Questo 20 ottobre

Abel Prieto Jiménez  www.cubadebate.cu

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Celebriamo quest’anno la Giornata Nazionale della Cultura nel mezzo di circostanze eccezionali. Le restrizioni imposte dalla pandemia hanno costretto i creatori e le istituzioni a spostare eventi, presentazioni e dibattiti nell’ambito virtuale. La televisione ha sostenuto questo grande sforzo e può dirsi che il prevedibile “blackout” culturale non si è verificato. Tuttavia, il pubblico abituato a frequentare i circuiti artistici ha sofferto un drastico cambio nelle proprie abitudini culturali e una riduzione delle proprie opzioni di arricchimento spirituale.

Alla pandemia e alle sue conseguenze di ogni genere si sono aggiunti gli effetti della recrudescenza del blocco, diventato più soffocante che mai. Affrontiamo limitazioni che hanno ostacolato la partecipazione della popolazione nei processi culturali e alla proiezione sociale di scrittori, artisti, istruttori d’arte e promotori, e delle loro organizzazioni e istituzioni, dall’UNEAC, dall’AHS, dalla Brigata José Martí e dagli Istituti e Consigli del Ministero della Cultura sino alla rete di biblioteche, musei, case della cultura e altri enti provinciali e comunali.

Se diamo uno sguardo alla nostra regione, avvertiremo che l’impatto dell’epidemia di Covid-19 sul movimento artistico è stato devastante. Un messaggio circolato nel luglio 2020 dalla rivista Conjunto de la Casa de las Américas ha denunciato la situazione disperata del teatro latinoamericano: “Mentre gruppi e artisti generano iniziative virtuali per sostenere l’attività creativa e la comunicazione con il pubblico e con i loro colleghi ovunque (…) come impulso vitale per impedire che il teatro muoia, molti governi neoliberali, privi di politiche culturali umanistiche e indifferenti alla necessità di preservazione e affermazione dell’identità dei loro popoli, voltano le spalle alla cultura e ai suoi artisti».

Tuttavia, a differenza di quanto accaduto lì dove regna il neoliberalismo, la cultura tra noi non è rimasta orfana. A Cuba demonizzata dalla macchina della menzogna dei media e delle reti sociali, la direzione del paese ha continuato a sostenere creatori e istituzioni. Ha protetto in particolare musicisti e artisti scenici non sovvenzionati, i cui proventi provenivano dalle loro esibizioni in spazi pubblici. Come ha detto Díaz-Canel, “Con il corpo ferito da malattie e carenze, Cuba non ha dimenticato i suoi artisti”.

Intanto, in una classica manovra opportunista, il governo USA ed il nucleo fascista di Miami hanno deciso di approfittare dell’occasione per rinverdire, con particolare odio, la sua vecchia aspirazione di dividere i settori intellettuali cubani, allontanare i creatori dall’istituzionalità rivoluzionaria e preannunciare il debutto della sua quinta colonna di “dissidenti” tanto lungamente sognata.

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Arriviamo, nel 2021, alla Giornata Nazionale della Cultura dopo aver commemorato il 60° anniversario di “Parole agli intellettuali” e della fondazione dell’Unione degli Scrittori e Artisti di Cuba e il 35° anniversario dell’Associazione Hermanos Saíz.

Queste commemorazioni non sono stati vuoti rituali. Sono serviti a motivare un’analisi rigorosa e critica intorno al protagonismo che devono assumere gli scrittori e artisti nella progettazione e nella conduzione dei programmi culturali.

Nel suo discorso del 28 giugno su “Parole agli intellettuali”, Díaz-Canel è ritornato sui punti vitali che Fidel aveva toccato sei decenni addietro. Ha sottolineato che l’unica strada percorribile in termini di politica culturale è il dialogo. Non il falso “dialogo”, come show, che reclamano, nelle reti e nei media al loro servizio, i rumorosi annessionisti; bensì il “vero”, il “reale e onesto”.

