Osservazione elettorale, ingerenza e conflitto

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Le missioni di osservazione elettorale hanno generalmente lo scopo di monitorare, elaborare informazioni rilevanti dal terreno e generare conclusioni sullo svolgimento delle elezioni secondo il quadro generale delle regole standardizzate del gioco democratico.

Nella stragrande maggioranza dei casi, la presenza delle missioni di osservazione è condizionata dallo Stato che l’ha preventivamente autorizzata, pertanto, la sua attività deve essere improntata alla collaborazione e al rispetto dell’ordinamento giuridico del paese, evitando di incorrere in azioni o dichiarazioni che possano pregiudicare la credibilità delle istituzioni elettorali nazionali o che avvantaggino direttamente un concorrente a scapito dell’altro.

Tuttavia, benché debbano essere regolate da questi principi, le missioni di osservazione delle potenze occidentali di solito eccedono i limiti istituzionali delle loro funzioni precedentemente concordate, convertendosi in una risorsa asimmetrica d’ingerenza e disturbo degli eventi elettorali.

Le missioni di osservazione elettorale dei centri di potere occidentali partono da un pregiudizio neocoloniale che stabilisce una linea divisoria tra paesi osservatori e osservati, dove i primi fanno appello a una presunta superiorità democratica che li autorizza a supervisionare, arbitrare e persino decidere se negli altri paesi si rispettano un insieme di principi e regole predefinite da questi centri di potere.

In più casi, queste missioni hanno scatenato la polarizzazione politica, alimentato posizioni estreme e promosso persino colpi di stato, mentre la gestione politica delle conclusioni dell’osservazione incoraggia lo scontro.

Uno dei casi più importanti in questo senso sono state le elezioni in Ucraina del 2004, che hanno visto contrapporre Victor Yanukovich (candidato alla rielezione) e Victor Yushchenko (dirigente dell’opposizione). Sebbene Yanukovich abbia vinto il secondo turno con il 49,42% dei voti, contro il 46,7% dell’oppositore, la missione elettorale guidata dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) ha denunciato brogli diffusi nelle elezioni, accusando l’autorità elettorale del paese europeo di non creare un contesto favorevole alla trasparenza e affermando che c’era stato voto multiplo a vantaggio di Yanukovich. Già nella prima tornata la missione di osservazione dell’OSCE aveva denunciato irregolarità, ciò che ha creato condizioni psicologiche e di disconoscimento istituzionale favorevoli alla sentenza di frode.

Ciò ha incoraggiato l’opposizione a scendere in piazza, ciò che ha portato alla cosiddetta “rivoluzione arancione”, una rivoluzione di colore ispirata al modello di Gene Sharp con la quale si cercava di rovesciare Yanukovich attraverso proteste violente, infiltrazioni nelle forze di sicurezza e appelli esterni di disconoscimento delle elezioni. Il clima di rivolta e proteste, distorto dai media e sostenuto dalle potenze occidentali, ha costretto a una ripetizione delle elezioni, questa volta con una missione elettorale molto più rafforzata dalla trama del golpe, dove Yushchenko ha ottenuto la vittorio di stretto margine.

Nel 2006, durante le elezioni presidenziali in Bielorussia, dove Alexandr Lukashenko ha vinto con un ampio margine di differenza, la missione di osservazione elettorale dell’OSCE ha denunciato che le elezioni non rispettavano gli standard dell’istanza per essere classificate come trasparenti. La missione ha fatto questa argomentazione sulla base di elementi laterali che andavano oltre l’evento elettorale in sé, dove non ha avuto  ricevuto grandi critiche. Le sue conclusioni sono state tratte da valutazioni soggettive e generali sui temi della libertà di stampa, della campagna dell’opposizione e dell’azione dei servizi di sicurezza in difesa dell’ordine pubblico.

