Carlos Fazio – http://ciptagarelli.jimdo.com
L’America Latina e i Caraibi, cioè le principali nazioni componenti l’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America (ALBA), e in particolare il Venezuela, sono il teatro di operazioni di un sordo gioco geopolitico tra Stati Uniti e i suoi soci della NATO contro Cina e Russia, due potenze emergenti che stanno sviluppando legami economici e di cooperazione tecnico-militare con nazioni situate in quello che, tradizionalmente, gli USA considerano il loro “spazio vitale”.
Poche volte come oggi – dopo il recente ordine presidenziale di Barak Obama che ha indicato il Venezuela come “straordinaria minaccia alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti” – acquistano peso i concetti espressi da Nicholas J. Spikman nel 1942 quando, definendo il “Mediterraneo Americano” (che comprendeva il litorale del golfo del Messico e il Mar dei Caraibi, Messico, America Centrale, Colombia, Venezuela e la cintura di isole che si succedono da Trinidad alla punta della Florida, Cuba compresa), disse che questa regione doveva rimanere sotto “l’indiscussa e indisputata tutela” di Washington.
Nella sua opera Stati Uniti di fronte al mondo, scritta 3 anni prima che finisse la 2° Guerra Mondiale, nell’esporre la dottrina geopolitica dell’imperialismo così come la concepiva la classe dirigente statunitense, Spikman disse con eloquente crudezza: “Questo implica per Messico, Colombia e Venezuela una situazione di assoluta dipendenza rispetto agli Stati Uniti, di libertà meramente nominale…”.
Nel 1973 il boicottaggio delle forniture di idrocarburi dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di Petrolio (OPEC) verso gli Stati Uniti mise in luce la vulnerabilità del rappresentante egemone del capitalismo mondiale. Da allora, gli strateghi del complesso militare-industriale progettarono e misero in pratica una serie di progetti geopolitici – o di conquista dello spazio nella loro zona di influenza – a spese di nazioni deboli o che offrivano poca resistenza, che comprendevano la colonizzazione, l’annessione o la conquista.
Quattro decenni dopo, gli Stati Uniti hanno conformato l’America del Nord come spazio geopolitico sotto il dominio economico-finanziario delle corporations con casa-madre nel loro territorio e controllo militare del Comando Nord del Pentagono.
E nonostante nel 2005, a Mar del Plata, sia fallita l’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), la libertà di Messico e Colombia è oggi meramente nominale, come annunciava Spikman nel 1942, e i loro territori sono stati militarizzati dall’impero. Sfuggono a questo disegno Venezuela, Cuba e Nicaragua.
Oltre alla sua importanza geopolitica per la difesa del territorio continentale degli Stati Uniti di fronte ad un eventuale conflitto bellico con un’altra potenza, il Venezuela è il paese con la maggior quantità di riserve provate di idrocarburi. Allo stesso tempo, sotto la guida indiscussa di Hugo Chàvez, il Venezuela fu il promotore dell’ALBA e potenziò la UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane) e la CELAC (Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi), ostacolando i piani di una integrazione verticale promossi dalla Casa Bianca e dal governo-ombra delle grandi multinazionali statunitensi.
Washington e il golpismo continuato
Le considerazioni precedenti spiegano i successivi tentativi “coperti” di Washington per realizzare un “cambio di regime” in Venezuela: dal colpo di Stato civico-militar-oligarchico dell’aprile 2002 (il primo golpe mediatico del XXI secolo) e la Operazione Settembre Nero di fine di quell’anno e inizio del 2003 – il cosiddetto “golpe petrolifero” che seguì le indicazioni del Dossier Confidenziale n. 5, strategia sovversiva dei capitani d’industria, dei grandi latifondisti, degli allevatori e della cosiddetta nomenclatura di gestione del petrolio venezuelano (la PDVSA), con la copertura politica e ideologica delle principali corporation multimediali del Venezuela e delle Americhe – passando per diverse operazioni clandestine e per differenti modalità di guerra a spettro completo (“golpe morbido”, guerra di bassa intensità, guerra asimmetrica, di informazione o di IV generazione, guerra economica e terrorismo mediatico), fino al fallito golpe dell’11 e 12 febbraio 2015.
Al riguardo bisogna ricordare che – con l’occhio a una strategia su vari piani – la scalata politico-propagandistica era iniziata nel dicembre scorso, quando – mentre annunciava negoziati per un prossimo riallaccio delle relazioni diplomatiche con Cuba – il presidente Obama metteva in vigore la “Legge per la difesa dei diritti umani e della società civile in Venezuela”, una misura di ingerenza che viola il diritto internazionale approvata dal Congresso.
