Pasqualina Curcio www.cubadebate.cu
Alcuni dicono che il socialismo è un fallimento, che genera fame e miseria. Al contrario, e come parte del discorso egemonico che è riuscito a penetrare nell’immaginario di miliardi di persone, affermano che è il capitalismo il modello da seguire. Secondo loro, quest’ultimo ha successo.
I fatti ed i numeri mostrano tutto il contrario, più del 95% dei paesi a livello mondiale sono capitalisti e, tuttavia, l’umanità è afflitta da fame, povertà e miseria nonostante tutto ciò che si è prodotto: dal 1800 al 2016, la produzione mondiale pro capite è aumentata del 1234% (Maddison Project Database 2020), vale a dire, questi ultimi due secoli di capitalismo la produzione è aumentata in proporzione maggiore della popolazione ma, ogni giorno, 2300 milioni di persone soffrono la fame e 6 milioni muoiono, tutti gli anni, per non avere da mangiare. Coloro che si trovano maggiormente in queste condizioni sono quelli della classe lavoratrice, gli stipendiati. E non è stata forse la classe lavoratrice che ha aggiunto valore e aumentato la produzione con la sua forza lavoro?
La causa principale e determinante della povertà in questo mondo è la disuguaglianza, non è, come dicono alcuni, perché si produce poco, tanto meno è associata al discorso manipolatore e malintenzionato in cui si afferma che il povero è povero perché non è produttivo, o perché è pigro, fannullone e comunque sperperatore. Il problema sta nel modo ineguale in cui è stata distribuita detta produzione che, nel capitalismo, si concentra in poche mani (la classe borghese che possiede il capitale), lasciando briciole affinché siano distribuite tra le grandi maggioranze (la classe operaia, proprietaria della forza lavoro e veri produttori). Secondo Oxfam, nel 2018, l’1% della popolazione mondiale si è appropriata dell’80% di tutto ciò che si è prodotto e il restante 20% è stato quello ripartito tra il 99% della popolazione.
Nella Nostra America, ad eccezione di Cuba, tutti i paesi sono capitalisti, c’è fame e miseria, siamo la regione con la più grande povertà e la più diseguale del mondo. Nel 2016, Alicia Bárcenas, segretaria esecutiva della Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi (CEPAL), ha dichiarato: “L’America latina continua a essere la regione più diseguale al mondo. Nel 2014, il 10% più ricco della popolazione dell’America Latina aveva accumulato il 71% della ricchezza della regione. Secondo i calcoli di Oxfam, se questa tendenza dovesse continuare, nel giro di soli sei anni l’1% più ricco della regione avrebbe più ricchezza del restante 99%”.
In pandemia, le previsioni sono state inferiori: nel 2020, il numero di miliardari nella regione è aumentato del 41%, da 76 miliardari (persone con patrimonio superiore a 1 miliardo di dollari) è passato a 107 e la loro fortuna accumulata è aumentata del 61%, è passata da $ 284 miliardi a $ 480 miliardi in un anno. I paesi con più miliardari sono: Brasile (66), Messico (14), Cile (9), Perù (6), Colombia (5), Argentina (5) (BBC News Mundo, luglio 2021).
Sapere dove e come si originano queste disuguaglianze è fondamentale. La distribuzione di ciò che viene prodotto si concreta nello stesso processo sociale di produzione, è in quel momento in cui detta produzione viene distribuita tra i lavoratori ei proprietari del capitale. Quello che viene assegnato, più o meno, a ciascuno dipende dal livello dello stipendio, se questo è più alto, il profitto sarà inferiore e viceversa. Questa distribuzione è misurata e pubblicata da tutti i paesi del mondo seguendo i manuali del FMI, è nota come distribuzione fattoriale del reddito, e per questo usano due categorie: 1) remunerazione dei salariati e 2) margine lordo di sfruttamento (così come lo state leggendo, il suddetto organismo, che non è marxista, si riferisce al profitto qualificandolo come sfruttamento). Pertanto, data una produzione, nella misura in cui il compenso ai dipendenti è minore, lo sfruttamento (o profitto) sarà maggiore.
In America Latina e nei Caraibi la produzione è stata mediamente così distribuita: per ogni 100 dollari prodotti, 37 corrispondono alla remunerazione dei salariati e 52 sono andati al margine lordo di sfruttamento, la differenza, 11 dollari, è destinata a imposte e consumo di capitale (Alarco Germán, “Cicli distributivi e crescita economica in America Latina. 1950-2014”). Con l’aggravante che, in media, per ogni capitalista ci sono almeno 10 salariati, quindi, quei 37 dollari di salario, a loro volta, devono essere distribuiti tra 10 volte più persone dei 52 di profitto.