Lo stesso clima creato da Fidel per quegli incontri, nel giugno 1961, grazie alla sua umiltà e alla sua capacità di ascoltare, significa per Díaz-Canel un esempio del modello di comunicazione che deve stabilirsi tra l’avanguardia politica e l’avanguardia intellettuale: “Quella parte del suo discorso è una lezione di etica e di solidità culturale, di rispetto dell’altro; è una prova di come funziona il vero dialogo, con l’orecchio attento alle voci insoddisfatte o dissonanti e la parola disposta a rispondere, ma non per vincere, bensì per apprendere, accettare, convincere: senza prepotenza e senza sterili superbie. Non impone, ragiona.”

Díaz-Canel, a sua volta, ha rivelato le sue esperienze quotidiane in questo tipo di scambio come esercizio sistematico e fruttuoso “nello sforzo di costruire consenso e articolare azioni”. Ha insistito sul fatto che avrebbe continuato a condividere molte idee con l’intellighenzia “nel dialogo vivo, che non è cessato né cesserà”.

Allo stesso tempo, ha menzionato le decisioni prese dalla dirigenza del paese per preservare la cultura, tra le enormi difficoltà e carenze del presente: “Non si è aspettata la domanda degli artisti [ha detto]. Si è pensato a tutti e ai loro bisogni fondamentali in un contesto afflitto da incertezze e cattive notizie economiche globali che mantengono in sospeso i magri ingressi di una nazione povera e bloccata. (…) // Ciò non ha altro nome che Continuità. Quel dialogo del 1961 è vivo, benché in più di un momento in questi anni lo abbiamo trascurato, rimandato, frainteso e forse persino maltrattato”.

Ha anche chiarito ogni timore che potessero tornare le posizioni dogmatiche e settarie che hanno distorto, in un dato momento, la nostra politica culturale.

Dobbiamo imparare dal passato, ha detto, «affinché le esperienze negative non si ripetano e neppure perpetuino nella memoria con effetto paralizzante; affinché quelle positive siano sistematizzate; affinché i timori infondati non diventino credibili; affinché gli opportunisti ed i mediocri non abbiano mai potere sulla creazione; affinché i mercenari non screditino il nostro ventaglio culturale; affinché la critica sia fatta dal punto di vista artistico e professionale e non da valutazioni esterne, che di solito sono sterili e producono reazioni contrarie; affinché la Rivoluzione che è stata fatta per la giustizia e la libertà non dia luogo a confusioni che le neghino”.

Ha inoltre sottolineato gli aspetti definitori riguardanti la libertà di creazione e la portata del “dentro la Rivoluzione” formulata da Fidel e rivisitata in epoca contemporanea: “…l’opera d’arte ha non solo il diritto bensì la missione di essere provocatoria, rischiosa, sfidante, interrogativa, anche edificante ed emancipatrice. Sottoporla alla censura soggettiva e vile è un atto contro la cultura. La libertà di espressione nella Rivoluzione continua ad avere come limite il diritto della Rivoluzione ad esistere”.

“All’interno della Rivoluzione”, ha ratificato, “continua ad esistere spazio per tutto e tutti, tranne per coloro che pretendono distruggere il progetto collettivo”. Martí “escludeva gli annessionisti della Cuba con tutti e per il bene di tutti” e Fidel ha fatto lo stesso nel 1961 con “gli incorreggibilmente controrivoluzionari”. Allo stesso modo, «nella Cuba del 2021 non c’è posto per gli annessionisti di sempre né per i mercenari del momento».

Díaz-Canel ha smantellato il gioco sporco del nemico, le sue intenzioni, i suoi modi di agire e di mentire, e ha avanzato i piani che hanno escogitato per destabilizzarci: “Non siamo ingenui. È fin troppo chiaro che i nostri avversari stanno cercando, con tutti i mezzi, di provocare un’esplosione sociale e hanno scelto di indurre provocazioni in un momento particolarmente difficile per il paese a causa dei danni accumulati dovuti al rafforzamento criminale del blocco e dell’usura generato dal lungo ed intenso periodo di pandemia, associato a focolai ed epidemie di COVID-19. (…) // Preservare, sotto il peggiore degli attacchi, l’indipendenza e la sovranità nazionale continuerà ad essere la prima priorità per coloro che si sentono rivoluzionari e patrioti, benché queste parole, in certi ambienti, sono considerate obsolete. // Obsoleta è la dipendenza, obsoleta è l’umiliazione ai potenti. Di tutte le libertà, la più preziosa è quella che libera tutti noi che condividiamo un sentimento, quella che ci infiamma di orgoglio davanti al trionfo di un compatriota, alla bandiera che si innalza e all’inno che si intona”.