La nuova legge extraterritoriale, punto centrale nella tappa per un cambio di regime in Venezuela, è una replica perfezionata di quello che lo stesso Obama aveva detto, quando era senatore, che per più di 50 anni non aveva funzionato contro Cuba.
A partire dal gennaio di quest’anno aumentano i piani tendenti a generare un nuovo clima di inquietudine economica e di violenza caotica destabilizzatrice, elementi che si dovevano incontrare nel primo anniversario delle “guarimbas” del febbraio 2014. Obiettivo? Rovesciare Nicolàs Maduro, presidente costituzionale della Repubblica Bolivariana del Venezuela, di cui si era via via fabbricato un’immagine di governante autoritario e violatore dei diritti umani.
Unta l’opposizione venezuelana con fondi milionari presi dai contribuenti degli Stati Uniti attraverso le agenzie ufficiali di Washington come l’Agenzia per lo Sviluppo Internazionale (USAID) e fondazioni affini come la National Endowment for Democracy (NED) e Freedom House, data una base alla guerra economica basata sulla scarsità di prodotti di prima necessità – in particolare alimenti di base, medicinali e articoli sanitari – per provocare rabbia e malessere nella popolazione, l’estesa rete dei media corporativi privati dell’emisfero occidentale hanno fatto il loro lavoro come parte della guerra psicologica e del terrorismo mediatico. All’interno, la loro missione principale era generare un clima di paura e di orrore paralizzante attraverso strumenti abituali come l’accaparramento, la scarsità, il mercato nero, l’inflazione, l’usura, campagne di pettegolezzi e violenza di strada, e all’esterno con la costruzione di una correlazione di forze internazionali che avallasse tacitamente l’agire dei golpisti e, in caso, un eventuale intervento militare del Pentagono.
A rigore, si trattava di una seconda fase della fallita operazione sovversiva messa in pratica all’inizio del 2014 per scacciare Maduro. “L’uscita” – come allora l’ultradestra venezuelana chiamava il piano sedizioso per scacciare il presidente legittimo del Venezuela dal palazzo di Miraflores – finì con un saldo di 43 morti e portò in carcere uno dei leaders della banda, Leopoldo Lòpez, dirigente del Partito Volontà Popolare.
Da allora una dei suoi complici nell’avventura cospirativa, l’ex congressista violenta Marìa Corina Machado – firmataria del Decreto Carmona durante il colpo di Stato dell’aprile 2002 – aveva preso le redini del nuovo tentativo, con l’appoggio dell’ambasciatore degli USA in Colombia, Kevin Witaker. “Contiamo su un libretto egli assegni più pesante di quello del regime per spezzare gli anelli di sicurezza” ha detto Machado, che da anni coltiva i favori dei congressisti cubano-statunitensi di Miami come Marco Rubio, Ileana Ross Lethinen e Mario Dìaz Balart, e quelli del sindaco della città Doral del sud della Florida, Luigi Boria.
Il fattore Brownfield
Nel caso venezuelano, la genesi dell’intervento statunitense attuale si rifà al Comitato dei 40 (denominazione presa dalla Decisione-Memorandum n. 40 del Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti), riunito dal segretario di Stato Henry Kissinger nel giugno 1970 per progettare una strategia “di basso profilo” destinata a far abortire la “via pacifica al socialismo” di Salvador Allende in Cile.
Il piano del Pentagono e della Agenzia Centrale di Intelligence (CIA) dell’epoca di Richard Nixon comprendeva: 1) creazione del caos economico; 2) azioni paramilitari; 3) offensiva di propaganda; 4) finanziamenti a settori della destra e 5) infiltrazione e divisione all’interno della sinistra cilena.
Basandosi su questa strategia – applicata in seguito con varianti contro il Nicaragua sandinista, Granada e Panama – nell’agosto 2004 Washington aveva inviato a Caracas l’ambasciatore William Brownfield. Incaricato dell’Ufficio di Iniziative per la Transizione in Venezuela (OIT), la principale missione di Brownfield era elaborare un piano a lungo periodo per rovesciare Hugo Chàvez. In un cablo diplomatico del 9 novembre2006, diffuso dal portale di Wikileaks, il diplomatico ricordava ai suoi capi del Dipartimento di Stato le direttrici stabilite due anni prima nel denominato “Piano di cinque punti contro il Governo Bolivariano”: 1) Rafforzare le istituzioni democratiche; 2) Infiltrarsi nella base politica di Chàvez; 3) Dividere il chavismo; 4) Proteggere gli affari vitali degli Stati Unititi, e 5) Isolare Chàvez internazionalmente.
La OIT per il Venezuela fu chiusa nel 2010, ma le sue funzioni sono state trasferite all’ufficio per l’America Latina dell’USAID, vecchio schermo delle azioni di ingerenza e della guerra psicologica della CIA e del Pentagono.