La denuncia della missione elettorale, come in Ucraina, ha riscaldato gli animi dell’opposizione e dei suoi dirigenti, che hanno cercato di replicare l’esperienza della “rivoluzione arancione” tenendo accampamenti improvvisati davanti alle istituzioni e convocando proteste, che sono state rapidamente disattivate, ma che cercavano di fabbricare un clima di delegittimazione generale delle elezioni al fine di accumulare forza nelle strade e avviare un ciclo di violenza di strada che terminasse come in Ucraina.

Nel 2011 anche le elezioni generali in Nicaragua, in cui sarebbero stati eletti il ​​presidente e deputati all’organo legislativo nazionale, sono state segnate da azioni di pressione e ingerenza. All’evento elettorale hanno partecipato le missioni elettorali dell’Unione Europea (UE) e dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA).

La rielezione presidenziale di Daniel Ortega con oltre il 60% dei voti e del suo partito, il Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN) nel legislativo, non ha evitato che le conclusioni finali di entrambe le missioni cercassero di delegittimare il processo e screditare la vittoria della prima forza politica del paese, utilizzando accuse laterali che neppure compromettevano la credibilità dei risultati.

La missione dell’OSA ha avvertito che c’erano situazioni “preoccupanti” come non aver autorizzato il ruolo di controllo elettorale di alcune ONG. Ha anche chiesto alla Corte Suprema di Giustizia di risolvere l’inabilitazioni di candidati dell’opposizione e anche cambiare la composizione partitaria delle Commissioni Recettori di Voti, che sono essenziali per il processamento dei voti. Le dichiarazioni dell’OSA implicavano un’ingerenza negli affari interni del paese centroamericano e un tentativo di perturbare la sua dinamica istituzionali interna per quanto riguarda la gestione della situazione elettorale, sotto la premessa di delegittimare indirettamente il processo elettorale, utilizzando fattori secondari che in nulla influivano il giudizio finale della sovranità popolare.

Da parte sua, la missione UE ha registrato una serie di “anomalie” nel suo rapporto finale che cercavano catapultare l’effetto di delegittimazione avviato dall’OSA. Nel testo redatto dagli osservatori, la missione europea ha attaccato il Consiglio Supremo Elettorale per carenze nella lista elettorale, ritardi nell’accreditamento dei testimoni e problemi relazionati al rilascio delle carte d’identità. Queste deficienze non sono state prese dalla missione come complicazioni tecniche, bensì come “ostacoli al pluralismo”, utilizzando una lettura politicizzata e d’ingerenza, ben lontana dalla neutralità che esige il codice di condotta della stessa Unione Europea agli osservatori.

Il caso più allarmante dell’uso delle missioni di osservazione elettorale come strumenti di colpo di Stato è senza dubbio lo Stato Plurinazionale della Bolivia, dove l’OSA ha svolto un ruolo di primo piano nel creare le condizioni per un violento cambio di regime durante le elezioni generali di fine 2019.

Il rapporto finale dell’audit della missione ha determinato, mediante campioni distorti e altri apertamente fabbricati, che l’interruzione del conteggio del sistema TREP ha violato i risultati delle urne e ha reso impossibile verificare se i risultati che davano la vittoria al primo turno al presidente e candidato alla rielezione, Evo Morales, erano trasparenti.

La missione ha anche affermato che sono stati commessi atti dolosi nella votazione dopo l’alterazione delle firme dei verbali e la falsificazione degli addetti ai seggi, motivo per cui l’istanza ha dichiarato che vi era stata frode.

Il rapporto della missione ha esacerbato la polarizzazione politica che aveva già segnato l’agenda elettorale ed è servito da impulso per la mobilitazione e legittimazione politica per la trama golpista che, precedentemente, si andava preparando dall’estrema destra di Santa Cruz, volto a provocare il rovesciamento del presidente Evo Morales e inaugurare un ciclo di persecuzione politica e stato d’assedio per far scomparire il Movimento al Socialismo (MAS, partito di Morales) dalla mappa politica e dall’esistenza della nazione andina.

