Naturalizzare il blocco? (+ video)

Il blocco esiste. Il nostro dovere umano è denunciarlo, combatterlo in tutti i modi possibili: intraprendendo, innovando, cercando soluzioni; ma anche con cartelli nelle strade e pubblicazioni in Facebook, e con una comunicazione accattivante che lo smascheri per quello che è: il principale colpevole delle carenze di ogni famiglia e la più grande barriera per la prosperità economica di ognuno di noi

Pedro Jorge Velázquez  www.granma.cu

Questa settimana mi sono unito alla diretta di martedì di Buena Fe, interessato alla rilevanza del tema che vi si stava dibattendo. Alla conduzione, Israel Rojas.

Ho assistito a uno spazio mediante il quale, attraverso l’esercizio critico e lo scambio di conoscenze, si sono toccati i punti cardinali del presente e del futuro economico cubano a partire dal cambio di paradigma che si attua nel nostro modello.

Un criterio – trattato con una certa frequenza, ultimamente – permette di prevedere il potenziale pericolo di credere che il blocco debba essere inteso come qualcosa di irreversibile e, a partire da lì, cominciare a gestire l’economia cubana, o supporre che sia una variabile data e che il migliore modo per combattere il blocco è non parlare più del blocco.

La naturalizzazione di una politica che viola i diritti umani che, inoltre è extraterritoriale, e che colpisce dall’impresa statale sino alla più semplice delle iniziative private, compreso lo sviluppo della Sanità e dell’Istruzione, si associa esattamente con gli obiettivi fondamentali che persegue tale politica dalla sua attuazione. Accettare tale naturalizzazione sarebbe come rinunciare allo scopo.

L’estrema destra mondiale ritiene che l’embargo debba assicurarsi, nonostante il costo umano che rappresenta, nella misura in cui sottomette il modello socialista cubano e ne impedisce il suo sviluppo.

E’coordinato con questo obiettivo, tracciato dagli strateghi del potere mondiale, lo scenario di naturalizzazione che si propone. Che domani non ci sia più nessuno protestando per le migliaia di conseguenze che questa politica comporta per la vita di milioni di cubani, sarebbe una sconfitta totale per il nostro diritto ad essere sovrani, senza barriere geopolitiche imposte.

Tacere degli impatti del blocco significherebbe agire come la persona che tace quando riceve violenza domestica. Sa che la violenza c’è, cerca un modo per invertirla, ma quando il tempo passa e non si inverte, continua a tacere. Dovremmo lasciarci violentare impetuosamente?

Decidere se scriverne o meno non rimuoverà i terribili danni del blocco. Il blocco c’è, sottomette e colpisce.

Dedicarci a risolvere solo i problemi interni – non il blocco, perché è una realtà che non si può cambiare – sarebbe come smettere di protestare per una puntina che abbiamo infilzata nel piede, o una scarpa sulla faccia ma, invece, trovare un modo di camminare con la punta infilzata, magari saltellando per non pungerci: condizione che non ci meritiamo.

Se i tanti che hanno lottato contro il blocco, che sono morti denunciandolo per tutta la vita, avessero pensato di assumerlo con naturalezza; se così lo accettassero tutti i progetti che dall’Europa, dall’America Latina e dagli USA denunciano il blocco; se Fidel fosse partito con tale disperazione; se questa fosse la prospettiva del professor Carlos Lazo e di tutti coloro che lottano da Puentes de Amor; se il popolo cubano accettasse quella quiete riguardo al blocco e smettesse di segnalarlo e denunciarlo in tutti gli scenari… che ne sarebbe di noi?

Lasceremmo così che, da qui ad un paio d’anni, il blocco non sia più una parolaccia che, chi la pronunci, sarà visto come strano, anacronistico, come se la sua presenza non fosse sempre più impattante. Sì, forse la lotta sia idilliaca e utopica, ma smetteremmo di lottare per un’utopia? È da rivoluzionari ciò? Comprendo perfettamente la parte che il blocco viene utilizzato come entelechia per giustificare problemi che potrebbero essere risolti con due mosse, ma ce ne sono moltissime altre in cui né con due né con quattro, e se ne sono dovute fare più di 60.

Mi sembra anche uno stigma credere che dal Governo tutto si giustifichi col blocco. C’è un truismo – molto rivoluzionaria, tra l’altro – la cui ripetizione non è un problema: c’è molto da fare, nonostante il blocco. Ma questa è sempre stata la strada della Rivoluzione. Nessun’altra.