Sulla base di questi precedenti, l’ambientazione o “riscaldamento” mediatico della nuova offensiva destabilizzatrice contro il Venezuela ha contato, a metà del gennaio scorso, con la presenza a Caracas degli ex presidenti della Colombia, del Cile e del Messico – Andrès Pastrana, Sebastiàn Pinera e Felipe Calderòn, rispettivamente – invitati ad un forum da Marìa Corina Machado e dal partito Volontà Popolare. Un altro degli obiettivi era visitare in prigione Leopoldo Lòpez, elevato da Washington a nuovo “combattente della libertà”, definizione coniata da Ronald Reagan per icontras nicaraguensi e il saudita Osama bin Laden negli anni ’80.
La trama destabilizzatrice si è completata, a fine gennaio, con la diserzione di Leamsy Salazar, capitano di corvetta della Forza Armata Nazionale Bolivariana. In qualità di “testimone protetto”, il disertore Salazar ha testimoniato davanti ad un tribunale di New York che il presidente dell’Assemblea Nazionale del Venezuela, Diosdato Cabello, è il capo di un presunto cartello dei Los Soles (narcotrafficanti che riceverebbero la droga dalel FARC, n.d.t.).
La primizia è stata ottenuta dal giornale spagnolo ABC, che si è basato su “fonti vicine all’inchiesta”, ed è stata convenientemente amplificata in Messico dai giornali Excèlsior e La Razòn che, curiosamente, non citano come fonte alcuna agenzia stampa internazionale, per cui si può presumere che nei tre casi si è trattato di disinformazione seminata con propositi sovversivo-propagandistici.
All’interno del piano cospirativo in corso, non è un dato di poco conto il fatto che William Brownfield – il “diplomatico” che nel 2004 elaborò il Piano dei cinque punti per rovesciare Chàvez e che è stato ambasciatore in Colombia dal 2007 al 2010 – abbia convalidato la “consistenza” del reportage di ABC, che coinvolge Cuba e le FARC nell’insolita trama. Non è di poco conto neanche che Brownfield sia attualmente segretario di Stato aggiunto degli USA per i narcotici e la Sicurezza Internazionale.
I fondi per la sovversione
Un altro elemento chiave del piano elaborato da Brownfield nel 2004 è il finanziamento di ONG, fondazioni, associazioni e partiti di opposizione venezuelani, nel quadro del programma “difendere e rafforzare pratiche democratiche, le istituzioni e i valori che promuovono i diritti umani e la partecipazione della società civile”. Il bilancio attuale degli Stati Uniti (da ottobre 2014 a ottobre 2015) comprende 5 milioni di dollari e lo stanziamento previsto per il prossimo anno fiscale aumenta la cifra di altri 500 mila dollari. Inoltre Washington ha stabilito una nuova modalità consistente nel registrare le ONG venezuelane come società negli Stati Uniti, il che semplifica la fornitura di fondi e il fatto che società statunitensi possano affidare loro determinati servizi.
Tra le organizzazioni che ricevono i fondi dei contribuenti degli USA figurano Nuova Coscienza Nazionale; Fondazione Futuro Presente; Humano e Libre, di Gustavo Tovar Arroyo, che organizzò nel 2010 la cosiddetta Fiesta Mexicana per addestrare nei metodi di destabilizzazione i dirigenti studenteschi dell’estrema destra venezuelana; Spazio Civile; Operazione Libertà; Donna e Cittadinanza; Finestra per la Libertà, Aggiungiti e Consorzio Sviluppo e Giustizia, entrambe legate alla golpista Marìa Corina Machado.
La USAID che, nel 2011, destinò più di 9 milioni di dollari dei 20 milioni stanziati quell’anno per la destabilizzazione dei paesi dell’ALBA, nel 2013 ha canalizzato 5 milioni e 786 mila dollari per programmi sovversivi in Venezuela, principalmente per l’addestramento di nuovi leaders giovanili che siano capaci di spiccare nel confronto con il governo. Il bilancio destinato al 2014 non è stato pubblicato, probabilmente in un tentativo di aggirare le difficoltà causate dalle rivelazioni e dalla messa in discussione di cui è stato oggetto dopo le rivelazioni dell’agenzia AP (Associated Press) sul lavoro dell’USAID contro Cuba.
Inoltre i programmi degli USA per la sovversione in Venezuela comprendono la National Endowment for Democracy (NED), che nel 2014 ha destinato più di 2 milioni e 300 mila dollari ad organizzazioni antibolivariane, e Freedom House, ampiamente denunciata per i suoi legami con la CIA, che mantiene la sua politica di consulenza e finanziamento dell’opposizione venezuelana, approfondendo le strategie di guerra psicologica e di campagne mediatiche come parte delle tecniche delle “rivoluzioni colorate” e del “golpe morbido” di Gene Sharp, Robert Helvey e Peter Ackerman.