Non è possibile parlare oggi del 20 ottobre senza soffermarsi su questo testo profondo e convincente di Díaz-Canel.

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Per Fidel la cultura era la chiave della libertà degli esseri umani, della sua capacità di non essere ingannati, e il miglior antidoto per evitare le seducenti trappole del consumismo. Potrebbe essere una componente primordiale della qualità della vita, del livello di vita, in una concezione della felicità molto diversa da quella promossa dalla pubblicità capitalista, legata all’accumulazione irrazionale di cose materiali -con il conseguente saccheggio delle risorse naturali e l’accelerato deterioramento dell’ambiente.

Ma per Fidel la cultura rappresenta qualcosa di più. L’ha chiamata più volte “scudo e spada della nazione”: lo scudo, quel nucleo identitario di cui facciamo tesoro, ci protegge dalle influenze disgregatrici, come direbbero Cintio e Lezama; la spada, dal canto suo, è capace di giungere molto lontano e porta la verità del nostro paese (e la difende) nei luoghi più remoti.

Nel 1993, nei giorni più amari del Periodo Speciale, Fidel ha detto all’UNEAC quella frase che è stata spesso ricordata: “La cultura è la prima cosa da salvare”. Si riferiva all’arte e alla letteratura, sì, ma anche al legame cognitivo e affettivo tra cultura e nazione e all’insieme dei saperi imprescindibili affinché l’essere umano possa difendere la sua libertà, la sua memoria, le proprie origini, e disfare la vasta rete di manipolazioni che le chiudono la strada giorno dopo giorno.

Circa cinque anni dopo, al VI Congresso dell’organizzazione, Fidel ha parlato della globalizzazione culturale. Ha detto che era “il più importante di tutti i temi, la più grande minaccia alla cultura, non solo alla nostra, bensì a quella del mondo”. Abbiamo dovuto difendere le nostre tradizioni, il nostro patrimonio, la nostra creazione, contro il “più potente strumento di dominio dell’imperialismo”. E ha concluso: “qui tutto è in gioco: identità nazionale, paese, giustizia sociale, Rivoluzione, tutto è in gioco”.

Alla luce di questo duro monito,  comprendiamo meglio l’ampiezza della frase sulla “prima cosa che dobbiamo salvare” e l’impulso personale che Fidel ha dato alla formazione di massa degli istruttori d’arte, per introdurre l’apprezzamento artistico nel programma tv “Università per tutti”, per costituire laboratori di danza per bambini dei quartieri poveri, per la moltiplicazione di case editoriali in tutto il paese e per tante altre iniziative di diffusione, la più ampia possibile, della cultura.

Díaz-Canel sta riflettendo su queste idee di Fidel quando, nel suddetto discorso, afferma che il nostro nemico “non è mai riuscito a perforare il muro invalicabile della solida cultura e dell’identità nazionale”. Per questo, che s’impegna nell’inserire i propri messaggi da spazzatura pseudo-culturale, carichi di volgarità, «in quegli spazi che lasciamo vuoti, confidando che la massificazione dell’educazione e della cultura andavano a risolvere spontaneamente un accumulo storico di disuguaglianze di secoli che non si curano neppure in sei decenni di Rivoluzione”.

E riconosce, con franchezza e trasparenza, che “siamo responsabili anche dei nostri tassi di emarginazione”. Quindi non possiamo abbandonare, in alcun momento, “la denuncia aperta da Fidel contro l’incultura” dal 1961 e “continuare a scommettere sul decoro e sulla ricchezza che apporta all’essere umano la cultura artistica, senza stancarsi”.

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Da qualche giorno la “spada” precisa e influente che Fidel aveva visto nella cultura nazionale è in Messico, al Festival Internazionale Cervantino, dove Cuba è il paese ospite d’onore. Il nostro Ministro, il poeta Alpidio Alonso, presiede una nutrita delegazione. Intervistato dal quotidiano La Jornada, ha risposto alle inevitabili domande sulle campagne anticubane che hanno voluto coinvolgere il settore culturale.