Le motivazioni politiche e la fragilità argomentativa dell’audit dell’OSA sono venute allo scoperto poco dopo, dopo vari rilievi da parte di centri di ricerca indipendenti, che hanno mostrato che alcuni problemi distorti ai seggi elettorali non hanno avuto un importante impatto sulla vittoria di Morales, per cui il parere della frode mancava di solide prove.


OBSERVACIÓN ELECTORAL, INJERENCISMO Y CONFLICTO

Las misiones de observación electoral por lo general tienen como objetivo acompañar, procesar información relevante desde el terreno y generar conclusiones sobre el desarrollo de comicios de acuerdo al marco general de reglas estandarizadas del juego democrático.

En la gran mayoría de los casos, la presencia de las misiones de observación está condicionada por el Estado que así lo ha autorizado previamente, por ende, su actividad debe estar marcada por la colaboración y el respeto al ordenamiento jurídico del país, evitando incurrir en acciones o declaraciones que puedan afectar la credibilidad de las instituciones nacionales electorales o que beneficien directamente a un competidor en menoscabo del otro.

No obstante, aunque deben regirse por estos principios, las misiones de observación de las potencias occidentales usualmente suelen rebasar los límites institucionales de sus funciones previamente acordadas, convirtiéndose en un recurso asimétrico de injerencia y perturbación de los eventos electorales.

Las misiones de observación electoral de los centros de poder occidental parten de un sesgo neocolonial que establece una línea divisoria entre países observadores y observados, donde los primeros apelan a una supuesta superioridad democrática que los autoriza a fiscalizar, arbitrar y hasta decidir si en los demás países se cumplen un conjunto de principios y reglas predefinidas por estos centros de poder.

En múltiples casos, estas misiones han desencadenado la polarización política, atizado posiciones extremas y promovido hasta golpes de Estado, en tanto el manejo político de las conclusiones de la observación alienta a la confrontación.

Uno de los casos más destacados en este sentido fueron las elecciones de Ucrania en 2004, que enfrentó a Víctor Yanukóvich (candidato a la reelección) con Víctor Yúschenko (líder de la oposición). Aunque Yanukóvich se alzó con la victoria en la segunda vuelta con un 49,42% de los votos, frente al 46,7% del opositor, la misión electoral encabezada  por la Organización para la Seguridad y Cooperación en Europa (OSCE) denunció un fraude generalizado en los comicios, acusando a la autoridad electoral del país europeo de no crear un contexto propicio de transparencia y afirmando que hubo votación múltiple que beneficiaron a Yanukóvich. En la primera vuelta la misión de observación de la OSCE ya venía denunciado irregularidades, lo que creó condiciones psicológicas y de desconocimiento institucional favorables para el dictamen de fraude.

Esto alentó a la oposición a salir a las calles, lo que abrió paso a la denominada “revolución naranja”, una revolución de colores inspirada en el modelo de Gene Sharp con la cual se buscaba derrocar a Yanukóvich mediante protestas violentas, infiltración en las fuerzas de seguridad y llamados externos de desconocimiento de las elecciones. El clima de alzamiento y protestas, distorsionado por los medios y apoyado por las potencias occidentales, forzó a una repetición de las elecciones, esta vez con una misión electoral mucho más fortalecida por la trama del golpe, donde Yúschenko obtuvo la victoria por un estrecho margen.

En el año 2006, durante las elecciones presidenciales en Bielorrusia donde resultó vencedor Alexandr Lukashenko con un amplio margen de diferencia, la misión de observación electoral de la OSCE denunció que los comicios no cumplían con los estándares de la instancia para ser calificados como transparentes. La misión sostuvo este argumento en función de elementos laterales que iban más allá del evento electoral en sí, donde no tuvo mayores críticas. Sus conclusiones fueron tomadas a partir de apreciaciones subjetivas y generales sobre los temas de libertad de prensa, la campaña de la oposición y la actuación de los servicios de seguridad en la defensa del orden público.