Il socialismo cubano e le sue aspirazioni non sono stati mai fermati dal blocco, e nemmeno noi ci siamo fermati ora. La Rivoluzione è sempre esistita, ed ha resistito, si è evoluta e ha ottenuto la società più giusta dell’America Latina, nonostante il blocco.

Che debbano smettere di giustificarsi errori con il blocco, è vero; che c’è da strappare la parola dalla bocca quando un funzionario la usa come giustificazione della sua mancanza di innovazione, è vero (soprattutto mostrandogli perché si può ottenere, anche in queste condizioni economiche di blocco); ma sono indescrivibili – e questo è noto in tutto il mondo – i meandri che deve prendere la direzione economica del paese per aggirare il blocco e “andare avanti”, senza la necessità di applicare pacchetti neoliberali e promuovere la disuguaglianza.

Presidenti ed economisti del mondo si chiedono: come lo otteniamo? E ancora più: come ottenerlo mantenendo grandi servizi pubblici, alti standard di sviluppo umano, sussidi, e senza avere bambini che muoiono di fame per strada o che lavorano, o grandi masse di vulnerabilità come quelle che ci sono nella regione?

Bene, c’è una risposta: non viene dal nulla. Costa a molti riconoscerlo, ma c’è un lavoro enorme da parte del Governo in questo senso, nonostante gli errori che si commettono, errori che abbiamo e dobbiamo continuare a identificare, perché non è solo responsabilità della direzione del paese, bensì a tutti. È una sola economia che dobbiamo sviluppare.

È uno stigma pensare che quando menzioniamo il blocco e lo denunciamo è perché vogliamo tappare le nostre perdite o perché non vogliamo risolvere tutto ciò che possa essere risolto. Trovo tanto pericolosa l’idea del blocco come giudice e parte delle inefficienze, come l’idea che lo accettiamo e lo vediamo come qualcosa di normale, quando non lo è.

Il blocco esiste. Il nostro dovere umano è denunciarlo, combatterlo in tutti i modi possibili: intraprendendo, innovando, cercando soluzioni; ma anche con cartelli per le strade e pubblicazioni su Facebook, e con una comunicazione accattivante che lo smaschera per quello che è: il principale colpevole delle carenze di ogni famiglia e la più grande barriera per la prosperità economica di ognuno di noi.


¿Naturalizar el bloqueo? (+ Video)

El bloqueo existe. Nuestro deber humano es denunciarlo, luchar contra él de todas las formas posibles: emprendiendo, innovando, buscando soluciones; pero también con carteles en la calle y publicaciones en Facebook, y con una comunicación atractiva que lo exponga como lo que es: el culpable principal de las carencias de cada familia y la barrera más grande para la prosperidad económica de cada uno de nosotros

Autor: Pedro Jorge Velázquez

Me uní esta semana al live de martes de Buena Fe, interesado por la relevancia del tema que allí se debatía. En la conducción, Israel Rojas.

Presencié un espacio mediante el cual, a través del ejercicio crítico y el intercambio de conocimientos, se tocaron los puntos cardinales del presente y el futuro económico cubano a partir del cambio de paradigma que se ejecuta en nuestro modelo.

Un criterio –manejado con cierta frecuencia, últimamente– permite avizorar el peligro potencial de creer que  el bloqueo debe entenderse como algo irreversible y, a partir de ahí, comenzar a gestionar la economía cubana, o asumir que es una variable dada y que la mejor manera de combatir el bloqueo es no hablando más del bloqueo.

La naturalización de una política que viola derechos humanos, que, además, es extraterritorial, y que afecta desde la empresa estatal hasta la más sencilla de las iniciativas privadas, incluyendo el desarrollo de la Salud y la Educación, se asocia exactamente con los objetivos fundamentales que persigue dicha política desde su implementación. Aceptar tal naturalización sería como regalar el propósito.

La ultraderecha mundial cree que el embargo debe garantizarse, a pesar del costo humano que representa, en la medida que someta al modelo socialista cubano y le impida su desarrollo.

Es coordinante con esta meta, trazada desde los estratos del poder mundial, el escenario de naturalización que se propone. Que el día de mañana no haya más nadie reclamando por los miles de consecuencias que significa esta política para la vida de millones de cubanos, sería una derrota total para nuestro derecho a ser soberanos, sin barreras geopolíticas impuestas.