“Non c’è nessun tipo di scontro tra le nuove generazioni e gli artisti dell’isola con il loro governo”, assicura Alpidio. E aggiunge: “il ruolo della cultura è centrale per il progetto della rivoluzione e del socialismo cubano che è nato più di 60 anni fa”.

“Non ha precedenti [aggiunge]: il modo in cui si è utilizzato, in forma perversa, la tecnologia in funzione di falsare le cose e costruire una narrativa che adultera tutto. (…) La migliore smentita alle campagne di odio e disinformazione è l’opera stessa degli artisti cubani, con tutta la sua complessità e diversità, poiché l’arte che si caldeggia dalle istituzioni culturali create dalla rivoluzione è critica, non è un’arte moralista né contemplativa… “

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Il 22 agosto 1980, il Consiglio dei Ministri ha approvato che il 20 ottobre sia ufficialmente considerato Giornata Nazionale della Cultura. Hart parlava con molto orgoglio del significato che si unissero, in quella data, la potente eredità della creazione artistica e letteraria del nostro paese e la tradizione patriottica e rivoluzionaria che si estende dal 1868 sino al trionfo del gennaio del 59.

L’itinerario che ci porta da Céspedes e Perucho Figueredo sino ai giovani che oggi studiano nelle scuole d’arte sfocia a Martí e Fidel e passa per Rubén, Lam, Alejo, Lezama, Virgilio, Guillén, Cintio, Fina, Alicia, Mariano, Fayad, Retamar, Haydee, Graziella, Barnet, Nancy, Alfredo, Eusebio, Torres Cuevas, Formell, Silvio, Choco e molti altri. Ha a che vedere con l’identità cubana, con le sue essenze, con il suo irripetibile profilo, ed ha a che vedere, allo stesso modo, con gli ideali di emancipazione e giustizia sociale che hanno ispirato i nostri creatori.

Cintio ci ha ricordato nell’anno buio del 1993 che il destino della Rivoluzione non può essere separato dal destino della Patria: “Ciò che è in pericolo, lo sappiamo, è la nazione stessa. La nazione è già inseparabile dalla Rivoluzione che, dal 10 ottobre 1868, l’ha costituita, e non ha altra alternativa: o è indipendente o smette di essere in assoluto».

Nazione e Rivoluzione, patria e Rivoluzione, non possono concepirsi separate. Né è possibile immaginare l’autentica cultura cubana, la nostra cultura, vigorosa e genuina, vendersi all’Impero, alleandosi all’annessionismo. Se è realmente cubana, se nasce dalle nostre radici, se è stato concepito da uomini e donne (ovunque vivano) portatori di quella cubania definita da Fernando Ortiz, sarà indissolubilmente legata al binomio nazione e Rivoluzione, di patria e Rivoluzione.


Este 20 de octubre

Por: Abel Prieto Jiménez

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Celebramos este año el Día de la Cultura Nacional en medio de circunstancias excepcionales. Las restricciones impuestas por la pandemia obligaron a los creadores y a las instituciones a trasladar eventos, presentaciones y debates al ámbito virtual. La televisión apoyó ese gran esfuerzo, y puede decirse que no ocurrió el previsible “apagón” cultural. No obstante, el público acostumbrado a frecuentar los circuitos artísticos sufrió un cambio drástico en sus hábitos culturales  y una reducción de sus opciones de enriquecimiento espiritual.

A la pandemia y sus secuelas de toda índole se sumaron los efectos del recrudecimiento del bloqueo, que se hizo más asfixiante que nunca. Enfrentamos limitaciones que obstaculizaron la participación de la población en los procesos culturales y la proyección social de escritores, artistas, instructores de arte y promotores, y de sus organizaciones e instituciones, desde la UNEAC, la AHS, la Brigada José Martí y los Institutos y Consejos del Ministerio de Cultura hasta la red de bibliotecas, museos, casas de cultura y demás entidades provinciales y municipales.

Si echamos un vistazo a nuestra región, advertiremos que el impacto de la epidemia de la covid-19 sobre el movimiento artístico ha sido devastador. Un mensaje circulado en julio de 2020 por la revista Conjunto de la Casa de las Américas denunció la situación desesperada del teatro latinoamericano: “Mientras grupos y artistas generan iniciativas virtuales para sostener la actividad creadora y la comunicación con el público y con sus colegas de todas partes (…) como impulso vital para impedir que el teatro muera, muchos gobiernos neoliberales, carentes de políticas culturales humanistas e indiferentes a la necesidad de preservación y afirmación de la identidad de sus pueblos, dan la espalda a la cultura y a sus artistas.”