Nel suo rapporto globale annuale sulla libertà di espressione, Freedom House cita il Venezuela come uno dei paesi dove non esiste né la libertà di stampa né quella di espressione e dove si violano i diritti umani; l’agenda di Obama, insomma.
Invece bisogna riconoscere che in questo paese esiste l’egemonia dei mezzi di comunicazione privati. Secondo Luis Britto Garcìa, nel 1988 l’impresa privata era proprietaria dell’80% delle stazioni televisive e del 97% della radiodiffusione FM, e non vi erano media comunitari. Questi media privati si caratterizzavano per un’alta concentrazione della proprietà, sia orizzontale che verticale. Attualmente in Venezuela operano 2.896 media; 2.332 sono dell’impresa privata. Il 65,18% continua ad essere privato e il 30,6% è comunitario; solo un 3,22% è di servizio pubblico. Il principale cambiamento consiste nella moltiplicazione dei media comunitari, i quali in maggioranza hanno poca portata e tendono a durare per un tempo limitato.
In radiodiffusione funzionano 1.598 emittenti private, 654 comunitarie e solo 80 di pubblico servizio. Sulla televisione a segnale aperto 55 canali sono privati, 25 sono comunitari e 8 di pubblico servizio. Quasi tutti i media privati sono oppositori, per cui pretendere che lo Stato stia esercitando una “egemonia comunicazionale” con gli scarsi mezzi di cui dispone, come segnala Freedom House, è una diceria che può essere interpretata solo come parte di un’operazione di guerra psicologica e di propaganda nera per esacerbare il panico, destabilizzare il paese, generare ingovernabilità e far scoppiare violenze destinate a rovescia con il terrore il governo bolivariano.
La debolezza di Obama e il rischio di intervento
In questo contesto, l’11 e il 12 febbraio il governo bolivariano ha annunciato di aver disarticolato un “attentato golpista” che contava sulla partecipazione di ufficiali in attivo e pensionati dell’aviazione militare e di altri elementi della Forza Armata Nazionale Bolivariana, il cui obiettivo era bombardare con un aereo Tucano il Palazzo di Miraflores e uccidere il presidente Nicolàs Maduro. Altri bersagli della cosiddetta Operazione Gerico erano il Ministero della Difesa e gli studi del canale televisivo Telesur, per seminare caos e confusione.
E’ prevedibile che, di fronte al nuovo fallimento golpista, e dato l‘interesse geopolitico nella strategia sovversiva di Washington verso il Venezuela, il presidente Obama e i suoi alleati dell’altra-destra regionale cercheranno di rarefare l’aria del prossimo Vertice delle Americhe, previsto per la seconda settimana di aprile a Panama.
Con la “dichiarazione di guerra” di Obama, è chiaro che agli Stati Uniti non interessa né la democrazia né i diritti umani in Venezuela; ciò che importa è il petrolio e la posizione geografica del paese sudamericano. L’interesse della Casa Bianca è riaffermare la sua politica di dominazione regionale, sfidata da Cina e Russia; restaurare il tradizionale controllo nella sua zona di influenza, a cui oggi resistono come mai prima i paesi raggruppati nella UNASUR, nella CELAC e nell’ALBA.
Attualmente, le parole di Obama che accusa il Venezuela di essere una “minaccia” alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, oltre che ridicole, sono una chiara espressione dell’evoluzione classica delle politiche di aggressione imperiale, che vanno dalla rottura dell’ordine costituzionale, ai golpe morbidi e alle rivoluzioni colorate, fino ad un eventuale intervento militare diretto del Pentagono.
Come ha denunciato l’ex vice presidente venezuelano Josè Vicente Rangel, Washington dispone di 1.600 paramilitari pronti alla frontiera della Colombia, di fronte agli stati Zulià e Tàchira, 800 in ogni zona limitrofa. Questo è – ora – il vero pericolo.
In questo contesto la guerra mediatica ed economica e l’imposizione di sanzioni degli Stati Uniti al governo venezuelano indeboliscono l’immagine di Obama riguardo al VII Vertice delle Americhe, organizzato dalla OEA (Organizzazione degli Stati Americani). Nicolàs Maduro arriverà all’appuntamento con l’appoggio e il sostegno internazionale, ed è chiaro che difendendo il Venezuela, i presidenti dei paesi dell’area stanno difendendo la sovranità e l’unità della Nostra America martiana e bolivariana.
(*) Analista indipendente, scrittore e professore di Scienze Politiche alla UNAM e all’Università Autonoma di Città del Messico (UACM).
da: rebelion.org; 27.3.2015
(traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)