La denuncia de la misión electoral, como en Ucrania, caldeó los ánimos de la oposición y sus dirigentes, que intentaron replicar la experiencia de la “revolución naranja” realizando campamentos improvisados frente a instituciones y convocando protestas, las cuales fueron desactivadas rápidamente, pero que buscaban fabricar un clima de deslegitimación general de las elecciones para de esa forma acumular fuerza en las calles e iniciar un ciclo de violencia callejera que terminase como en Ucrania.

En 2011, las elecciones generales en Nicaragua, en la cual se elegirían presidente y diputados al cuerpo legislativo nacional, también estuvieron marcadas por acciones de presión e injerencismo. Al evento electoral concurrieron las misiones electorales de la Unión Europea (UE) y de la Organización de los Estados Americanos (OEA).

La reelección presidencial de Daniel Ortega con más del 60% de los votos y de su partido, el Frente Sandinista de Liberación Nacional (FSLN) en el legislativo, no evitó que las conclusiones finales de ambas misiones buscaran deslegitimar el proceso y desacreditar la victoria de la primera fuerza política del país, empleando acusaciones laterales que tampoco comprometían la verosimilitud de los resultados.

La misión de la OEA alertó que había situaciones “preocupantes” como no haber autorizado el papel de veeduría electoral de algunas ONG. También exigió a la Corte Suprema de Justicia resolver las inhabilitaciones de candidatos opositores y también cambiar la composición partidaria de las Juntas Receptoras de Votos, fundamentales en el procesamiento de los votos. Las declaraciones de la OEA implicaban una injerencia en los asuntos internos del país centroamericano y un intento de perturbar su dinámica institucional interna en lo referido al manejo de la situación electoral, bajo la premisa de deslegitimar el proceso de forma indirecta los comicios, utilizando factores secundarios que en nada afectaban el dictamen final de la soberanía popular.

Por su parte, la misión de la UE registró un conjunto de “anomalías” en su informe final que buscaban catapultar el efecto de deslegitimación iniciado por la OEA. En el texto redactado por los observadores, la misión europea atacó al Consejo Supremo Electoral por deficiencias en el padrón electoral, retardos en la acreditación de testigos y problemas relacionados con la emisión de las cédulas de identidad. Estas deficiencias no fueron tomadas por la misión como complicaciones técnicas, sino como “trabas al pluralismo”, empleando una lectura politizada e injerencista, muy alejada de la neutralidad que exige el código de conducta de la propia Unión Europea a los observadores.

El caso más alarmante del uso de las misiones de observación electoral como herramientas de golpe de Estado es sin lugar a dudas el Estado Plurinacional de Bolivia, donde la OEA tuvo un lugar destacado en crear las condiciones para un cambio de régimen de carácter violento durante las elecciones generales de finales de 2019.

El informe final de la auditoría de la misión determinó, mediante muestras distorsionadas y otras abiertamente fabricadas, que la paralización del conteo del sistema TREP vulneró los resultados de las urnas e hizo imposible constatar si los resultados que daban la victoria en primera vuelta al presidente y candidato a la reelección, Evo Morales, eran transparentes.

La misión también afirmó que se cometieron actos dolosos en la votación tras la alteración de firmas de las actas y la falsificación de jurados de mesas, razón por la cual la instancia declaró había existido fraude.

El informe de la misión exacerbó la polarización política que ya venía marcando la agenda electoral y fungió como impulso de movilización y legitimación política para la trama golpista que previamente se venía preparando desde la extrema derecha santacruceña, orientada a provocar el derrocamiento del presidente Evo Morales e inaugurar un ciclo de persecución política y estado de sitio para desparecer al Movimiento al Socialismo (MAS, el partido de Morales) del mapa político y existencia de la nación andina.

Las motivaciones políticas y la fragilidad argumental de la auditoría de la OEA quedaron al descubierto al poco tiempo, tras diversos hallazgos de centros de investigación independientes, que demostraron que algunos problemas distorsionados en las mesas de votación no tenían mayor incidencia en la victoria de Morales, por lo que el dictamen de fraude carecía de pruebas sólidas.

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