Sin embargo, a diferencia de lo ocurrido allí donde reina el neoliberalismo, la cultura entre nosotros no ha quedado huérfana. En la Cuba satanizada por la maquinaria de mentiras de los medios y las redes sociales, la dirección del país ha seguido respaldando a creadores e instituciones. Protegió en particular a músicos y artistas escénicos no subvencionados, cuyos ingresos provenían de sus actuaciones en espacios públicos. Como dijo Díaz-Canel, “Con el cuerpo herido de dolencias y escaseces, Cuba no olvidó a sus artistas”.

Entretanto, en una clásica maniobra oportunista, el gobierno de los Estados Unidos y el núcleo fascista de Miami decidieron aprovechar la ocasión para reverdecer, con saña particular, su vieja aspiración de dividir a los sectores intelectuales cubanos, distanciar a los creadores de la institucionalidad revolucionaria y pregonar el debut de su quinta columna de “disidentes” tan largamente soñada.

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Llegamos en 2021 al Día de la Cultura Nacional después de conmemorar el aniversario 60 de “Palabras a los intelectuales” y de la fundación de la Unión de Escritores y Artistas de Cuba, y el 35 de la Asociación Hermanos Saíz.

Estas conmemoraciones no fueron rituales vacíos. Sirvieron para motivar un análisis riguroso y crítico en torno al protagonismo que deben asumir los escritores y artistas en el diseño y la conducción de los programas culturales.

En su discurso del 28 de junio a propósito de “Palabras a los intelectuales”, Díaz-Canel volvió sobre puntos vitales que Fidel había tocado seis décadas atrás. Resaltó que el único camino viable en términos de política cultural es el diálogo. No el “diálogo” falso, como show, que reclaman para las redes y los medios a su servicio los ruidosos anexionistas; sino el “verdadero”, el “real y honesto”.

El propio clima creado por Fidel para aquellos encuentros de junio de 1961, gracias a su humildad y a su capacidad de escuchar, significa, para Díaz-Canel, un ejemplo del modelo de comunicación que debe establecerse entre la vanguardia política y la vanguardia intelectual: “Esa parte de su discurso es una lección de ética y de solidez cultural, de respeto al otro; es una prueba de cómo funciona el diálogo verdadero, con el oído atento a las voces inconformes o disonantes y la palabra dispuesta a responder, pero no para vencer, sino para aprender, aceptar, convencer: sin prepotencia y sin soberbias estériles. No impone, razona.”

Díaz-Canel, a su vez, reveló sus experiencias cotidianas en ese tipo de intercambios como ejercicio sistemático y fecundante “en el empeño de construir consensos y articular acciones”. Insistió en que continuaría compartiendo muchas ideas con la intelectualidad “en el diálogo vivo, que no ha cesado ni cesará”.

Mencionó al propio tiempo las decisiones tomadas por la dirección del país para preservar la cultura, en medio de las enormes dificultades y carencias del presente: “No se esperó la demanda de los artistas [dijo]. Se pensó en todos y en sus necesidades fundamentales en un contexto plagado de incertidumbres y malas noticias económicas globales que mantienen en suspenso los magros ingresos de una nación pobre y bloqueada. (…) // Eso no tiene otro nombre que Continuidad. Aquel diálogo de 1961 está vivo, aunque en más de un momento en estos años lo hayamos descuidado, pospuesto, malentendido y puede que hasta maltratado”.

Despejó asimismo cualquier temor de que pudieran regresar las posiciones dogmáticas y sectarias que distorsionaron en una época nuestra política cultural.

Hay que aprender del pasado, dijo, “para que las experiencias negativas no se repitan y tampoco se eternicen en la memoria con efecto paralizador; para que las positivas se sistematicen; para que los miedos infundados no se tornen creíbles; para que los oportunistas y mediocres no tengan jamás poder sobre la creación; para que los mercenarios no desprestigien nuestro abanico cultural; para que la crítica se haga desde lo artístico y lo profesional y no desde las apreciaciones externas, que suelen ser estériles y producir reacciones contrarias; para que la Revolución que se hizo por la justicia y la  libertad no dé pie a confusiones que las nieguen”.