A maggior disuguaglianza, più povertà, più fame e più miseria
Secondo il CEPAL, nel 2020, su 100 abitanti dell’America Latina e dei Caraibi, 34 erano in povertà, cioè i loro redditi (principalmente provenienti dai salari) non coprivano il paniere di base. Di questi 34 abitanti, 13 erano in condizioni di estrema povertà, cioè non solo non potevano coprire il paniere alimentare di base, ma non erano nemmeno sufficienti per il paniere alimentare. Parliamo di 209 milioni di persone povere nel 2020 (22 milioni in più rispetto al 2019) e 78 milioni in condizioni di povertà estrema (8 milioni in più rispetto al 2019).
La fame è una manifestazione della povertà, così come l’indigenza o la mortalità per cause prevenibili o l’analfabetismo o il sovraffollamento. Secondo i dati CEPAL, nel 2020, l’insicurezza alimentare (grave e moderata) ha raggiunto il 40% della popolazione della Nostra America, ovvero 249 milioni di persone non hanno avuto un accesso regolare e sufficiente al cibo (nel 2019 l’insicurezza alimentare era del 33,8%). Simultaneamente, in questo sistema capitalista che predomina nella nostra regione, vengono buttati (gettati nella discarica) 220 milioni di tonnellate di cibo all’anno, l’11,6% del cibo che si produce, che equivale a 150000 milioni di dollari USA (FAO, “Lo Stato dell’Alimentazione e dell’Agricoltura 2019”).
Nel frattempo, nel 2020, la ricchezza dei miliardari della regione è aumentata del 61%, in uno scenario in cui, per inciso, la produzione è diminuita del 6,8%. Quindi, se la torta da distribuire è minore perché si è prodotto meno e i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri sono diventati più poveri, è perché detta torta è stata distribuita molto più disugualmente di prima: ciò che veniva assegnato ai salari, in proporzione, era molto minore e quello che è andato allo sfruttamento/profitto (parafrasando il FMI) è stato molto maggiore. E’ o no la povertà e le sue manifestazioni (fame e miseria) una conseguenza dell’ineguale distribuzione di ciò che si produce?
Diminuire la povertà è una bandiera di lotta importante, certo che lo è, così come lo è la lotta alla fame e alla miseria, ma questo problema non si risolve con politiche assistenzialistiche e incentrate verso i poveri estremi, non si tratta di sussidi specifici o sacchi alimentari nel migliore stile neoliberale, il problema va oltre, è una questione di giustizia nella distribuzione della produzione nello stesso processo sociale del lavoro, che passa dal ridurre la breccia tra salario e lo sfruttamento/profitto, che è possibile solo (nell’ambito della proprietà privata dei mezzi di produzione) attraverso maggiori livelli salariali per impedire che il borghese si appropri indebitamente del valore della forza lavoro dell’operaio che è colui che, alla fine, aggiunge valore all’economia, cioè quello che produce.
Nuestra América: La más desigual
Por: Pasqualina Curcio
Dicen algunos que el socialismo es un fracaso, que genera hambre y miseria. En contraposición, y como parte del discurso hegemónico que ha logrado calar en el imaginario de miles de millones de personas, afirman que el capitalismo es el modelo a seguir. Según ellos, este último es exitoso.
Los hechos y los números muestran todo lo contrario, más del 95% de los países a nivel mundial son capitalistas, y sin embargo, la humanidad está plagada de hambre, pobreza y miseria a pesar de todo lo que se ha producido: desde 1800 hasta 2016, la producción mundial per cápita aumentó 1.234% (Maddison Project Database 2020), es decir, estos últimos dos siglos de capitalismo la producción aumentó en mayor proporción que la población, pero 2.300 millones de personas pasan hambre diariamente y 6 millones mueren todos los años por no tener qué comer. Quienes se encuentran mayoritariamente en estas condiciones son los de la clase trabajadora, los asalariados. ¿Y es que acaso no ha sido la clase obrera la que agregó valor y aumentó la producción con su fuerza de trabajo?
La causa principal y determinante de la pobreza en este mundo es la desigualdad, no es, como algunos dicen, porque se produce poco, mucho menos está asociada al discurso manipulador y malintencionado en el que se afirma que el pobre es pobre porque no es productivo, o porque es flojo, vago y de paso despilfarrador. El problema radica en la manera desigual cómo se ha distribuido dicha producción, la cual, en capitalismo, se concentra en pocas manos (la clase burguesa dueña del capital) dejando migajas para que sean repartidas entre las grandes mayorías (la clase obrera, dueña de la fuerza de trabajo y verdaderos productores). Según Oxfam, en 2018, el 1% de la población mundial se apropió del 80% de todo lo que se produjo, y el 20% restante fue lo que se repartió entre el 99% de la población.
En Nuestra América, a excepción de Cuba, todos los países son capitalistas, hay hambre y hay miseria, somos la región con mayor pobreza y la más desigual del mundo. En 2016, Alicia Bárcenas, secretaria ejecutiva de la Comisión Económica para América Latina y el Caribe (Cepal), dijo: “América Latina sigue siendo la región más desigual del mundo. En 2014, el 10% más rico de la población de América Latina había amasado el 71% de la riqueza de la región. Según los cálculos de Oxfam, si esta tendencia continuara, dentro de solo seis años el 1% más rico de la región tendría más riqueza que el 99% restante”.