Callar los impactos del bloqueo sería actuar como la persona que calla cuando recibe violencia doméstica. Sabe que la violencia está ahí, busca la forma de revertirla, pero cuando pasa el tiempo y no se revierte, sigue callando. ¿Debemos dejarnos violentar impetuosamente?

Decidir si se escribe sobre eso o no, no va a eliminar los terribles daños del bloqueo sobre nosotros mismos. El bloqueo está ahí, sometiendo y golpeando.

Dedicarnos a resolver solo los problemas internos –no el bloqueo, porque es una realidad que no se puede cambiar– sería como dejar de reclamar por una puntilla que tenemos clavada en el pie, o un zapato encima de la cara, para, en cambio, buscar la forma de caminar con la puntilla clavada, quizá dando salticos para no pincharnos: una condición que no merecemos.

Si los tantos que han luchado contra el bloqueo, que han muerto denunciándolo toda su vida, hubiesen pensado en asumirlo con naturalidad; si así lo aceptaran todos los proyectos que desde Europa, América Latina y Estados Unidos denuncian el bloqueo; si Fidel hubiese partido con esa desesperanza; si esa fuera la perspectiva del profesor Carlos Lazo y de todos los que luchan desde Puentes de Amor; si el pueblo cubano aceptara esa quietud con respecto al bloqueo y dejara de señalarlo y denunciarlo en todos los escenarios… ¿qué sería de nosotros?

Dejaríamos así que, de aquí a un par de años, bloqueo sea no más una mala palabra que, quien la mencione, será visto como raro, anacrónico, como si su presencia no fuera cada vez más impactante. Sí, quizá la lucha sea idílica y utópica, pero, ¿dejaríamos de luchar por una utopía? ¿Es de revolucionarios eso? Comprendo perfectamente la parte de que el bloqueo se usa como una entelequia para justificar problemas que pudieran resolverse con dos movidas, pero hay muchísimas otras en las que ni con dos ni con cuatro, y ha habido que hacer más de 60.

También me parece un estigma eso de creer que desde el Gobierno todo se justifica con el bloqueo. Hay una obviedad –muy revolucionaria, por cierto–, cuya repetición no es un problema: hay mucho que hacer, a pesar del bloqueo. Pero ese siempre ha sido el camino de la Revolución. No otro.

El socialismo cubano y sus aspiraciones nunca se detuvieron por el bloqueo, y tampoco nos hemos detenido ahora. La Revolución siempre ha existido, y ha resistido, y ha evolucionado, y ha logrado la sociedad más justa de América Latina, a pesar del bloqueo.

Que deben dejar de justificarse errores con el bloqueo, es verdad; que hay que arrancarle la palabra de la boca cuando un funcionario la usa como justificación de su falta de innovación, es verdad (sobre todo, demostrándole por qué sí puede lograrse, incluso en estas condiciones económicas de bloqueo); pero son indescriptibles –y eso se sabe en el mundo entero– los miles de vericuetos que tiene que tomar la dirección económica del país para sortear el bloqueo y «echar pa’lante», sin necesidad de aplicar paquetes neoliberales y promover la desigualdad.

Presidentes y economistas del mundo se preguntan: ¿cómo lo logramos? Y más aún: ¿cómo lo logramos manteniendo grandes servicios públicos, altos estándares de desarrollo humano, subsidios, y sin tener niños muriendo de hambre en las calles o trabajando, o grandes masas de vulnerabilidad como las que hay en la región?

Pues hay una respuesta: no es de la nada. Cuesta a muchos reconocerlo, pero hay un trabajo tremendo del Gobierno en ese sentido, a pesar de los errores que se cometen, errores que hemos y debemos seguir identificando, porque no le compete solo a la dirección del país, sino a todos. Es una sola economía la que debemos desarrollar.

Es un estigma pensar que cuando mencionamos el bloqueo y lo denunciamos es porque queremos tapar nuestras goteras o porque no queremos resolver todo lo que pueda resolverse. Me parece tan peligrosa la idea del bloqueo como juez y parte de las ineficiencias, como la idea de que lo aceptemos y lo veamos como algo normal, cuando no lo es.

El bloqueo existe. Nuestro deber humano es denunciarlo, luchar contra él de todas las formas posibles: emprendiendo, innovando, buscando soluciones; pero también con carteles en la calle y publicaciones en Facebook, y con una comunicación atractiva que lo exponga como lo que es: el culpable principal de las carencias de cada familia y la barrera más grande para la prosperidad económica de cada uno de nosotros.

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