Subrayó además aspectos definitorios con respecto a la libertad de creación y al alcance del “dentro de la Revolución” formulado por Fidel y revisitado en la contemporaneidad: “…la obra de arte tiene no solo el derecho sino la misión de ser provocadora, arriesgada, desafiante, cuestionadora, también enaltecedora y emancipadora. Someterla a la censura subjetiva y cobarde es un acto de lesa cultura. La libertad de expresión en la Revolución sigue teniendo como límite el derecho de la Revolución a existir”.

“Dentro de la Revolución”, ratificó, “sigue existiendo espacio para todo y para todos, excepto para quienes pretenden destruir el proyecto colectivo”. Martí “excluyó a los anexionistas de la Cuba con todos y para el bien de todos” y Fidel hizo lo mismo en 1961 con “los incorregiblemente contrarrevolucionarios”. Del mismo modo, “en la Cuba de 2021 no hay cabida para los anexionistas de siempre ni para los mercenarios del momento”.

Díaz-Canel desmontó el juego sucio del enemigo, sus intenciones, sus modos de actuar y de mentir, y adelantó los planes que han tramado para desestabilizarnos: “No somos ingenuos. Está demasiado claro que nuestros adversarios tratan, por todas las vías, de provocar un estallido social y han escogido para inducir provocaciones un momento especialmente difícil para el país por los daños acumulados debido al reforzamiento criminal del bloqueo y el desgaste generado por el largo e intenso período de pandemia, asociado a los brotes y rebrotes de la COVID-19. (…) // Preservar, bajo el peor de los ataques, la independencia y la soberanía nacional seguirá siendo la primera prioridad para quien se sienta revolucionario y patriota, aunque esas palabras en ciertos círculos se consideren obsoletas. // Obsoleta es la dependencia, obsoleta es la humillación al poderoso. De todas las libertades, la más preciada es la que nos libera a todos los que compartimos un sentimiento, la que nos inflama de orgullo ante el triunfo de un compatriota, la bandera que se iza y el himno que se entona.”

No es posible hablar hoy del 20 de octubre sin detenerse en este texto tan hondo y convincente de Díaz-Canel.

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Para Fidel la cultura era la clave de la libertad de los seres humanos, de su capacidad para no ser engañados, y el mejor antídoto para sortear las trampas seductoras del consumismo. Podía ser un componente primordial de la calidad de vida, del nivel de vida, en una concepción de la felicidad muy diferente a la promovida por la publicidad capitalista, atada a la acumulación irracional de cosas materiales —con el consiguiente saqueo de los recursos naturales y el acelerado deterioro del medio ambiente.

Pero para Fidel la cultura representa algo más. La llamó más de una vez “escudo y espada de la nación”: el escudo, ese núcleo identitario que atesoramos, nos resguarda de las influencias desintegradoras, como dirían Cintio y Lezama; la espada, por su parte, es capaz de llegar muy lejos y transporta la verdad de nuestro país (y la defiende) en los sitios más remotos.

En 1993, en los días más amargos del Período Especial, Fidel dijo en la UNEAC aquella frase que ha sido recordada con frecuencia: “La cultura es lo primero que hay que salvar.”  Se refería al arte y a la literatura, sí, pero igualmente al vínculo cognoscitivo y afectivo entre cultura y nación y a la suma de conocimientos imprescindibles para que el ser humano pueda defender su libertad, su memoria, sus orígenes, y deshacer la vasta telaraña de manipulaciones que le cierran el paso día a día.

Unos cinco años después, en el VI Congreso de la organización, Fidel habló de la globalización cultural. Dijo que era “el más importante de todos los temas, la más grande amenaza a la cultura, no solo a la nuestra, sino a la del mundo”. Había que defender nuestras tradiciones, nuestro patrimonio, nuestra creación, ante el “más poderoso instrumento de dominación del imperialismo”. Y concluyó: “aquí todo se juega: identidad nacional, patria, justicia social, Revolución, todo se juega”.