En pandemia, los pronósticos se quedaron cortos: en 2020, el número de multimillonarios en la región subió 41%, de 76 multimillonarios (personas con patrimonio superior a US$ 1.000 millones) pasaron a 107, y su fortuna acumulada aumentó 61%, pasó de US$284.000 millones a US$480.000 millones en un año. Los países con más multimillonarios son: Brasil (66), México (14), Chile (9), Perú (6), Colombia (5), Argentina (5) (BBC News Mundo, julio 2021).
Conocer dónde y cómo se originan estas desigualdades es fundamental. La distribución de lo producido se concreta en el propio proceso social de producción, es en ese momento en el que dicha producción se distribuye entre los trabajadores y los dueños del capital. El que se destine más o menos a cada uno depende del nivel de salario, si este es mayor, la ganancia será menor y viceversa. Esta distribución la miden y publican todos los países del mundo siguiendo los manuales del FMI, se conoce como distribución factorial del ingreso, y para ello usan dos categorías: 1) remuneración de los asalariados y 2) excedente bruto de explotación (así mismo como lo están leyendo, el mencionado organismo, que no es marxista, se refiere a la ganancia calificándola de explotación). Por lo tanto, dada una producción, en la medida en que la remuneración a los asalariados es menor, la explotación (o ganancia) será mayor.
En América Latina y el Caribe la producción se ha distribuido en promedio de la siguiente manera: por cada 100 dólares que se producen, 37 corresponden a la remuneración de los asalariados y 52 han ido a parar al excedente bruto de explotación, la diferencia, 11 dólares, se destina a impuestos y consumo de capital (Alarco Germán, “Ciclos distributivos y crecimiento económico en América Latina. 1950-2014”). Con el agravante de que, en promedio, por cada capitalista hay, por lo menos, 10 asalariados, por lo tanto, esos 37 dólares de salarios, a su vez, debían repartirse entre 10 veces más personas que los 52 de ganancia.
A mayor desigualdad, más pobreza, más hambre y más miseria
Según la Cepal, en 2020, de cada 100 habitantes de América latina y el Caribe, 34 se encontraban en pobreza, es decir, sus ingresos (en su gran mayoría provenientes del salario) no cubrían la canasta básica. De esos 34 habitantes, 13 se encontraban en pobreza extrema, es decir, no solo no podían cubrir la canasta básica, sino que ni siquiera les alcanzó para la canasta alimentaria. Estamos hablando de 209 millones de personas pobres en 2020 (22 millones más que el 2019) y 78 millones en situación de pobreza extrema (8 millones más que en 2019).
El hambre es una manifestación de la pobreza, como lo es la indigencia o la mortalidad por causas prevenibles o el analfabetismo o el hacinamiento. De acuerdo con datos de la Cepal, en 2020, la inseguridad alimentaria (grave y moderada) alcanzó el 40% de la población de Nuestra América, es decir, 249 millones de personas no tuvieron acceso regular y suficiente a alimentos (en 2019 la inseguridad alimentaria fue 33,8%). Simultáneamente, en este sistema capitalista que predomina en nuestra región, se desechan (se botan al basurero) 220 millones de toneladas de alimentos al año, el 11,6% de los alimentos que se producen, lo que equivale a US$ 150.000 millones (FAO, “El Estado de la Alimentación y la Agricultura de 2019”).
Mientras tanto, en 2020, la riqueza de los multimillonarios de la región aumentó 61%, en un escenario en el que, de paso, la producción cayó 6,8%. Entonces, si la torta a repartir es menor porque se produjo menos y los ricos se hicieron más ricos y los pobres se hicieron más pobres, es porque dicha torta se repartió de manera mucho más desigual que antes: lo que se destinó a salarios, en proporción fue mucho menor y lo que se destinó a la explotación/ganancia (parafraseando al FMI) fue mucho mayor. ¿Es o no la pobreza y sus manifestaciones (hambre y miseria) una consecuencia de la desigualdad de la distribución de lo que se produce?
Disminuir la pobreza es una bandera de lucha importante, por supuesto que lo es, así como lo es la lucha contra el hambre y la miseria, pero este problema no se resuelve con políticas asistencialistas y focalizadas hacia los pobres extremos, no es un asunto de subsidios puntuales o bolsas de comida al mejor estilo neoliberal, el problema va más allá, es un asunto de justicia en la repartición de la producción en el propio proceso social del trabajo, lo cual pasa por disminuir la brecha entre el salario y la explotación/ganancia, que solo es posible (en el marco de la propiedad privada de los medios de producción) mediante mayores niveles de salario para impedir que, el burgués, se apropie indebidamente del valor de la fuerza de trabajo del obrero que es quien, al final, agrega valor a la economía, o sea el que produce.