostrato il protocollo d’intesa firmato dal presidente del Parlamento Jorge Rodriguez (“rappresentante plenipotenziario” del governo bolivariano), da Gerardo Blyde, portavoce dell’opposizione, riunita nella Piattaforma Unitaria, e da Dag Nylander, che ha guidato la squadra di “facilitatori” norvegesi. Russia e Paesi Bassi hanno “accompagnato” gli incontri, ospitati dal presidente messicano Lopez Obrador.
Perché questo gran dispiegamento di forze e risorse messo in campo per paesi in guerra o per conflitti incancreniti da scontri di interessi geopolitici di difficile soluzione? Visto dall’esterno, considerando l’inconsistenza della controparte “guaidosista”, sembra surreale. E, infatti, non sono i politici di estrema destra i veri antagonisti del governo bolivariano. Se così fosse, tutto potrebbe risolversi nell’arena politica, essendo il Venezuela un paese che ha messo la propria democrazia “partecipata e protagonista” alla prova di 25 elezioni negli ultimi 21 anni. Il 21 novembre, si svolgerà la n. 26.
Dietro le figurine di cartone che, più grigie dal golpe del 2002, o accompagnate da qualche nuova comparsa, ripetono lo stesso copione, c’è l’imperialismo più potente del pianeta, sostenuto da una pletora di vassalli ben posizionati nello scacchiere globale. Un burattinaio che, ha spiegato Maduro ricapitolando le numerose tornate di dialogo da lui volute, è sempre entrato a gamba tesa, facendo saltare il banco all’ultimo minuto.
Esaminare la genesi dei precedenti negoziati – come questo organizzati con la portata di un teatro di guerra – serve a comprendere l’importanza del “laboratorio bolivariano”. Di fatto, si è trattato e si tratta di resistere a una guerra multiforme, condotta sia all’interno che all’esterno. Una guerra economico-finanziaria, diplomatica, mediatica, simbolica, che ha accompagnato le aggressioni militari e i tentativi golpisti con il lancio di bombe silenziose e micidiali (“le sanzioni”), per colpire – ha detto il presidente – l’intera cittadinanza, indipendentemente dal proprio colore politico, e nei suoi interessi generali.
Maduro ha ripetuto ai media quel che il Venezuela e Cuba denunciano presso le istituzioni internazionali: la natura feroce, immorale e indiscriminata delle misure coercitive unilaterali, imposte dall’imperialismo Usa ai popoli che non si inginocchiano al suo modello devastante. I burattini dell’imperialismo, ha detto il presidente, avrebbero voluto trasformare il Venezuela in un nuovo Afghanistan, in un nuovo Iraq, in una nuova Libia. Per questo, sono giunti a invocare l’R2P, la “Responsabilità di proteggere”, una norma del diritto internazionale umanitario che prevede l’intervento della “comunità internazionale” per fermare “crimini contro l’umanità”.
Di che natura sia stato e sia l’intervento “umanitario” nordamericano nei paesi del sud, si è visto nel corso del Novecento in Guatemala, Brasile, Panama, Cile…, e si continua a vedere nel secolo presente. “Non si può combattere la violenza con più violenza, il terrorismo con più terrorismo”, ha detto Maduro ricordando le parole di Chávez dopo il bombardamento in Afghanistan deciso da George W. Bush come rappresaglia per gli attentati dell’11 settembre. Affermazioni che hanno immediatamente messo il Comandante nel mirino dell’imperialismo nordamericano, che lo ha “invitato” a recedere per bocca dell’allora ambasciatrice Usa. Ma Chávez ha orgogliosamente rispedito al mittente quel tentativo di ingerenza, che avrà un seguito nel golpe del 2002.
Con l’orgoglio indipendentista di allora, che si riverbera nel Bicentenario celebrato nel paese bolivariano, Maduro ha rivendicato il progetto di pace con giustizia sociale rappresentato dal “socialismo del XXI secolo” e dal rinnovato impulso all’integrazione latinoamericana. Riprendendo ancora le parole di Chávez – “siamo una rivoluzione pacifica però armata” -, il presidente ha ribadito la disponibilità al dialogo anche con chi tira le fila dietro le quinte, ovvero il governo Usa. È anacronistico, ha detto, che in un contesto globale multicentrico e multipolare gli stati non riescano a mantenere un livello minimo di relazioni bilaterali.
Ha quindi invitato Biden a superare gli atteggiamenti “fascisti, suprematisti” della precedente amministrazione Trump, si è rivolto al popolo e ai giovani statunitensi che non vogliono aggressioni e guerre, e ha ribadito la propria disponibilità a riaccogliere in Venezuela l’incaricato d’affari degli Stati Uniti. Con la consueta ironia, il presidente ha poi rivelato i particolari di un precedente tentativo di dialogo, imbastito in Messico tra alcuni rappresentanti di alto livello dell’amministrazione Trump e il “plenipotenziario Jorge Rodriguez”.
Un lungo incontro – ha detto – occupato in gran parte dalle espressioni di biasimo espresse dagli statunitensi nei confronti dei “ladroni e corrotti” che animano la cerchia dell’autoproclamato Juan Guaidó. Con loro, anche in caso di un cambio di governo, gli Usa non avrebbero voluto più avere rapporti. Il contenuto di quei colloqui – ha aggiunto il presidente – è filtrato anche su alcuni quotidiani statunitensi.
Gli Usa sembravano quindi consapevoli che il cambio di marcia nel modello di ingerenza, formalizzatosi nella farsa dell’autoproclamazione, poggiava su piedi d’argilla. E per questo, nonostante il gigantesco impiego di risorse per far cadere il governo bolivariano, quel modello è fallito. Il protocollo d’intesa firmato in Messico, ha messo nero su bianco almeno tre punti importanti: il riconoscimento delle istituzioni venezuelane e del governo legittimo presieduto da Maduro, la fine di violenze e cospirazioni, e la fine delle “sanzioni”. Ancora pendente, la richiesta che alla trattativa partecipino tutte le componenti dell’opposizione, che per ora la Piattaforma non ha accettato. Sul punto cruciale delle “sanzioni”, la palla ora passa al burattinaio, nel fermo convincimento, comunque, che la via maestra è quella dell’indipendenza economica e che occorre cercare tutte le strade, anche a livello internazionale, per spezzare l’assedio, con l’aiuto di quei paesi, a cominciare da Cina e Russia, che si muovono per la costruzione di un mondo multicentrico e multipolare. Quello dell’indipendenza economica non è un cammino semplice per un paese del sud, che l’imperialismo ha mantenuto in condizione di subalternità tecnologica, e che non può cambiare neanche la ruota di un macchinario perché di marca Usa. Disinnescare con grande intelligenza, come ha fatto il governo bolivariano, la sovversione interna, sarà però già un gran passo avanti. Tantopiù che il dialogo non finisce in Messico, ma continuerà nel paese che si prepara alle mega-elezioni del 21 novembre. Fino al 29 agosto, si potranno presentare le candidature agli oltre 8.400 incarichi per i governatori, sindaci, legislatori regionali e comunali. Anche i partiti della destra più estremista lo stanno facendo, il presidente ha citato il caso di Carlos Ocariz. La straordinaria partecipazione della militanza chavista alle primarie aperte del Psuv e l’efficace lotta alla pandemia condotta dal governo bolivariano e dal “popolo cosciente” in questa settimana che registra la cifra più bassa di contagi (19 casi per 100.000 abitanti), sono incoraggianti segnali di ripresa che anticipano il recupero, anche economico, del paese.