A la luz de esta severa advertencia, comprendemos más cabalmente la envergadura de la frase sobre “lo primero que hay que salvar” y el impulso personal que dio Fidel a la formación a  escala masiva de instructores de arte, a introducir la apreciación artística en el programa televisivo “Universidad para todos”, a constituir talleres de ballet para niños de barrios humildes, a la multiplicación de editoriales en todo el país y a muchas otras iniciativas de difusión lo más amplia posible de la cultura.

Díaz-Canel está pensando en estas ideas de Fidel cuando, en el discurso ya citado, afirma que nuestro enemigo “no ha logrado jamás horadar el muro infranqueable de la sólida cultura e identidad nacional”. De ahí que se empeñe en insertar sus mensajes propios de la chatarra seudocultural, cargados de vulgaridad, “en esos espacios que dejamos vacíos, confiados en que la masificación de la educación y la cultura iban a resolver espontáneamente un acumulado histórico de desigualdades de siglos que no se curan ni en seis décadas de Revolución”.

Y reconoce, con franqueza y transparencia, que “somos responsables también de nuestros índices de marginalidad”. De ahí que no podamos abandonar en ningún momento “la querella abierta por Fidel contra la incultura” desde 1961 y “seguir apostando a la decencia y a la riqueza que aporta al ser humano la cultura artística, sin cansarnos”.

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Desde hace unos días, la “espada” certera e influyente que veía Fidel en la cultura nacional está en México, en el Festival Internacional Cervantino, donde Cuba es el país invitado de honor. Nuestro Ministro, el poeta Alpidio Alonso, preside una numerosa delegación. Entrevistado por el periódico La Jornada, respondió preguntas inevitables acerca de las campañas anticubanas que han querido implicar al sector cultural.

“No existe ningún tipo de confrontación entre las nuevas generaciones y los artistas de la isla con su gobierno”, asegura Alpidio. Y agrega: “el papel de la cultura es central para el proyecto de la revolución y el socialismo cubano que nació hace más de 60 años”.

“No tiene precedente [añade]: la manera en que se ha utilizado de forma perversa la tecnología en función de falsear las cosas y construir una narrativa que adultera todo. (…) El mejor mentís a las campañas de odio y desinformación es la obra misma de los artistas cubanos, con toda su complejidad y diversidad, pues el arte que se auspicia desde las instituciones culturales creadas por la revolución es crítico, no es un arte mojigato ni contemplativo…”

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El 22 de agosto de 1980, el Consejo de Ministros aprobó que el 20 de octubre fuera considerado oficialmente Día de la Cultura Nacional. Hart hablaba con mucho orgullo del significado de que se unieran en esa fecha el poderoso legado de la creación artística y literaria de nuestro país y la tradición patriótica y revolucionaria que se extiende desde 1868 hasta el triunfo de Enero del 59.

El itinerario que nos lleva de Céspedes y Perucho Figueredo hasta los jóvenes que hoy estudian en las escuelas de arte desemboca en Martí y en Fidel y pasa por Rubén, Lam, Alejo, Lezama, Virgilio, Guillén, Cintio, Fina, Alicia, Mariano, Fayad, Retamar, Haydee, Graziella, Barnet, Nancy, Alfredo, Eusebio, Torres Cuevas, Formell, Silvio, Choco y tantos otros. Tiene que ver con la identidad cubana, con sus esencias, con su perfil irrepetible, y tiene que ver de igual forma con los ideales de emancipación y justicia social que han inspirado a nuestros creadores.

Cintio nos recordó en el año sombrío de 1993 que no puede separarse el destino de la Revolución del destino de la patria: “Lo que está en peligro, lo sabemos, es la nación misma. La nación ya es inseparable de la Revolución que desde el 10 de octubre de 1868 la constituye, y no tiene otra alternativa: o es independiente o deja de ser en absoluto.”

Nación y Revolución, patria y Revolución, no pueden concebirse separadas. Tampoco es posible imaginar la auténtica cultura cubana, la cultura nuestra, vigorosa y genuina, vendiéndose al Imperio, aliándose al anexionismo. Si es realmente cubana, si nace de nuestras raíces, si ha sido gestada por hombres y mujeres (vivan donde vivan) portadores de aquella cubanía que definió Fernando Ortiz, va a estar ligada indisolublemente al binomio de nación y Revolución, de patria y Revolución.

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